Leonora Carrington: penna, pennello e altre chimere

7 Giugno 2022

“Caro Henri,

[…] non sono più la ragazza Incantevole che è passata da Parigi, innamorata – 

Sono una vecchia signora, che ha vissuto molto e sono cambiata – se la mia vita vale qualcosa io sono il risultato del tempo – Dunque non riprodurrò più l’immagine di prima – Non sarò mai pietrificata in una «giovinezza» che non esiste più – Accetto l’Onorevole Decrepita attuale – quello che ho da dire ora è senza veli quanto è possibile – Vedere attraverso Il mostro – Lei lo capisce questo? No? Pazienza. In ogni modo faccia quel che vuole con questo fantasma –

a condizione 

che pubblicherà

questa lettera come prefazione – 

Come una vecchia Talpa che nuota sotto i cimiteri mi rendo conto che sono sempre stata cieca – cerco di conoscere La Morte per avere meno paura, cerco di vuotar via le immagini che mi hanno resa cieca – […]

Leonora”

 Leonora Carrington: dopo, prima, quando?

Leonora Carrington, nata nel 1917 a Clayton Green, Inghilterra, autorizza così nel 1973, con una lettera a Henri Parisot della casa editrice parigina Le Terrain vague, la pubblicazione di un piccolo “diario di follia”, En bas, scritto nel 1943, a tre anni di distanza dall’internamento nella clinica del dottor Morales, a Santander, Spagna. In Italia lo riprenderà di lì a poco, nel 1979, nella splendida, empatica traduzione di Ginevra Bompiani, l’editore Adelphi. Titolo: Giù in fondo

Nel maggio del 1940 Max Ernst, l’uomo amato, è stato condotto per la seconda volta in un campo di concentramento. Lei, pazza di solitudine e spaesamento, prende a mondarsi da quell’ingiustizia, dall’“ingiustizia del mondo”, digiunando e lavorando al suo vigneto e alle sue patate con una forza fisica ignota e che non conoscerà mai più in seguito. Suda e si purifica, mentre “fuori” il Belgio crolla e i tedeschi entrano in Francia. Il “fuori” si è capovolto in “dentro”, anzi tra l’uno e l’altro non c’è soluzione di continuità. Il corpo è un grumo di conflitti, un terreno poroso e smottante. Come la scrittrice e pittrice libanese Etel Adnan (1925-2021) scriverà nel 2003 nel monologo/flusso di coscienza Essere in tempo di guerra, si può avere “male all’Iraq”. L’organismo vivente è una stazione sismica: il suo ago registra i tremori della terra indicando con fermezza “la strada lunga e stretta che conduce il mondo al mattatoio”. 

Alla fine il volto plissettato di Carrington, che morirà nel 2011, è una pagina coperta di ideogrammi. Le ci è voluta una vita per cancellarne quella levigatezza che lo rendeva splendente occultandone l’ombra. Il tempo è strumento paziente e sapiente: permette di accedere al proprio sé destinale, quello che ci aspetta da sempre nella nostra incognita memoria profonda. Si misurano così l’età e la magnificenza di un albero o di una roccia, attraverso quel lento lavorio che si manifesta sulla loro superficie e nella loro trama più intima, fatta di caso e di lasciti, di accidenti e genealogie.

Nella sua implacabile liberatoria editoriale, Carrington congeda il “fantasma” e rivendica il “mostro”, si dichiara “risultato del tempo” e rifiuta la “pietrificazione” che ci vorrebbe per sempre giovani e ricalcate sul desiderio altrui. Il suo corpo è corteccia e fossile, e il suo sguardo ha la cecità veggente di una talpa abbacinata dalle immagini e ansiosa di fare amicizia con la morte, l’irrappresentabile, l’inimmaginabile. Il corpo, destinato a disfarsi in polvere o cenere, sa che la propria resurrezione è nei fiori e nei lombrichi, nei licheni e nelle radici. Il corpo non muore, transita. Carrington lo ha sempre saputo e lo ha dimostrato con penna e pennello, disegnando audaci iperrealistiche mappe oniriche, perturbanti tracciati dell’inconscio. Per lei, refrattaria alle norme e alle compartimentazioni ben prima dei simbionti di Donna Haraway e dell’ingovernabile funghetto postatomico di Anna Tsing, la vita è mutazione costante e perpetuo sconfinamento tra sé e tutto l’altro, organico e inorganico. La morte non può che esserne il culmine, la metamorfosi suprema. Cos’è dunque che muore tanto da riempire di incubi la nostra vita terrena? Di che cosa, esattamente, abbiamo paura?  

  

 Max Ernst e Leonora Carrington

 

Occhi chiusi/occhi aperti. Controllo/abbandono. Mani-perimetro/corpi arresi. È importante sapere chi ha potere sull’altro? L’osmosi è evidente e il gioco amoroso mette in movimento tutte le possibili figure del desiderio. Le dicotomie maschile/femminile, passivo/attivo, dominante/dominato non sono smentite, bensì implicate, interrogate, scardinate, godute. In amore il corpo si affida con fiducia all’altro corpo. È la separazione a sbilanciare, la distanza a spingere sull’orlo dell’abisso. Di questo vuoto patirà Carrington, tanto da finire sul “fondo”. 

Quel fondo è però anche una posizione politica, una dismisura: quando il cerchio si stringe e le regole si fanno più rigide o irrevocabili, sottrarsi diventa un dovere e un’arte, un gesto vocale e una performance. Carrington interpreta la sua follia, mettendola in scena attraverso il proprio corpo e trasponendola sulla tela e sulla pagina. Definita ‘surrealista’, viene associata a un movimento che non la contiene del tutto. Come altre artiste della sua generazione – tra loro Frida Kahlo, María Izquierdo, Remedios Varo, Meret Oppenheim – lei si serve di simboli ‘enigmatici’ e ‘paranormali’, perché sono quanto di più si avvicina alla sua esperienza mentale e corporea. Le sue figure ibride e magmatiche, i suoi cadaveri squisiti, sono la materializzazione della vita come la conosce, concreta e tuttavia incredibilmente sfuggente, instabile, mercuriale. Oggettivo e soggettivo sembrano cambiare continuamente di segno. Fluttuano. Oscillano. Si elidono.

 

Leonora Carrington

 

La Biennale Arte 2022 mutua il proprio titolo, Il latte dei sogni, da un suo piccolo libro di ‘terrificanti’ disegni e fulminei racconti. Carrington li crea nella sua casa di Città del Messico – per sessant’anni suo luogo d’elezione – per i figli bambini. Le pareti della stanza su cui li schizza saranno riverniciate e i suoi personaggi ‘mutanti’ spariranno, ma ne resta traccia in un quaderno pubblicato nel 2017 (trad. it. di Livia Signorini, Adelphi 2018). 

Cosa raccontano quelle favole minimali e quelle illustrazioni che fanno tremare di paura i due bambini? Raccontano di un mondo in bilico tra reale e immaginario, possibile e potenziale. Dichiarano soprattutto l’atroce e al contempo promettente incostanza dello statuto del vivente: nulla è solo se stesso, nulla è stabile, nulla appartiene al campo granitico e inalterabile dell’essenza. Il vivente è forte della sua vulnerabilità, non può esistere se non in connessione. Una totalità e un’infinitudine fragili, non autosufficienti, che possono allucinarsi nel proprio contrario solo per diniego o delirio di onnipotenza. Leonora Carrington, come la Charlotte Perkins Gilman di La carta da parati gialla, è cosciente che i muri di una stanza possono chiudersi su di te come un avello, che il passato non se ne va e il futuro può non arrivare mai, che le madri possono essere “vacche” e i padri “forma geometrica” adibita a veicolare il principio d’autorità (si veda L. Carrington, La debuttante, trad. it. di Mariagrazia Gini e Nancy Marotta).

Cecilia Alemani, curatrice della 59sima edizione della Mostra d’arte di Venezia, accaduta dopo due anni di pandemia conclamata e almeno quarant’anni di avveniristiche ricerche e non solo futuribili approdi tecno-scientifici, dichiara: “L’esposizione Il latte dei sogni sceglie le creature fantastiche di Carrington, insieme a molte altre figure della trasformazione, come compagne di un viaggio immaginario attraverso le metamorfosi dei corpi e delle definizioni dell’umano”.

Come non constatare che là dove le tecnoscienze, l’elettronica, l’informatica sono in grado di usarci come pezzi di ricambio, protesizzarci all’infinito, colonizzare il nostro genoma, ma anche di ‘ubiquizzarci’ inchiodandoci ai nostri arti digitali e accasandoci nelle nostre eCloud, il corpo non è più mio/tuo/suo, femminile, maschile, omo, etero, binario, trans, cis, bianco, nero, vecchio, giovane, abile … Il corpo umano, fatto di cellule e atomi, è tornato a essere inequivocabilmente e prima di tutto materia cangiante. Il latte dei sogni sgorga da lì, in un ininterrotto cortocircuito autoestrattivo. 

 

Leonora Carrington, Crookhey Hall, 1986

“Non avevo mai saputo di essere una surrealista», scrive Frida Kahlo, «finché André Breton non venne in Messico a comunicarmelo. La sola cosa che so è che dipingo perché ne ho bisogno e dipingo sempre quello che mi passa per la testa, senza pensare ad altro”. 

In Crookhey Hall, una litografia che Carrington realizza nel 1986, a distanza di alcuni decenni dall’abbandono della dimora paterna, si legge quello stesso bisogno, quel dipingere quasi alla lettera ciò che passa per la testa, trafigge il cuore e manomette il corpo. Neppure lei cerca di razionalizzarlo, convinta com’è che la ragione inganni, che ciò che si vede non sia mai solamente come appare. Non solo perché la realtà è complessa, multiforme, illusoria, ma perché chi osserva non occupa mai la stessa posizione e non è mai sempre uguale a se stesso. Ecco perché l’ordinato paesaggio che circonda il  palazzo sullo sfondo si disassa aprendosi a un’edipica fuga. 

Nello spazio/tempo narrativo di Carrington, così come nella sua biografia, le favole possono ritrovare la loro fondante capacità di spiccare le teste dai corpi, metabolizzando l’horror in humour. Tant’è che nel suo ultimo romanzo, Il cornetto acustico (trad. it. di Ginevra Bompiani, Adelphi 1974), una vecchia di novantanove anni può dirci impassibile: “Qui devo specificare che nessuno dei miei sensi è stato minimamente intaccato dall’età. Un giorno troverò il modo di andarmene e scoprirò perché sono rimasta così a lungo […] Che nessuno pensi che la mia mente vaghi lontano; vaga, ma non più lontano di quanto voglio io”. 

Sordità come risorsa. Anzianità come ilare arma di combattimento.

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