L'era glaciale dei grandi editori. Livio Garzanti

17 Febbraio 2015

Sembra trascorso molto tempo (un’era geologica) da quando l’editoria era in mano agli editori (anche se etimologicamente tra i due termini non sembrano esserci contraddizioni). Al proposito intervenendo a un incontro di Nazione indiana sostenni, suscitando un po’ di ilarità nei presenti, che se era vero che gli editori erano al più scomparsi, noi editor (guadagnando una coerenza etimologica recente, prima eravamo redattori) ci ritrovavamo, al contrario, onnipresenti, nel Grand tour fine Novecento delle case editrici. In parte, non posso negare, vivevamo l’epoca d’oro della fine della schiavitù, in parte eravamo consapevoli di star per entrare nei gironi semi infernali del valzer delle Proprietà. Uscivamo intimoriti, almeno i più, dallo sguardo raggelante degli Editori: Livio Garzanti certo, teorico dell’Amore freddo, Giulio Einaudi ancor più glaciale, la pupilla azzurrognola limpida di un perfetto Husky). Stavamo per metterci alla prova, allievi più volte rinnegati e poi talvolta riabilitati, di quei Grandi. Snob tutti e due (inconsapevolmente parlavano con un tono nasale, e spesso sprezzante), mai occupati però, loro Principi e Padroni, nel profondo delle loro ossessioni, a fare i conti con il mercato librario in termini di soldi.

 

Di Einaudi ricordo, nelle ultime riunioni del mercoledì, che di soldi non si poteva parlare proprio («è un problema dei commerciali» diceva); di Garzanti, che ho conosciuto meglio, non ho mai dimenticato il refrain «troppo facile fare libri belli che non vendono, troppo facile fare libri brutti per venderli». Era una sfida tutta novecentesca, quella, legata all’idea sì di far profitto (gli affari a Garzanti sono sempre andati benone) ma ancor più di emancipare culturalmente quelle classi medie italiane allora in vistosa espansione. Mondi diversi, certo il primo, quello della Storia d’Italia Einaudi, più legato anche a una fede politica convinta, non così dissimili però se si pensa all’idea delle Garzantine, sintetiche ma sofisticate insieme, curate da orde di specialisti (ricordo Gianni Vattimo che curava con la sua scuola la Garzantina di Filosofia). Tutti immersi in una incessante pedagogia. Tutti a scuola sempre. Redattori e autori che spesso diventavano consulenti.

 

Non ci si crederebbe ma ho immagini lontane nella mente in cui Gianni Vattimo ma anche il mitico (mitico in tutti i sensi ai miei occhi, non solo perché si occupava di miti) Furio Jesi e Enrico Castelnuovo (da poco scomparso anche lui) erano tutti riuniti a fare la “voce modello” – si diceva allora – per l’Enciclopedia Europea con Garzanti che rileggeva i compiti spesso facendoli rifare (è anche vero che allora i consulenti erano strapagati, e quando cadevano in disgrazia ricevevano talvolta un aumento del compenso a indicare aristocraticamente lo stato di sfortuna). Garzanti era più colto di Einaudi ma meno politico, incapace per la sua costante irritabilità e lunaticità (direi genericamente nevrosi) di costruire un gruppo stabile intorno a sé, incline a competizioni personali (in genere solo mentali ma per questo pericolose) che spesso si traducevano in critiche oltraggiose. Ricordo i rapporti molto ondivaghi ad esempio con personaggi come Cesare Garboli, quasi impossibili con gli storici, i migliori tutto sommato con i poeti e con i filosofi, Gianni Vattimo ma anche Roberta De Monticelli. Garzanti viveva sia linguisticamente sia metaforicamente avvolto nel paradosso. Ricordo che usava dire che l’editore è antropologicamente un fallito per questa sua attitudine a occuparsi dei libri degli altri.

 

Però se si andava in profondità, dietro quei paradossi infiniti si nascondevano delle convinzioni profonde. Da cui non so quanto consapevolmente mi sono nutrita anch’io. L’insofferenza per lo specialismo e una certa accademia. Ricordo ancora come una tortura quando, per addestrarmi ai segreti del mestiere, mi mise alla guida del manuale di storia per le medie. Per me fu uno dei momenti più ingloriosi, non avevo nessuna dimestichezza con la scolastica. Mi affiancò Oreste del Buono, che resistette pochissimo, poi fu il turno di Giovanni Raboni («non è un po’ sovradimensionato?» chiesi), poi altri… tutti purché non fossero storici. Eppure, in questo apparente non sense, mi insegnò l’importanza, nel lavoro editoriale, di far capire a chi scrive la natura variabile dell’interlocutore. Che va costruita ogni volta nel proprio armamentario linguistico e concettuale e che, ad esempio, storici o scienziati sociali (quelli delle scienze dure) spesso trascurano, rivolgendosi al manipolo incorrotto ma sparuto degli iniziati, precludendosi un pubblico (non solo un mercato). Il poliedrico Goffredo Fofi, ad esempio, stendeva tutto da solo quello che oggi si chiama il Copertinario, con le anticipazioni di tutti i libri in uscita (spesso delle vere e proprie gemme).

 

Garzanti era capace di generosità esplosive e di vere e proprie forme di sadismo (“sadomasochismo” correggeva): con autori e redattori. Il sistema che valeva per i redattori – ma non solo, potendo contare sul narcisimo incontinente degli autori – consisteva nell’elevare il malcapitato alle stelle, facendogli intravvedere destini celestiali (a scapito sempre di qualcuno immeritatamente famoso e di successo) per poi precipitarlo, di lì a poco, negli inferi di quelli che devono ritenersi colpevoli di tutto: se la casa editrice affonda, se bisogna chiudere il reparto, se le cose vanno male in genere… Molti di noi sono sfuggiti a queste pressioni continue (soprattutto i più giovani) rifugiandosi nell’ironia e nell’autoironia (avevamo del resto l’esempio del Padrone di Goffredo Parise: incredibile quanto, mutate ere e persone, gli scenari psicologici fossero sempre gli stessi). Ci salvavamo spesso anche intavolando con lui discussioni di politica e culturali in senso lato (un altro mondo se si pensa ai ritmi di oggi) per non cascare in contradditori pericolosi o farci distruggere il lavoro di mesi con una battuta feroce. Piero Gelli era un campione, anche in questo. Però tutto ciò, al di là delle strategie di noi dipendenti, faceva intendere che l’editoria per Garzanti non erano solo i libri, né solo quelli che pubblicava lui. Frequentava Alberto Moravia, senza essere il suo editore, Umberto Eco lo ricordo nel palco alla Scala della moglie, Gina Lagorio. Né misurava il nostro lavoro in termini di produttività (anzi temeva spesso i produttivi per i danni incontrollabili che potevano fare).

 

È un mondo, questo, scomparso, certo pieno di lussi che non ci si può più permettere ma vitale, di quella scorza di cui i libri devono essere fatti, almeno secondo le lezioni che ho assorbito. Garzanti lo sapeva che quel mondo era finito: non solo perché le Grandi Opere o i dizionari su cui si fondava lo zoccolo duro della sua casa editrice stavano per digitalizzarsi o perché le reti rateali erano in via di estinzione. Lo diceva in tanti modi, lucidamente o usando il suo linguaggio paradossale: come quando uno dei suoi dirigenti gli fece notare compiaciuto – primissimi anni Novanta – che molti dipendenti avevano lasciato la casa editrice con il favore di dimissioni altamente agevolate (così usava all’epoca, quando almeno l’articolo 18 non era ancora minacciato da Renzi). Livio spiazzava sempre i suoi interlocutori, ma credo che quella volta non pensasse tanto a chi gli stava intorno quando rispose a commento del provvidenziale ridimensionamento dei dipendenti (eravamo 800 quando sono entrata in casa editrice) : «Sì però quelli bravi li ho ancora sul groppone». Ripensandoci oggi, quelle parole surreali rappresentavano una dichiarazione di disperazione: di sfiducia nel compito futuro della casa editrice. Che non a caso avrebbe venduto di lì a poco.

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