Leviathan. L'invisibile abisso del politico
«Ogni cosa è un segno». Questa breve sentenza, che certamente in certi ambienti di cultura “umanistica” è ormai, se non condivisa, molto nota, lascia invero al senso comune (e al senso comune di chiunque, financo del soggetto che la sostiene nei suoi momenti “impegnati”) un sapore di astrattezza e di confusione. «Come sarebbe, risponde l’uomo della strada, una cosa è una cosa – poi ci sono delle cose che fungono pure da segni. Ma che tutto sia segno, suvvia, lo si può sostenere solo per amore di paradosso, di provocazione, ma nessuno davvero ci crede!».
Che le cose si muovano davvero così e non invece altrimenti da come per lo più le si immagina è in realtà niente affatto scontato, ma sarebbe una lunga strada, che non possiamo con tutta evidenza imboccare qui. Basti però ricordare che, ogni volta che noi stiamo in una situazione concreta e determinata, incontriamo sempre gli oggetti non isolatamente, ma in un sistema di rimandi che fa di ognuno di essi ciò che è solo in un rilancio simile a quello che comunemente si intende come “treno di pensieri” (salvo che qui non si intende nulla di “soggettivo”). L’esperienza ci dà prova di questa fuga infinta delle cose e dei significati, se appena vi facciamo attenzione: in un certo senso, la vita altro non è che l’inseguimento, nella veglia e, a quanto pare, anche nel sogno, di questo rimando senza soluzione di continuità.
Questa premessa sembra fuori luogo se si tiene conto che di seguito scriverò di un film uscito qualche settimana fa nei cinema italiani, vale a dire Leviathan di Andrei Zvyagintsev. Ma il fatto è che ho intenzione di considerare la pellicola proprio a partire da questa osservazione, che mi ha sorpreso mentre la seguivo – una fuga di pensieri sulla quale ho acceso la mia attenzione e che mi ha fatto comprendere quanti non-detti, anche involontari, l’opera contenga. Tutto ciò che sia frutto di un’arte umana sussiste senz’altro nel ritmo della vita, consistendo la sua capacità di traghettare il senso non solo per ciò che era l’originaria intenzione del suo artefice, ma caricandosi via via di significati coincidenti con le risposte occasionate dagli interpretanti che si trovano a doverle corrispondere. In effetti un tale fenomeno vale per ogni cosa, anche non prodotta dall’ingegno: un conto è un fulmine studiato in un laboratorio, un altro è il suo accadere per un uomo del mito. Ma con le opere frutto della volontà di soggetti siamo soliti, certamente con buone ragioni, fare una distinzione tra ciò che in verità intendeva fare l’artefice e ciò che noi vi riconosciamo. Ora, senza entrare nel dettaglio delle questioni che una tale distinzione solleva, mi preme qui sottolineare che i significati che hanno caratterizzato l’agire finalizzato dell’autore sono tuttavia nel medesimo sempre abitati da una storia più antica, dalla quale pure dipendono; c’è un remoto passato obliato che abita tutti i nostri sensi espliciti e che costituisce la vera e propria condizione necessaria per scelte “consapevoli”, che ci fanno agire così come agiamo.
Così io non so dire invero se, oltre alla manifesta allusione al mito biblico e alla sua rielaborazione ad opera di Hobbes, lo sceneggiatore e il regista del film avessero in mente anche quell’altro, che tra poco rievocherò, ma è senza dubbio vero che questo li abitava tacitamente, come abita la nostra vita così tanto, senza che noi per lo più vi pensiamo.
Questo altro, che è una delle radici più potenti del nostro mondo, è Platone. In particolare, qui mi riferisco a una favola narrata nella Repubblica: la vicenda di Gige. Narra Glaucone, uno dei personaggi di questo dialogo e fratello nobile e intelligente dello stesso Platone, che l’«antenato del Lidio» (Gige), dopo un grande terremoto, pieno di meraviglia per una voragine che il sisma aveva aperta, vi discese. Tra le altre cose stupefacenti che incontrò nel crepaccio, vide un cavallo di bronzo, il cui interno, cavo, era accessibile mediante piccole porte: quivi era il cadavere di un gigante, che indossava unicamente un anello. Gige se ne appropriò, infilandolo al dito. Alla riunione dei pastori che si svolse successivamente, egli si accorse che, girando il castone dell’anello verso l’interno della mano, diveniva invisibile, tanto che i presenti parlavano di lui come se non fosse tra loro. A questo punto, «brigò per essere uno dei messi da inviare al re e quando giunse da lui, gli sedusse la moglie e con il suo aiuto lo assalì e l’uccise. E così conquistò il potere».
Ci si potrebbe ora chiedere perché questo collegamento con il film di Andrei Zvyagintsev. Il punto è che si tratta innanzitutto di comprendere cosa significhi la favola di Gige nell’economia complessiva della Repubblica. Quella di Gige non è l’unica discesa del dialogo: se ne contano ben quattro. Le altre sono l’iniziale discesa di Socrate al Pireo, il mito della caverna e il mito di Er. Quattro passaggi che scandiscono il ritmo dell’opera platonica inserendosi nel testo come transiti rituali. Apparentemente, la favola di Gige è la meno importante e sicuramente la meno famosa. Ma questa sembianza risulta un poco scalfita se consideriamo il motivo per cui Glaucone racconta la vicenda: egli usa la favola nell’argomentazione che sostiene la naturale inclinazione alla sopraffazione del vero uomo, il quale è trattenuto dal compiere le sue violenze esclusivamente dal timore, qualora venga scoperto, di ricevere mali maggiori dei benefici. Nel libro decimo, l’ultimo, dell’opera, Socrate riprende la favola; così gli fa dire Platone: «Ebbene, ripresi, nel nostro discorso […] non abbiamo trovato che la giustizia in sé è il bene supremo per l’anima in se stessa? E che l’anima deve fare ciò che è giusto, abbia o non abbia l’anello di Gige, e con esso l’elmo di Ade?» – a segnalare l’importanza della narrazione per il dialogo che letteralmente fonda la scienza politica occidentale.
Gige discende nelle profondità della terra, la dea-madre ancestrale, colei il cui dono è la vita (e quindi anche la morte: utero che è nel medesimo tomba, eco di antichissime e ancora vive analogie). Abbiamo a che fare con una morte rituale e con una rinascita nella figura politica del sovrano. Questo segreto potere della vita e della morte, della capacità di riprodursi attraverso il sangue e lo sperma, è garantito dall’anello, simbolo dell’invisibilità perché segno, rilancio, presso cui la cosa presente scompare (se mai vi sia stata, questo è un altro discorso) e in virtù del quale il desiderio del portatore acquisisce dimensione tirannica e titanica. Non a caso, in una versione più tarda della favola, quella di Luciano, è direttamente Ermes a donare a Gige l’anello; Ermes, dio psicopompo della parola e dell’inganno: il fatto che di nuovo il segno, la politica e l’economia del desiderio siano rievocati è manifesto.
A partire dall’incesto originario con la dea-madre è poi possibile il divieto del crimine, che è tale solo ora, nel momento in cui inaugura il sapere e la separazione dell’uomo dalla natura, divenendo oggetto di questo sapere, insieme al riconoscimento del cadavere, del mortuum, come vide anche Hegel, e come capita a Gige, che si imbatte nel gigante senza vita e, con questi, nell’anello del potere. Naturalmente la novella trasmessaci da Platone, dal già citato Luciano e, prima di loro, da Erodoto (dove però non troviamo più anelli magici, sostituiti da un gioco erotico e criminale di sguardi tra la regina e Gige, in base al quale ne va della vita e della morte per il reale amplesso) ha lasciato traccia, in particolare per quanto riguarda la valenza simbolica dell’anello, ad esempio riprodotta in connessione con i miti nordici da Wagner e resa assai popolare, in tutti i sensi della parola, da Tolkien con il suo Il signore degli anelli. Quello che è importante per noi tenere innanzitutto fermo è come la questione della politica e della relativa economia del desiderio sia possibile entro il gioco di visibile e invisibile, il rimando tra dimensione pubblica e fondo oscuro della stessa. Secondo Glaucone, chiunque venisse in possesso di un anello simile a quello di Gige, pubblicamente ritenuto giusto o ingiusto, si comporterebbe esattamente come il Lidio: perché questa è la vera natura del vero uomo, seguire i propri desideri esercitando violenza sugli altri. L’unico esito possibile è così l’accordo stipulato tra gli uomini che non possono sopraffarsi a vicenda. Ma con l’invisibilità è di nuovo la natura ferina che viene a galla, il lupo si può scatenare. È sin troppo manifesto quali sviluppi questo discorso abbia avuto nella tradizione occidentale, tra i quali svetta ovviamente il caso di Hobbes, dal titolo della cui opera più famosa, come ricordavamo, prende nome il film Leviathan, leggendario mostro marino di biblica memoria, che il filosofo inglese legò indissolubilmente alla teoria politica.
Di questi discorsi di Glaucone, e della loro origine nel lupo Trasimaco, il cui scontro con Socrate Platone tratteggia nel Libro primo della Repubblica, il filosofo potrà venire a capo definitivamente solo facendo appello, con il mito di Er, al destino ultraterreno delle anime e alla terribile sorte che il tiranno si decide.
Nel film di Zvjagincev quanta parte il gioco di visibile e invisibile valga nell’esercizio del potere e del desiderio è messo in scena in maniera esemplare: Vadim, il corrotto sindaco del villaggio, può esercitare la sua pleonexìa sul protagonista, Nikolaj, in virtù di un potere che nasconde evidentemente fondamenti innominabili e violenti, in quanto la loro scoperta ad opera del giovane e valente avvocato Dmitrij, amico di lungo corso di Nikolaj, mette a rischio la carriera stessa del burocrate. Ma l’amico non è anch’egli così virtuoso, se si rende capace di seguire i propri desideri e sedurre Lilja, giovane moglie del protagonista. Il gioco del desiderio li condurrà però troppo in là e la loro relazione andrà incontro alla catastrofe, venendo scoperta proprio nel culmine della passione, emblematicamente consumata in una natura selvaggia, dove le leggi della città cadono e lasciano spazio a istanze più originarie. Da qui in poi le cose precipitano e il protagonista, vessato come Giobbe (dalla cui storia pure il film trae ispirazione), pur perdonando la moglie, la perderà, suicida gettatasi nel mare, elemento del Leviatano, che è infatti alluso dalla carcassa della balena. E la carcassa è scelta felice quanto mai, poiché richiama l’anatomia del potere e del desiderio che il film mette in scena. Anche gli altri amici del protagonista, presenti al momento della sua scoperta dell’adulterio di Lilja, lo tradiranno, testimoniando contro di lui nel processo che lo vedrà coinvolto per il presunto assassinio della moglie – traendo vantaggio dalla sua condanna, che porterà loro la custodia del figlio di Nikolaj Roma, nato da una precedente relazione, e i conseguenti denari statali.
Vadim, con un disinvolto, audace e spietato uso della violenza avrà infine ragione anche delle indagini di Dmitrij, facendolo picchiare a sangue dai suoi gorilla e minacciandolo di morte, non prima di avere guadagnato dalla propria guida spirituale conforto circa le proprie “buone ragioni”. Proprio qui si misura la distanza tra la strategia platonica e l’esercizio della violenza esibito nel film: dove il tiranno è confermato dall’istituzione religiosa nelle proprie motivazioni e le sorti dell’anima non funzionano di fatto come argine alla sopraffazione. Eloquente è la conclusione, quando al festeggiamento per la nuova chiesa costruita sullo spazio dove sorgeva la casa del protagonista, terreno oggetto del desiderio violento del sindaco e origine delle disavventure di Nikolaj, durante la “nobile” predica intorno alla verità del prelato amico e consigliere spirituale, Vadim indica al figlio una icona di Cristo, dicendo che il signore «vede tutto».
In questo magistrale rimando di sguardi, desiderio e potere, immagine paradigmatica rimane quella di un quadro di Putin, troneggiante nell’ufficio del sindaco corrotto durante il suo incontro con Dmitrij: il leader russo ammicca beffardo, osservatore interessato del teatro del desiderio, simbolo del politico di fatto, del lupo feroce, al quale Platone aveva inteso contrapporre il sovrano-filosofo, il vero politico.
Leviathan è un film che stupisce innanzitutto perché solleva delle domande antropologiche, antropologiche perché politiche, la prima delle quali così suona: «cosa faremmo davvero se avessimo l’anello di Gige?».