L’hipster non è più cool?
Uno studio del dipartimento di Biologia dell’università australiana del New South Wales (pubblicato a marzo qui) sembra dimostrare che il numero di maschi con la barba folta (uno degli stereotipi più caratteristici dello stile hipster) nel mondo potrebbe aver raggiunto il suo picco massimo e che, essendo ora così diffuso, ha iniziato a perdere valore e a non esercitare più lo stesso fascino di prima.
In poche parole, portare la barba non è più né cool né “hip”. Semplicemente, i biologi australiani potrebbero aver scoperto l’acqua calda, ovvero che le mode passano e che seguono dei cicli in cui un dato stile (la minigonna) è sulla cresta dell’onda (è “hip”) oppure è dimenticato e sostituito, per poi tornare ciclicamente cool in futuro.
Dalla diffusione della ricerca australiana, molti giornali, prima sul Guardian (The end of the hipster: how flat caps and beards stopped being so cool) e poi a rimorchio sugli altri, sono usciti articoli sulla “fine” dell’hipster. D’altronde, che la curva hipster fosse già sul lato discendente lo avevamo intuito dalla diminuzione della parola “Hipster” all’interno di Google books, a partire già dal 2009.
In realtà, se così fosse, potrebbe tornare utile il vecchio Bourdieu. Ne La Distinzione, il suo saggio del 1979 sulla logica sociale del gusto, scriveva: “l’identità sociale risiede nella differenza, e la differenza si manifesta per distinguersi da ciò che è immediatamente più vicino a noi”. Questo significa che se tutti i miei vicini iniziano a portare la barba come me, la mia barba non mi distingue più dagli altri, è uno stile che improvvisamente si scarica di valore distintivo e dovrò sostituirlo con qualcos’altro per riaffermare l’unicità o l’alterità della mia persona.
Eppure, anche se le barbe diminuiranno e lo stile hipster finirà nell’armadio, ciò che non scompare è l’attitudine hipster di una generazione nata in epoca analogica prima della caduta del muro di Berlino e cresciuta con la cultura digitale, la globalizzazione e i voli low cost. Una generazione (i figli del ceto medio occidentale nati negli anni ottanta) che aveva fatto in tempo a studiare, girare il mondo, perdere tempo sulle spalle del benessere acquisito dai propri genitori nel dopoguerra, per poi ritrovarsi adulta e inadatta al cambiamento nel mezzo della crisi economica di inizio millennio.
L’eccedenza di una classe di giovani europei e americani laureati, preparati, abituati a viaggiare, colti e ambiziosi, amanti della musica, del cinema e della letteratura non mainstream si scontra con una penuria generalizzata di offerta lavorativa non più soltanto per i giovani aspiranti a diventare classe creativa ma anche per quelli aspiranti ad altri tipi di lavoro del terziario avanzato (tecnici, ricercatori, biologi, fisici, ingegneri, architetti, economisti, medici).
Negli Stati Uniti l’esplosione del movimento Occupy nel 2011 affonda le sue radici non solo nella reazione alla crisi del 2008 causata dalle grandi banche di investimenti, ma anche nella rottura del sogno americano e nella delusione di tanti giovani che per laurearsi si sono indebitati pesantemente e si sono poi ritrovati disoccupati e senza possibilità di restituire il prestito. Il patto di fiducia alla base del sistema educativo anglo-americano, basato su alti costi d’iscrizione finanziati tramite l’indebitamento progressivo in cambio di alta qualità dell’offerta universitaria e futuro garantito nella classe media occidentale, è stato spezzato dalla più grande crisi economica degli ultimi decenni e ha lasciato migliaia di giovani soli e indebitati, come racconta in questo magnifico pezzo Chadwick Matlin: The 124,421 dollars man: “Eravamo soliti essere in debito con il Sogno Americano, ora invece siamo indebitati a causa sua”.
L’hipster contemporaneo è un nostalgico per eccellenza. Ha nostalgia del novecento e della sua aura analogica. Se Walter Benjamin ascriveva a radio, cinema e fotografia la “colpa” di aver squarciato l’aura, la “guaina” che proteggeva l’unicità e la sacralità dell’opera d’arte classica, gli hipster soffrono per la perdita dell’aura “analogica” operata dai media digitali.
Nonostante sia contornato dai gadget tecnologici più avanzati, l’hipster volge con malinconia lo sguardo al mondo analogico degli amplificatori in legno di una volta, alle radio a manopola, alle macchine fotografiche con il rullino scovate in qualche mercatino delle pulci di Berlino o più facilmente su Ebay. L’hipster è ossessionato dalla ricerca dell’autenticità: nella musica, nelle relazioni, negli oggetti di design, nel cibo.
Nella musica questa ricerca dell’autenticità si traduce ad esempio in un ritorno del vinile e del suono analogico. Le vendite di dischi in vinile negli Stati Uniti sono passate da mezzo milione nel 1993 a un milione nel 2007, per poi subire un’accelerazione negli ultimi cinque anni, raggiungendo 6 milioni di vendite nel 2013. Il ritorno del vinile è decisamente un sotto prodotto della smania di autenticità neo-hipster.
Anche la passione per i cibi organici e a chilometro zero ha la stessa radice: tutto quello che sembra autentico è apprezzato, ha valore, è ricercato. L’hipster, così fragilmente alla ricerca della propria autenticità e così in dubbio sulla propria autenticità, si rassicura acquistando e facendo sfoggio di prodotti autentici. L’hipster non a caso è la maggiore espressione culturale della generazione degli anni zero, perché questa generazione cresce in un’insicurezza mai provata prima dalle generazioni precedenti. Precaria nel lavoro, digitalizzata nelle relazioni sociali, questa generazione ha bisogno, anche solo simbolicamente, di ritrovare l’autenticità delle cose.
Forse la moda hipster sta volgendo al termine. Anche se, come riporta il Guardian, questi due giovani inglesi non sono d’accordo: “All’Hoxton Bar nell’east London, la 24enne laureata Milly si identifica con gli hipster: ‘voglio dire, è per questo che noi hipster viviamo qui. Ci dà l’impressione di star vivendo qualcosa di reale, come se qui stesse davvero accadendo qualcosa di creativo’. Manny, un cantante 28enne che vive a Dalston da più di cinque anni, apprezza il senso di comunità e appartenenza alla scena hipster: ‘i giovani sono disoccupati e invece hanno bisogno di lavoro. Essere hipster è come appartenere a una tribù. Spero che gli hipster non siano ancora morti, perché ho appena firmato un contratto d’affitto qui per vivere in questa scena”.
Di sicuro barbe, bici a scatto fisso, baffi all’insù e vestiario retrò hanno raggiunto il mainstream e quindi il picco. E come ogni subcultura che raggiunge il mainstream, ha davanti soltanto il declino. Ma nel bene e nel male, se gli anni settanta sono stati gli anni del punk, gli ottanta quelli degli yuppie e i novanta quelli del grunge e dell’acid house, i primi duemila passeranno alla storia come quelli dei neo-hipster, il supermercato dello stile che ha frullato tutte le subculture del novecento in uno stile pretenzioso e imitativo.
Forse i neo-hipster sono solo l’ultimo rigurgito nostalgico del novecento, il canto del cigno dell’ultima generazione del novecento che sta finalmente entrando nell’età adulta.
Tiziano Bonini è l'autore di Hipster, un ebook di doppiozero, acquistabile qui