L'impresa del sapere

2 Aprile 2024

Spesso cultura e impresa sono due mondi che si osservano da lontano e, se le imprese aprono alla cultura, è per sostenere iniziative distanti da quello che l’impresa fa; come anche, se il mondo della cultura guarda all’impresa, è per studiarne le dinamiche e il ruolo, ma sempre come qualcosa di lontano, se non di antagonista. Vale poi alle volte un’ottica di reciproca utilità: le imprese assecondano l’esigenza di restituzione alla società, il mondo della cultura quella di sorreggersi. 

Nel nostro tempo, l’enfasi verso la sostenibilità ambientale e sociale delle imprese apre però uno spazio nuovo, dove il rapporto fra cultura e impresa diventa crocevia di progresso e dove i contenuti e gli strumenti della cultura contribuiscono alla definizione di una strategia sostenibile. 

Negli ultimi anni, il lessico delle imprese si è arricchito con le parole che ne raccontano gli obiettivi di sostenibilità ambientale (environment) e sociale (social) e il modo in cui realizzarli (governance, che, con le altre parole in parentesi, compone l’acronimo ESG). La dimensione ESG allarga lo spettro dell’attenzione dell’impresa dalla sola massimizzazione del profitto per gli azionisti agli interessi delle altre categorie toccate dall’attività aziendale, gli stakeholders, dai dipendenti, ai clienti, dalle istituzioni pubbliche, alle comunità locali e alle organizzazioni no profit. 

Nella prospettiva dello stakeholder capitalism, sono gli ecosistemi e gli equilibri sociali a definire lo sfondo in cui l’impresa deve muoversi, per orientare la sua attività alla promozione di impatti ambientali e sociali positivi, aumentando il livello di trasparenza dei processi decisionali e aziendali che rendono concreta questa aspirazione. Si stempera così l’istinto capitalistico novecentesco più selvaggio, incentrato sull’interesse degli azionisti ad essere remunerati a prescindere dagli effetti collaterali dell’attività aziendale (lo shareholder capitalism), e si richiede alle imprese di prendere consapevolezza di come la loro attività agisca sull’ambiente e incida nelle dinamiche sociali, in modo da creare valore nel lungo periodo a beneficio di tutti gli stakeholders.

Tutto ciò si è tradotto, specialmente in Europa, in iniziative normative di grande respiro, in cui la lotta al cambiamento climatico, a partire dagli accordi di Parigi del 2015, ha ispirato una decisa sterzata verso la riduzione delle emissioni climalteranti, con interventi che hanno trovato un consenso politico piuttosto diffuso almeno fino alla pandemia del 2020. Il Green Deal ha preso corpo in un sistema di regole che, nei settori più svariati, da quello energetico a quello della mobilità, dall’agricoltura alla chimica, ha avviato percorsi di sostenibilità per realizzare una riduzione delle emissioni di CO2 ambiziosa (Fit for 55, con le misure necessarie per la riduzione delle emissioni nette di gas serra del 55% entro il 2030), ma necessaria per contenere l’incremento della temperatura del pianeta in limiti compatibili con la sopravvivenza della nostra specie. I piani di recovery post pandemici hanno tutti, a cominciare dal nostro PNRR, posto la sostenibilità come riferimento essenziale dei singoli interventi. Nel 2022, in Italia, si è perfezionata una modifica della Costituzione che impone la sostenibilità fra i principi fondamentali, con la modifica all’art. 9 per la quale “la Repubblica (…) tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni”, e nello statuto costituzionale dell’impresa, con la modifica dell’art. 41 che, adesso, prevede che “l’iniziativa economica privata (…) non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, alla salute e all’ambiente” e che “la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali”. Parole di peso enorme, che impongono alla politica e alle imprese di sviluppare uno sguardo profondo, di lungo periodo, di preoccuparsi delle nuove generazioni, di lavorare sul nesso inscindibile fra uomo e natura per proteggere gli ecosistemi, di aggiungere all’equazione del profitto le variabili della libertà e della dignità umana, oltre a quelle della sostenibilità ambientale. 

Se l’impresa sostenibile è quella consapevole degli impatti ambientali e sociali della sua attività, in vista di un loro miglioramento, essa non può prescindere dall’attingere al mondo della cultura per ricavarne gli strumenti di conoscenza del contesto di riferimento, di comprensione delle dinamiche profonde della realtà in cui l’impresa opera, delle sue convulsioni, paure, auspici.

In questo senso, la sostenibilità ridefinisce il rapporto fra impresa e cultura: la distanza fra i due mondi, che si crea quando la cerniera è la filantropia dell’imprenditore o la strategia di comunicazione dell’impresa, cede il passo a una sinergia, in cui il mondo della cultura mette a disposizione del mondo dell’impresa le chiavi per definire le concrete condizioni di sostenibilità dell’attività aziendale e per rappresentarne il modo in cui si relaziona con dipendenti, clienti, fornitori e istituzioni. 

A ben guardare, se è vero che non c’è mostra o festival culturale in cui non compaia un’impresa fra gli sponsor e che spesso le imprese promuovono iniziative culturali, progetti di ricerca o, semplicemente, mettono insieme collezioni seguendo il gusto e l’inclinazione filantropica di imprenditori e manager, è anche vero che solo occasionalmente il contenuto culturale dice qualcosa dell’impresa o, meglio, dice all’impresa qualcosa di rilevante per quello che fa. 

Nella prospettiva della sostenibilità, occorre ricongiungere contributo culturale e strategia dell’impresa, ancorando quest’ultima al contesto ambientale e sociale attuale e prospettico, in cui l’impresa opera, acquista, vende e utilizza risorse. 

Se l’arte dei poeti esprime preoccupazione per l’ambiente, siamo sicuri che un’impresa che voglia intercettare le scelte di consumo di chi comprerà i suoi beni in futuro possa non avere antenne sofisticate per ascoltare il messaggio di quei versi? Se gli scrittori battono sulla condizione femminile, come è possibile che un’impresa non si preoccupi del salary gap o della genitorialità per non correre il rischio di avere macchie sulla sua reputazione commerciale? Se l’occhio dei cineasti ci turba mostrandoci le logiche perverse dello sfruttamento dei lavoratori o della mancanza di lavoro, come possiamo tollerare filiere in cui non vi sia attenzione ai diritti umani o in cui i salari non siano dignitosi se si vuole venire incontro a consumatori consapevoli?

La cultura serve a capire il contesto nel suo divenire, in maniera evolutiva o involutiva e a intercettare, attraverso la conoscenza, le sensibilità collettive con cui un’impresa deve confrontarsi se vuole stare a lungo sul mercato. 

In questo senso, i riferimenti culturali diventano strumenti manageriali, concorrono a conformare la strategia in funzione della creazione di valore sul lungo periodo. Ed è qui che l’attenzione agli stakeholders, filtrata dalla consapevolezza dei fenomeni culturali, si ricongiunge con quella verso gli shareholders, che, per massimizzare il profitto, devono rendere la generazione di valore economico compatibile col progresso ambientale e sociale, duratura e con impatto virtuoso. 

Se la questione ambientale, quella della diversità di genere o etnica, quella del rispetto dei diritti umani, diventano codici a barre per visualizzare le caratteristiche di un prodotto e orientare così le scelte di consumo, il confronto con intellettuali, scienziati, architetti, sociologi, poeti, pittori, fotografi, diventa fondamentale per capire verso cosa orientare la strategia dell’impresa per prevenire frizioni col sentire comune e assecondare processi virtuosi di salvaguardia ambientale, di perequazione sociale, di attenzione alla libertà e alla dignità delle persone.  

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Quindi, non solo la cultura può essere utilizzata per dire qualcosa dell’impresa, ma la cultura può dire molto all’impresa, di come sarà in futuro e, anzi, di come “non” sarà se dovesse discostarsi da fattori ambientali, sociali o anche solo di emotività collettiva in modo da finire fuori mercato, perché rigettata dalle generazioni del futuro. 

Due esempi. Se si vuole vedere come l’arte può dire qualcosa dell’impresa, basta riguardare i filmati di Ermanno Olmi che, da impiegato dell’Edison, filmava nel 1958 Tre fili fino a Milano. Negli sguardi dei valligiani che assistono alla messa in opera di una linea di alta tensione, nel loro sgomento e nella loro ammirazione, si dice molto di come l’impresa intervenga sul panorama fisico e antropologico, portando sviluppo ma cambiando il paesaggio in maniera irreversibile. 

Per capire, invece, come l’arte ci possa dire cosa un’impresa non deve essere, basta riguardare con sguardo di oggi Deserto Rosso. Per Michelangelo Antonioni, il paesaggio delle raffinerie del ravennate, estetizzato, con quell’architettura quasi metafisica, con i colori delle tubature a disegnare geometrie perfette e con i rumori degli impianti a fare da sottofondo costante, era uno sfoggio di modernità senza alcun giudizio per gli impatti ambientali. Visto oggi, il film è disturbante e quello sfondo di modernità diventa un’ulteriore ragione per sprofondare nell’alienazione della protagonista. Il ribaltamento di sensibilità dovrebbe far riflettere l’impresa di oggi e condurla a non trascurare mai l’impatto paesaggistico e ambientale della sua attività, e ciò anche a prescindere dalle prescrizioni normative. Se un’impresa riproducesse il paesaggio di Deserto Rosso si troverebbe oggi a dover fronteggiare la reazione delle comunità in cui l’impresa opera e, in questo disallineamento di sensibilità, rischierebbe di iniziare il suo declino.

Se poi si vuole capire come, attraverso la cultura, si può dire all’impresa cosa essere, una bella storia è quella di come si può lavorare nelle periferie delle megalopoli sudamericane diventando protagonisti di sviluppo sociale e di progresso economico. Se si ascolta la comunità, se ne apprende il linguaggio, ci si lascia trascinare dalla sua cultura, si può stendere una rete elettrica offrendo strumenti per una micro-imprenditorialità che aiuti a uscire dalla miseria. Così dalle divise tecniche si ricavano vestiti, dagli scarti, piccoli manufatti utili nella vita quotidiana, da applicazioni molto elementari di condivisione, piccole piattaforme di mercato per scambiare generi alimentari o materiale scolastico di base. Con i corsi per elettricisti, si possono distrarre gli adolescenti dai furti di energia e offrire loro una prospettiva di lavoro.  

Ci sono poi rivoluzioni tecnologiche, come quella digitale, a cui si associa l’utilizzo dell’intelligenza artificiale, dove un imprenditore o un manager non può prescindere dall’ interrogare filosofi, sociologi, psicologi, considerando la vastità degli impatti delle nuove le forme di lavoro, con l’integrazione delle nuove tecnologie nella catena produttiva, e dei nuovi prodotti digitali nei rapporti fra le persone, con un perimetro mai sperimentato della responsabilità sociale dell’impresa.

C’è ancora un altro ruolo che il mondo della cultura può svolgere rispetto alle imprese, ed è quello di essere sentinella di senso delle parole che le imprese utilizzano. 

Si diceva prima che il lessico delle imprese è cambiato per abbracciare le parole della sostenibilità. Lotta al cambiamento climatico, inclusione, resilienza, attenzione alle marginalità sociali, dialogo con le comunità sono parole che hanno bisogno di tradursi in scelte strategiche, per non diventare copertura di greenwashing o di socialwashing

Su questo, bisogna registrare che, dopo qualche avvisaglia già dal 2021, stiamo assistendo a un processo regressivo, in cui il deteriorarsi del quadro geopolitico e macroeconomico ha gettato ombre sul Green Deal, non solo in termini di priorità rispetto ad altri obiettivi ritenuti incompatibili con la sua realizzazione, ma anche come causa stessa delle strozzature del mercato dell’energia e delle materie prime che, almeno in Europa, hanno provocato le spinte inflazionistiche degli ultimi due anni. 

Da qui, la sempre più ricorrente diluizione della spinta verso la sostenibilità ambientale e sociale delle imprese in nome di un pragmatismo che, più che un ovvio invito a misurare ogni intervento affinché la transizione sia giusta, sembra essere evocato per sotterrarla.  

Questo vale in particolar modo in Italia, dove una certa inclinazione conservatrice ha trovato terreno fertile in chi nega il cambiamento climatico (e, quindi, manifesta scetticismo rispetto alla scienza che, invece, dimostra come il cambiamento che è sotto gli occhi di tutti dipenda dall’attività dell’uomo) e in chi ha trovato nella crisi energetica del 2022 un ottimo motivo – ed è questo il paradosso – per inseguire le fonti fossili, anziché spingere sulla transizione energetica e su tutte le opzioni che la tecnologia offre per produrre energia senza emissioni climalteranti. 

Da qui le opinioni sempre più diffuse e sempre meno rigorose su quanto la transizione distrugga valore, omettendo di considerare quello che è ormai un dato acquisito: la necessità della transizione per combattere il cambiamento climatico e la straordinaria opportunità di sviluppo economico e sociale, anche in termini di posti di lavoro, che la transizione offre all’Europa, anche per rispondere alle domande che le nuove generazioni pongono con forza. 

Peraltro, la politica non manca di assecondare (quando non di provocare) questo cambiamento di rotta. Per cui si rallenta sullo sviluppo delle fonti rinnovabili e ci si defila dall’approvazione di pezzi di normativa dell’Unione Europea fondamentali per perseguire il Green Deal, anziché tenere ferma la barra del timone nella direzione della transizione, pur lavorando per sgranare e risolvere le tematiche sociali che inevitabilmente si pongono. 

Ma di fronte a questa perdita di senso, sarebbe auspicabile che il mondo della cultura si mobiliti, che si alzi la voce dei nostri intellettuali quando viene messo in discussione il ruolo della scienza, che i registi e gli scrittori, ci regalino film e libri capaci di scuotere la coscienza, come è successo tante volte per altri fenomeni in cui alla cattiva cultura si è reagito con la forza di immagini e parole (basti pensare all’immigrazione e alla bellezza di Io, Capitano nel raccontarla alla coscienza di tutti)? 

Se, allora, le imprese che vogliano essere sostenibili dovranno rivolgersi al mondo della cultura per comprendere l’evoluzione della sensibilità collettiva rispetto alle tematiche ambientali e sociali rilevanti per l’attività aziendale, in modo da capire come è possibile creare valore nel lungo periodo, è essenziale che, dal canto suo, il mondo della cultura sostenga con il pieno della sua forza evocativa le scelte di valore che possono indirizzare la società a farsi carico delle grandi questioni che mettono a rischio il nostro ecosistema. 

È giusto o no che le imprese, nel selezionare i fornitori, prestino attenzione al rispetto dei diritti umani o alla sicurezza sul lavoro o, ancora, all’utilizzo senza sprechi ed efficiente delle risorse? Anche a non considerare eticamente necessario porsi queste tematiche, può un’impresa rinunciare a interrogarsi sulle future scelte dei consumatori, per allacciarsi alle generazioni future e, con il loro consenso, continuare a prosperare nel lungo termine? 

Se le risposte a queste domande sono ovvie, perché allora le paroline magiche della sostenibilità sembrano sbiadire di fronte al costante riferimento ad un pragmatismo che finisce per relegarle a orpelli lessicali senza dignità di tradursi in cogente strategia aziendale e perché il mondo della cultura non si mobilita per puntellarne il senso, per censurare chi ne abusa. Qui lo spazio per poeti, pittori, scrittori, filosofi, registi, architetti, giuristi, fisici, storici, matematici, economisti, fotografi, c’è tutto e, anzi, va promosso senza aspettare oltre, in modo da censurare, già sul piano culturale, le imprese che si rifugino pavlovianamente in processi aziendali e soluzioni già viste e di cui tutti abbiamo già sperimentato l’insostenibilità ambientale e sociale. 

Peraltro, senza voler escludere i giuristi dal novero degli intellettuali, si tratta di dar vita a una normativa che rifletta scelte per le quali la direzione è segnata, come il dettato della nostra Costituzione indica senza lasciare dubbi. E se le parole che si usano in comunicazione possono morire, anche di invecchiamento precoce, quelle della Carta costituzionale restano vive e covano conseguenze virtuose nel tempo, con le generazioni future che dalla finestra aperta nelle nuove disposizioni ci guardano con severità, ci costringono a metterci alla prova. 

Nell’epoca della sostenibilità, il rapporto fra impresa e cultura va allora ripensato. Se la sostenibilità allarga la visione dell’impresa a un orizzonte in cui la comprensione degli aspetti ambientali e sociali diventa chiave strategica per la creazione di valore nel lungo periodo, allora la cultura non può essere costretta nello spazio angusto della comunicazione oppure al mero soddisfacimento di pulsioni filantropiche. Piuttosto, le imprese devono trovare nel mondo della cultura, nella sensibilità degli artisti, nelle analisi degli intellettuali, negli interrogativi degli scienziati, le sponde fondamentali per integrare la sostenibilità nella strategia aziendale e preservare, in questa maniera, lo stare al mondo dell’impresa in armonia con il contesto ambientale e sociale che fa da sfondo alla sua attività. E il mondo della cultura deve sentire la responsabilità di mantenere in vita e far risplendere le parole giuste, esigendo coerenza dell’azione delle imprese rispetto al loro senso più profondo. 

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