Speciale

Lo Zimbabwe e il paradosso spaziale

8 Settembre 2017

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Abbassare la testa e avanzare a zig zag, spostare il peso da un piede all’altro, schivare i colpi di spalla e correre veloci verso… l’altro lato della strada. È così che mi muovo, non su un campo di rugby, ma tra le strade del centro di Harare.

 

Ritengo di avere una buona consapevolezza dello spazio che mi circonda, so dove sono collocati gli oggetti rispetto al mio corpo e sono in grado di muovermi di conseguenza. Eppure non posso dire lo stesso di molti abitanti dello Zimbabwe.

 

AtWork Harare, workshop at the National Hallery of Zimbabwe, ph Kresiah Mukwazhi.


Non si contano le volte in cui, trovandomi in fila, ho avvertito il fiato di un altro sul collo, il suo petto contro la schiena. Di solito basta uno sguardo per farlo indietreggiare, ma quando invece ti fissa stupito con sguardo innocente, ti fa passare per strano solo perché non vuoi che il tuo spazio personale sia occupato da un perfetto sconosciuto.

 

E poi ci sono i kombi. L’obiettivo è semplice: stipare dentro il minibus il maggior numero di persone possibile. Non importa se la leva del cambio ti preme contro la coscia o se i passeggeri si lamentano perché hanno fretta. Tutti sanno che lo spazio è denaro.

 

Great Zimbabwe, ph Simba Mafundikwa.


Gli ambulanti che su Robert Mugabe Road occupano un terzo della strada con i carretti della frutta sono solo uno degli ostacoli che i guidatori devono schivare alle 5 del pomeriggio, durante la terrificante ora di punta. Da qui la domanda: gli abitanti dello Zimbabwe possiedono un senso dello spazio?

 

Pongo la questione innanzitutto a me stesso. Sono per natura introverso e vivo da sempre in quartieri a bassa densità abitativa. Da bambino ero solito girare per i parchi, passeggiare in bicicletta e ritirarmi nella mia casetta. Lo spazio di sicuro non mi mancava.

 

Perciò è stato uno shock visitare Mbare – un quartiere densamente popolato a sud di Harare, creato dai colonialisti per la popolazione nera – e in particolare i complessi di case popolari. Stanze delle dimensioni di un dormitorio universitario sono divise in due da una tenda e occupate da più persone. 

 

Great Zimbabwe, ph Simba Mafundikwa.


Neanche i bagni sono spazi del tutto privati. Mentre usavo l’orinatoio, avevo la netta sensazione di essere osservato e infatti c’era un uomo accovacciato, intento a fare i suoi bisogni, che mi fissava. La totale mancanza di barriere fa sì che questo tipo di situazioni sia del tutto comune.

 

La gente di Mbare non vive in spazi ampi e la loro stretta vicinanza ha creato un senso di comunità che si vede di rado nei quartieri più a nord. Camminando con un amico che vive nella zona di New Lines, ci siamo fermati più volte a salutare e a rispondere al saluto dei vicini. Siamo perfino passati dai cortili delle case.

 

Ad Avondale, il mio quartiere, ogni proprietà è circondata da mura. Il che è un vantaggio in termini di privacy e sicurezza, ma non agevola di certo la socializzazione con i vicini. Puoi sempre andare e presentarti, ma il filo spinato, i cartelli “attenti al cane” e le recinzioni elettriche possono farti cambiare idea. Non è così che vivevano gli abitanti dello Zimbabwe in epoca precoloniale. Anche all’epoca i territori non erano densamente popolati, ma le capanne erano molto vicine tra loro, senza muri divisori, e questo facilitava la condivisione e le interazioni fra le persone. Ognuno condivideva i propri spazi.

 

Harare city, ph Simba Mafundikwa.


Ciò che si vede oggi nel centro della città è una distorsione di questa concezione dello spazio. In una situazione economica in cui il denaro scarseggia, molti si sono dati al commercio, occupando spazi liberi, marciapiedi e strade. Se da un lato questo ha portato ad avere prodotti agricoli e vestiti a buon mercato, dall’altro ha generato una totale assenza di regole, per cui parcheggiare – ad esempio – può diventare un incubo. L’abbondanza di spazio si è trasformata in una forma di sfruttamento spaziale che è incompatibile con territori ad alta densità abitativa.

 

In questo caos, ci sono ancora spazi dove è possibile portare avanti dei progetti. Mia madre ha spostato di recente la sua scuola di danza, AfriKera, da un piccolo spazio in affitto in periferia al secondo piano di un grande magazzino inutilizzato. Adesso ha uno spazio moderno che può competere per dimensioni con altri luoghi dello stesso tipo all’estero. L’intimità, l’esclusività e la centralità di questo spazio sono un vantaggio per ballerini, istruttori e visitatori.

 

Vi sono poi gli spazi che abbiamo occupato e frequentato durante il workshop di AtWork: la National Art Gallery of Zimbabwe e la Njelele Art Station. La prima ha ospitato la maggior parte dei nostri incontri, che si sono svolti all’interno di uno spazio espositivo aperto al pubblico. Eravamo disposti in maniera tale da non intralciare né essere intralciati dai visitatori. I partecipanti hanno potuto aprirsi, condividere i propri racconti e ascoltare quelli degli altri in uno spazio libero da giudizi. Un’apertura che sarebbe stata sotto osservazione in un altro ambiente. Si è trattato di un uso armonioso dello spazio.

 

La Njelele Art Station è molto più piccola, ma in questo spazio di dimensioni ristrette il pubblico partecipa spesso a dibattiti e progetti estremamente stimolanti. Avere uno spazio come Njelele o AfriKera in centro, dove regna il caos, contribuisce attivamente al ripensamento spaziale della città. Durante il workshop ci è stata rivolta la seguente domanda: “È possibile che una rivoluzione avvenga sottovoce?”. I luoghi menzionati in precedenza lo dimostrano chiaramente: “Sì!”

 

Perché la rivoluzione prenda piede, è importante avere degli spazi ben delimitati per le attività commerciali e per la sosta dei kombi. Si tratta in fondo del metodo occidentale di separare gli spazi in maniera tale che le persone possano portare avanti le proprie attività senza pestarsi letteralmente i piedi.

 

Harare city, ph Simba Mafundikwa.


Sono convinto che la concezione africana dello spazio possa convivere con quella occidentale, così da creare nuovi spazi da cui tutti possano trarre vantaggio. Basta trovare un punto d’accordo e attivare i giusti meccanismi finanziari.

 

Forse la risposta è nel passato. Le rovine del Grande Zimbabwe sono l’esempio perfetto di un uso armonioso dello spazio. Ogni singola pietra di quel luogo, abbandonato nel XV secolo, si integra perfettamente con l’ambiente circostante. Il complesso architettonico dove era situata la residenza del re è costruito in maniera tale che la fortezza di granito sembra confondersi con la collina.

 

Tornando quindi alla domanda iniziale: gli abitanti dello Zimbabwe possiedono un senso dello spazio? Sì, ma è distorto e per lo più incompatibile con le infrastrutture occidentali esistenti in città, che appaiono datate e non regolamentate. Come in altri paesi africani, anche nello Zimbabwe il percorso verso l’armonizzazione delle idee di spazio precoloniali e coloniali è ancora agli albori.

 

Traduzione di Laura Giacalone.

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