Lombroso in tour
Come scrive Livio Sansone in una delle ultime pagine, La galassia Lombroso (Laterza 2022, pp. 238, € 24) è attraversata “da positivismo, socialismo, pensiero colonialista, pacifismo, antimperialismo, spiritismo e massoneria”, perché tali erano le biografie e le traiettorie dei vari personaggi che nel libro compaiono.
Come indica il titolo, il tema del volume è l’influenza e la diffusione che la scuola lombrosiana ebbe in America latina e i suoi effetti sulla concezione dei rapporti razziali e sociali che andò lì plasmandosi: l’antropologo Livio Sansone è ordinario all’Università federale della Bahia a Salvador, Bahia in Brasile, dopo un itinerario variegato almeno quanto le traiettorie dei suoi personaggi: a Bahia ci è arrivato da Amsterdam dove ha sostenuto una tesi di dottorato sugli immigrati surinamesi; ma in Olanda era giunto da Birmingham dove aveva studiato con Stuart Hall (il fondatore dei cultural studies), e prima aveva studiato antropologia a Roma con Vittorio Lanternari e a Roma si era trasferito dalla Sicilia perché suo padre operava nel cinema collaborando con registi come i fratelli Taviani, Gillo Pontecorvo, Marco Ferreri. Così è naturale che questo libro voglia ricucire gli estremi della sua vita, l’origine italiana e il suo sbocco brasiliano.
Due premesse. La prima: Cesare Lombroso, 1835-1909, fu nella sua epoca l’intellettuale italiano più famoso nel mondo, e di gran lunga. Solo in tutt’altro campo i musicisti (Puccini, Mascagni) e i cantanti (Caruso) poterono rivaleggiare con lui.
La seconda premessa verte sulla parola “razza” che uno dei personaggi definisce vocabolo “elastico”: allora era usato spesso come sinonimo di stirpe, etnia. Al suo posto si trovava spesso il termine “sangue”. In una ricerca su Chicago fine ottocento, sono incappato in un giornale etnico che titolava: “Ieri la razza italiana si è scontrata con la razza greca”, ma leggendo l’articolo ho scoperto che un fruttivendolo greco si era preso a botte con un fornaio italiano. Non solo, ma nell’atmosfera intellettuale dell’apogeo del colonialismo (quella che Hobsbawn chiamò l’età degli imperi), era considerato naturale che le potenze coloniali fossero composte da razze superiori e le colonie da razze inferiori. Nel mondo definito dalla Conferenza di Berlino (1884) la gerarchia razziale del mondo era data per scontata, un fatto positivo, nel senso comtiano, un fatto naturale. Le carte geografiche coloravano l’Europa in verde o rosa, l’Africa in nero o marrone scuro , l’Asia in giallo, l’America in rosso.
Lombroso, da buon positivista, socialista, massone oltre che ebreo e anticlericale, era immerso in quest’atmosfera e partecipava di questo razzismo per cui poteva per esempio scrivere: «l'Ottentotto è per gli uomini come il cammello pei ruminanti, una specie di fossile vivo». O il suo discepolo Mario Carrara poteva dire che i Dinka “avrebbero la tendenza a essere mancini e avere i piedi piatti e questo mancinismo dei selvaggi, e il piede piatto si ripetono, come è noto (sic!), nei criminali”
Sansone cita un passo in cui Lombroso afferma che la parte di popolazione maggiormente semitica, della Sicilia occidentale, è più violenta di quella prevalentemente greca, più astuta e meno impulsiva, come nella Sicilia orientale.
In Europa, soprattutto dopo la sconfitta francese a Sedan nel 1870, la questione razziale aveva investito le, per così dire, “razze europee” (a ridosso della sconfitta apparve anche il saggio di de Quatrefages La race prussienne). In termini nietzscheani (La nascita della tragedia è del 1872) si parlava di razza ariana apollinea e razza latina dionisiaca. L’antitesi era riprodotta all’interno dell’Italia con i settentrionali più apollinei e i meridionali più dionisiaci.
È questa dicotomia che fornisce a Sansone il primo, duplice aggancio tra America latina e scuola lombrosiana: da un lato l’America del sud nella sua totalità sarebbe più dionisiaca e passionale, mentre l’America settentrionale germano-anglosassone sarebbe più razional-analitica; ma dall’altro lato, all’interno delle società latinoamericane la stessa dicotomia si riprodurrebbe tra gli immigranti europei (apollinei, anche se in patria erano dionisiaci) da un lato e neri, indios e meticci dall’altro. Non stupisce se, come riferisce Sansone, due lombrosiani latinoamericani, il cubano Fernando Ortiz e il brasiliano Raimundo Nina Rodrigues, alle prese nei propri rispettivi paesi con una forte componente di popolazione nera, si lanciassero in elucubrazioni secondo cui i sudanesi sarebbero gli africani di cultura apollinea e i bantu di cultura dionisiaca (si noti che i sudanesi vivono a nord dell’equatore, i bantu a sud).
In secondo luogo, neri, indios e meticci, costituiscono un “problema”: è l’epoca, scrive Sansone, in cui le élites latinoamericane hanno la sensazione di non disporre di un popolo all’altezza delle aspirazioni dei grandi pensatori della nazione, di un popolo che non si merita le sue élites. Sensazione condivisa dalle élites centrosettentrionali italiane alle prese col brigantaggio e l’irrisolta questione meridionale.
Vi è quindi omologia e sintonia tra i problemi che agitano la Scuola Positiva italiana e le élites latino americane. Sintonia, più che accettazione delle teorie. Infatti la fortuna della scuola lombrosiana si esercita non tanto sull’antropologia fisica, quanto sulle scienze per così dire laterali come criminologia, e quindi progettazione delle prigioni, dei manicomi criminali, scrittura dei codici penali. Due lombrosiani di spicco in visita a Buenos Aires ascolteranno in un manicomio una conferenza sull’America precolombiana pronunciata da un detenuto uxoricida ed epilettico.
Ma quello che stupisce di più nella ricerca di Sansone è la dimensione, la portata, l’inaudita vastità della fama che circonda gli intellettuali lombrosiani, i discepoli e familiari del maestro che viaggiano in America latina, prima la figlia Gina e il genero Guglielmo Ferrero nel 1907, poi Enrico Ferri nel1908 e nel 1910. È dedicata loro un’accoglienza incredibile. Un’accoglienza che oggi non sarebbe riservata nemmeno a Taylor Swift o al re d’Inghilterra. Ecco cosa racconta Gina: “A Buenos Aires ci ricevono come sovrani. Migliaia di persone ci aspettano al porto all’arrivo, e ci scortano all’hotel. Arrivano inviti dal Cile e dal Perù, ma non abbiamo tempo…. Il successo delle conferenze in America meridionale spinse Theodore Roosevelt ad invitarci negli Stati uniti l’anno dopo”.
Alla Gare do Norte di San Paolo 5.000 paulisti circondano il governatore nel suo saluto ai due coniugi. Vengono offerti banchetti con più di 100 coperti e ricevimenti dei ministri. Il governo brasiliano mette a disposizione un intero vagone per i viaggi all’interno. Viene da riflettere sul posto che la cultura occupava allora nella gerarchia sociale.
Tra Argentina, Uruguay, Cile e Brasile, Enrico Ferri (direttore dell’Avanti! per quattro anni, poi senatore) tiene decine e decine di conferenze che sono vere e proprie performances: si comporta, dice Sansone, come un divo, blasé, attento ai capelli ricci, alla barba curata, al fisico aitante, sempre in silenzio per ore prima delle recite, per salvaguardare la voce. In Brasile sono 12 le conferenze sui seguenti argomenti: “L’Italia; Lo spiritismo; Pio X; Patria e umanità; Pane e amore; La Chiesa e la donna; Psicologia di Garibaldi; Il caffè; Dal microbo all’uomo; La donna: ciò che è e ciò che sarà; Wagner e l’uom di genio; Educare i bambini”. Da questi temi si capisce che il successo dei lombrosiani fu dovuto anche a quelle che furono le debolezze scientifiche e accademiche della scuola, un eclettismo, un parlare di tutto, una certa “disinvoltura razziale”, come è stato detto.
La sintonia tra lombrosismo ed élites latinoamericane si percepisce benissimo nelle impressioni di Gina Lombroso, di fatto la caporedattrice della rivista Archivio di Psichiatria, organo ufficiale della scuola, segretaria e confidente del padre, autrice femminista:
Lo sfruttamento agricolo del Brasile non sarebbe stato possibile senza l’aiuto dei negri d’Africa. (…) Sì, essi erano schiavi; ma essi passavano dal dominio di clan e di principi spesso poveri e crudeli, a quello di padroni che avevano bisogno del loro braccio, che non li disprezzavano, che non si sdegnavano di adottare i figli nati dall’unione colle loro donne e spesso anche di unirsi ad esse con matrimonio legale, che li nutrivano e addestravano in un’arte civile. (…) Non vi fu mai in Brasile lo sprezzo che oggi esiste ancora in Nord America, il che spiega il fatto che la schiavitù durò in Brasile fino ad una ventina di anni or sono, e fu abolita non per causa di rivolte di schiavi ma per ragioni economiche (…) Non esito a dire che l’influenza del nero fu spesso migliore di quella del bianco (…) se il nero ebbe dal bianco l’imbiancamento della propria razza e acquistò una maggiore perfezionabilità, l’elemento africano diede al bianco l’adattamento al clima e un innesto prezioso di doti che andavano nel bianco estinguendosi – l’immaginazione, il cuore, la pazienza (p. 123-124).
Gina si beve d’un fiato l’idillico ritratto delle fazendas che le danno i fazenderos che frequenta. Ma queste sue osservazioni spiegano perché Sansone fornisca un ritratto più sfumato del razzismo di Lombroso. In vari passi Lombroso si dichiara a favore del meticciato: “L’innesto etnico è il più efficace fattore del progresso di un paese. E Gina stessa afferma che i meticci brasiliani sono di bell’aspetto e a volte più capaci dei bianchi. Queste parole erano musica per le orecchie di élites che governavano nazioni ad altissima componente meticcia: da problema i meticci diventavano risorse. Questo in un’epoca in cui il famoso esploratore Livingston poteva dire: “Un dio ha creato i bianchi; chi ha creato i neri non lo so; ma di sicuro i meticci li ha creati il diavolo”.
Un’ultima ragione del successo di Lombroso in America Latina fu il suo accostarsi allo spiritismo negli ultimi anni della sua vita, quando, sempre in base a osservazioni naturali e oggettive poteva dire che, come la follia risponde a misure craniche, la delinquenza ai lobi frontali, così l'anima che, «pur riducendosi a una materia fluidica, ... continua ad appartenere al mondo della materia». Come «le leggi sulle onde di Herz spiegano in gran parte la telepatia, così le nuove scoperte di proprietà radioattive di alcuni metalli, il radium in ispecie, ... annullano l'obiezione più grande che lo scienziato doveva opporre alle manifestazioni spiritiche misteriose». Oggi nessuno ricorda il rigoglio dello spiritismo a cavallo tra ‘800 e ‘900, fino a tutta la metà del secolo scorso. Ricordo vagamente sedute spiritiche a casa mia negli anni ’50. Sono spettacolari le pagine che Sansone dedica allo spiritismo, come quando racconta che nel 1929 il medium Mirabelli pubblica un libro in cui riunisce una serie di messaggi dell’aldilà, il primo dei quali è di Cesare Lombroso.
Lombroso, scienziato del morboso, della devianza, del rapporto tra genio e follia e, verso la fine, dell’occulto è innanzitutto il teorico della degenerazione. E, dice Sansone, l’Italia, con le sue rovine di un grande passato, “occupa un posto preminente nella geografia della degenerazione”. In età vittoriana agli inglesi “l’Italia sembrava il paese del peccato e della sessualità sfrenata, una terra pericolosa per i corpi e per le anime”.
Dopo la prima guerra mondiale in Italia la scuola lombrosiana si frantumerà: una parte dei suoi membri confluirà nel nazionalismo (Sergio Sighele) o aderirà apertamente al fascismo, come Enrico Ferri e, più curiosamente come Salvatore Ottolenghi, ebreo da parte di madre e di padre e che metterà su per il regime lo schedario criminale che tanto utile gli sarà; un’altra parte si oppose al fascismo come Mario Carrara, marito di Paola Lombroso, che fu uno dei pochi accademici a rifiutare di giurare fedeltà al fascismo e morì nelle carceri Nuove a Torino nel 1937, o come Guglielmo Ferrero, marito di Gina, che morì in esilio nel 1942.
In America latina invece, già tra le due guerre, ma soprattutto in seguito, nel campo delle scienze sociali l’influenza italiana sarà soppiantata dai francesi e dagli statunitensi. Invece di Ferri e Ferrero arriverà Lévi-Strauss. Ma per circa quarant’anni la scuola positiva italiana ebbe un ruolo preminente, forse perché come ricorda Sansone, “l’Italia intimidiva meno”. D’altronde anche le varie influenze culturali europee si disponevano e si gerarchizzavano secondo stereotipi nazionali strettamente convenzionali:
Di fatto in America latina vi sono quattro grandi influenze straniere sulla formazione delle scienze sociali: il positivismo comtiano dalla Francia; l’empirismo e l’evoluzionismo britannici (Darwin e più tardi Spencer); la filosofia della Germania e la scuola di antropologia positiva italiana con la sua fisiognomica (…). Ciascuna di queste influenze, e le prime tre avranno più peso, corrisponde all’immaginario collettivo sul carattere della cultura, con gli inglesi più incentrati sull’empiria, i francesi sulla ricerca di valori universali che essi meglio di qualunque altro popolo potevano interpretare, i tedeschi che s’interrogano sull’essenza dell’individuo e della collettività, e gli italiani che studiano l’apparenza e la dimensione estetizzata della personalità. (…) Come se stereotipi nazionali e personalità collettiva di una cultura vista come nazionale, in qualche modo, coincidessero (pp.174-5).
Un libro pieno di spunti, notizie, ricerche, da cui si imparano un sacco di cose, che getta una luce nuova, per così dire “di sghembo”, sulla “galassia Lombroso”. L’unica questione irrisolta riguarda proprio il tema centrale del volume: non è chiaro se la scuola lombrosiana abbia effettivamente influito sulla rappresentazione delle relazioni razziali latinoamericane, se cioè le abbia modificate, oppure se sia stata semplicemente la suggestione culturale europea più consona, più in sintonia con l’immagine delle relazioni razziali che le élites latinoamericane già si stavano costruendo a propria autogiustificazione.
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