L’ultimo viaggio di Albert Camus

14 Marzo 2014

“Il Mediterraneo ha la propria tragicità solare che non è quella delle nebbie. Certe sere, sul mare, ai piedi delle montagne, cade la notte sulla curva perfetta d’una piccola baia e allora sale dalle acque silenziose un angosciante senso di pienezza. In questi luoghi si può capire come i Greci abbiano parlato della disperazione solo attraverso la bellezza e quanto essa ha di opprimente. In questa infelicità dorata la tragedia giunge al sommo”. (da Albert Camus, L’esilio di Elena)

 

Il doppio filo che lega parola e paesaggio, nei grandi poeti, è difficilmente districabile. La scrittura rispecchia i luoghi sia descrivendoli che, in un senso più profondo, riflettendoli in una forma, assorbendoli nel proprio respiro. In questo senso, è il paesaggio stesso a dettare la parola, a tradursi in ritmo, pensiero, a divenire un criterio di stile.

 

 

Sarebbe difficile pensare al canto della Terra Desolata eliotiana senza lo sfondo complesso e stratificato delle irreali metropoli dell’occidente. Lontano dalle fascinazioni dell’invisibile, dalle torbide alchimie di Praga, senza dubbio Kafka avrebbe parlato un’altra lingua. E cosa avrebbe mai scritto Dostojevskij se l’incandescenza del suo spirito non fosse stata segregata negli spazi malsani, oscuri e polverosi delle soffitte di Pietroburgo, per poter bruciare più forte in sconfinati inverni nevosi?

 

Considerazioni analoghe valgano forse anche per la filosofia, e non solo. Nietzsche sarebbe impossibile senza le solitudini selvagge e rarefatte, “al di là dell’uomo e del tempo”, dell’Alta Engadina e il mondo delle idee di Platone, e persino la matematica stessa, mi paiono similmente nascere quasi per generazione diretta da quella luce intensamente spirituale, quasi allucinatoria, che distingue l’estate dell’Attica.

 

 

Uno degli scrittori-filosofi del ‘900 per i quali questo legame tra interno ed esterno, tra luce e anima, appare singolarmente serrato è Albert Camus.
Francese d’Algeria, cresciuto tra paesaggi tersi sul mare e le rovine di Tipasa, con il grande vuoto del deserto alle spalle; scrittore intensamente, visceralmente mediterraneo, Camus ci ha regalato alcune delle pagine più felici che la letteratura universale a quel mondo ha dedicato:

 

“In primavera, Tipasa è abitata dagli dei e gli dei parlano nel sole e nell'odore degli assenzi, nel mare corazzato d'argento, nel cielo d'un blu crudo, fra le rovine coperte di fiori e nelle grosse bolle di luce, fra i mucchi di pietre. In certe ore la campagna è nera di sole. Gli occhi tentano invano di cogliere qualcosa che non siano le gocce di luce e di colore che tremano sulle ciglia. Il voluminoso odore delle piante aromatiche raschia in gola e soffoca nella calura enorme. All'estremità del paesaggio, posso vedere a stento la massa scura dello Chenoua che ha la base fra le colline intorno al villaggio, e si muove con ritmo deciso e pesante per andare ad accosciarsi nel mare.” (da Albert Camus, Nozze)

 

 

Raramente il riverbero abbacinante della luce mediterranea, con la sua parte di nero, con i demoni dionisiaci del mezzogiorno, si è fissato nella parola con cadenze più precise e incalzanti. Già in questo scritto giovanile il paesaggio sembra incarnare, in Camus, molto più che una delle forme della poesia – esso è il luogo dello spirito dove l’uomo sfugge all’assurdo e si appropria del suo destino.
Si pensi a Mersault nella Morte Felice, si pensi al Mito di Sisifo: “nella profondità dell’inverno”, dirà lo scrittore, “ho imparato infine che dentro di me c’è un’estate invincibile”. Come Edipo, come Kirillov, alla fine anche Sisifo giudica che tutto sia bene.

 

Rileggevo Camus qualche mese orsono, viaggiando per le isole del nord dell’Egeo. Mi trovavo a Ikarìa, sorbendo un caffè turco tra i gatti del porticciolo di Aghios Kìrikos, quando mi colpì misteriosamente un appunto laconico dei Cahiers – Tornare a Sigri.

 

M’informai, Sigri era un minuscolo paese di pescatori sul margine occidentale di Lesvòs. I vecchietti stralunati della Casa del Navigante bofonchiarono rochi che l’isola di Saffo non era troppo lontana. Forse cinque, sei ore di navigazione. Decisi di partire quella sera stessa.

 

Fui però costretto ad attendere più a lungo del previsto, spirava violento il Meltemi e i traghetti non riuscivano ad attraccare nel piccolo porto traslucido esposto alle correnti. Per due giorni rimasi a guardarli appressarsi al molo, fare lentamente manovra e poi rinunciare. La gente del posto sorrideva e allargava le braccia, nessuno sapeva nulla, ma infine il vento si placò. Il terzo giorno m’imbarcai.
Arrivammo a Mytilini di primo mattino. L’aria sapeva di sale, fiori e catrame, nella calura già soffocante. Dopo aver attraversato con l’automobile lunghi e fatiscenti viali di ville neoclassiche, transitai accanto a campi di zingari e piccole ciminiere, sporadiche periferie di baracche e botteghe malmesse, che si diradavano in dense foreste di pini. Confesso che l’isola mi apparve dimessa in modo quasi avvilente; ero amaramente pentito di quell’assurdo viaggio letterario; rimpiangevo Ikarìa, Amorgòs: nulla riusciva a magnetizzare il mio sguardo, ormai avvezzo a tanta bellezza.

 

Solo dopo essermi lasciato alle spalle le acque immote del Golfo di Kallonì e aver valicato una dorsale di monti brulli abitata da rade querce, massi erratici e olivi stenti la strada prese a discendere, come in sogno, verso il mare aperto.
La costa assolata e deserta appariva remota, arida e vuota.
Lande lunari, simili ad anatoliche steppe; un monastero appollaiato sulla cima d’un vulcano spento. Ossa sparse in campi roventi, il teschio smangiato d’una capra. Alberi pietrificati in una deflagrazione rossastra.
Tornante dopo tornante il luogo si faceva sempre più spoglio, rarefatto: paesaggio dell’assenza, vuoto in attesa.
Lungo la riva poche case bianche sparse in un’immensità muta – una geografia inquieta di piccole penisole, anfratti, insenature – aperture improvvise, labirinti rocciosi dove l’acqua penetrava ovunque, dissolvendo ogni frontiera.

 

 

Più lontano, isole in frantumi alla deriva del vento: Nissiòpi, l’Isola del Silenzio, e come in un’istantanea di trenta milioni di anni fa, Kavaloùros che si scioglie nelle acque dell’Egeo.
Mondi surreali dove la mente si perde in spazi onirici, migrando verso altri luoghi possibili, ricordi d’altri viaggi: la Patagonia, Karś, il Connemara. I raukar di Ingmar Bergman a Fårö. Capo Nord.
Luoghi lontani e profondamente diversi, eppure ammantati da un’identica aura di terra di confine, lontana da tutto, ai margini dell’ignoto.
O dell’infinito.

 

Tutto questo, e i colori spenti, stranamente sbiaditi di vaste desolazioni giallastre; le erbe bruciate dal sole che stridono nell’azzurro assoluto del mare: l’allucinazione della luce greca, che distacca dalle cose forme nude, non potevano apparire a Camus che con la certezza di un destino.
Forse lo specchio d’una scrittura tersa, scabra ed essenziale. Quella dello Straniero. Quella dei romanzi che non aveva ancora scritto.

 

Ormai non aveva più scelta, sarebbe vissuto laggiù, in quella terra aspra e pura, che si spezza nell’Egeo in innumeri brandelli possenti. Pensò di trasferirsi la successiva primavera. A Sigri, disse agli amici, avrebbe terminato una pièce teatrale alla quale lavorava da tempo. Ma certo pensava a liberazioni assai più definitive.

 

Sui Cahiers, come accennavo, di tutto ciò non troviamo quasi traccia. Si deve al memoriale In compagnia di Albert Camus di Lìto Katakouzìnou (Συντροφιά με τον Καμύ, Fondazione Angelos e Litis Katakouzìnou, Atene 2011), ad oggi edito esclusivamente in greco, la ricostruzione del viaggio di Camus in compagnia di Michel Gallimard e dell’artista greco Pràsinos.

 

Questa storia, mai menzionata in alcuna delle biografie “ufficiali” del premio Nobel, struggente documento d’un sogno spezzato, mi è stata raccontata dal signor Adònis Chiòtis, proprietario dell’unico Kafeneìo del paese, che mi ha poi procurato una copia del libro.

 

 

Le pagine che qui ci interessano sono quelle dove l’autrice rievoca una serata trascorsa da lei e suo marito Angelos in compagnia del grande scrittore, che aveva appena fatto ritorno da Lèsvos e sembrava quasi presagire la propria fine imminente. Il volto di Camus, ricorda la Katakouzìnou, spiccava pallido nel crepuscolo e come al di là di questo mondo mentre lui, perduto nelle sue visioni, vagheggiava una vita a Sigri. Ecco, mi piacerebbe concludere queste sporadiche riflessioni traducendo liberamente qualche passaggio del suo improvvisato, quasi febbrile monologo:

 

“Più tardi, quando attraccammo a Sigri, fui rapito dalla suggestiva austerità del luogo, dalla schiettezza dei suoi abitanti, dalla foresta pietrificata e dal mito di quell’altra foresta che dicono esista negli abissi.
“Qui voglio tornare a vivere e a lavorare” – improvvisamente iniziavo a pensare ad alta voce – “proprio laggiù, sul mare, in quella casetta isolata!”.
“Cosa dice lo straniero?” indagò una delle persone che ci circondavano con curiosità. E quando il mio amico glielo comunicò, lui gridò forte: ”Prendila, è tua: vai e restaci quanto vuoi!”.
Capite, è la terra degli dei: qualsiasi cosa tu chieda ti viene data!
È molto bella la tua isola, Angelos, bella e virile. Gli uliveti, le colline verdeggianti, curve tenere come odalische adornate d’argento cullate dai venti dell’Egeo, si sposano armoniosamente con le alte, maschie montagne che le ammirano distendersi con fiera indolenza ai propri piedi. Monti che fissano lo sguardo lontano, verso Oriente, orgogliosi eredi della filosofia Ionica (…)

 

Ma oltre a tutto questo mi hanno molto colpito gli abitanti dell’isola. Proprio quando li credi simili ai cespugli di spine e alle querce disseccate che li circondano, scopri che custodiscono preziosi tesori, celati nel fluido dell’anima come l’argento dei loro ulivi. Quello è il luogo dove vivrò, Angelos, sulla tua isola. Ma sul confine occidentale, in quel villaggio di pescatori dove la roccia è nuda e tagliata come col coltello. E chissà, forse per sempre … Me ne starò laggiù, sul limite della spiaggia, a contemplare il mare. Le onde dell’Egeo mi porteranno profumi da Tipasa, memorie della mia patria lontana. Rimarrò sulla riva per delle ore, la salsedine mi brucerà gli occhi, seccherà le mie labbra ... E ad ogni tramonto dirò addio al sole, per abituarmi al distacco, la morte, contemplerò quanto bello, quanto grandioso sia il distacco … Altre volte, abbandonato nella mia barchetta, le vele tese al vento selvaggio, navigherò come impazzito nel mare furente: anima inseguita, solitaria, perduta. E forse, in qualche baia riparata, riposandomi sfinito (…) guarderò nell’abisso e allora, chissà, m’appariranno le anime seppellite nelle sue viscere, la foresta pietrificata che tutti dicono si trovi laggiù, sul fondo del mare, ma che non sono ancora stato così fortunato da vedere …”.

 

Fu l’ultima volta che Camus visitò i Katakouzìnou. Non tornò più in Grecia, non visitò mai più Sigri. Prima che quella tanto attesa primavera arrivasse, nel gennaio del ’60, Albert Camus perì in un incidente stradale. Guidava l’automobile Michel Gallimard, amico ed editore, che sulla propria barca a vela l’aveva condotto a Lèsvos.

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