L'umanità del male
Le (im)possibilità della poesia dopo Auschwitz
A caldo, pochi anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, Adorno stabiliva l'impossibilità di fare poesia dopo Auschwitz, sarebbe stato «un atto di barbarie». L'incapacità di parlare, di comprendere, finanche di testimoniare quello che è accaduto in Europa nella prima metà del Novecento è forse il segno stesso di quegli eventi e del modo in cui se n'è fatto storia e memoria. Ma paradossalmente l'arte occidentale ha cominciato a occuparsi fin da subito di quello che è accaduto, forse proprio a causa dell'impossibilità di elaborare il proprio lutto. E se all'inizio sono stati gli orrori della pittura di Bacon, la follia del Caligola di Camus, gli scomodi azzardi di Brecht e Il grande dittatore di Chaplin, il filo rosso di quella tragedia attraversa poi tutta l'arte del secolo scorso. Primo Levi, riprendendo l'idea di Adorno, preferiva piuttosto pensare che «dopo Auschwitz non si può più fare poesia se non su Auschwitz».
ph. Brunella Giolivo
Forse Levi non ha tutti i torti, se pensiamo, oltre agli esempi già citati, alle conseguenze più ampie che la devastazione della seconda guerra mondiale sembra aver imposto ai linguaggi artistici: la pittura astratta nasce proprio in quegli anni, così come le pratiche installative e anche performative. L'unicità e l'irripetibilità dell'evento, il coinvolgimento dello spettatore, la valorizzazione dell'autenticità dell'hic et nunc, il privilegio per la dimensione sensoriale-emotiva rispetto a quella del senso sono solo alcune delle nuove coordinate che emergono al giro di boa della metà del secolo: varie, varissime manifestazioni di un'arte del presente (dunque, almeno teoricamente, senza passato e senza futuro) che sul crinale della fine della storia sembra sventolare a gran forza la propria bandiera bianca davanti di fronte alla possibilità stessa della rappresentazione. L'esito di fondo, che percorre tutto il Novecento arrivando fino ai nostri giorni, è una scissione difficilmente rimarginabile fra oggetto e soggetto, fra individuo e società, fra estetica e politica. Di lì a poco il discorso sarà rilanciato dalla critica del segno, del soggetto e della presenza imposta dal pensiero post-strutturalista, che spesso è andato a orientare ancora di più queste spinte verso gli orizzonti insidiosi degli estremismi relativisti e soggettivisti.
Il progetto di Antonio Latella
E oggi, fra Adorno e Levi, fra performatività e decostruzionismo, sembra ci sia una gran necessità diffusa di tornare a parlare della tragedia primonovecentesca (ma anche delle sue letture successive), una volontà di farci i conti, riconoscendola – pur dolorosamente e fra incommensurabili difficoltà – per quella che è: la storia e l'eredità dell'Occidente. È il lavoro di Antonio Latella, uno dei nostri migliori registi, a riportare ultimamente l'attenzione sul tema. Lo fa non con uno spettacolo, ma con un intero progetto sul tema della menzogna che, oltre a un Peer Gynt in Russia e al prossimo Servitore di due padroni, comprende un dittico che lavora esplicitamente sulla vicenda nazista: A.H. – sono ovviamente le iniziali del dittatore tedesco –, monologo al debutto al festival Drodesera la scorsa estate ora in tournée in tutta Italia e Die Wohlgesinnten, dalle Benevole di Jonathan Littell, di recente a Romaeuropa Festival.
ph. Brunella Giolivo
A.H. Si presenta con un interrogativo singolare: cosa succederebbe «se invece di mettere i baffi alla Gioconda provassimo a toglierli a Hitler?». L'esito è una performance travolgente, con un performer straordinario (Francesco Manetti), solo in scena, che entra e esce di continuo dalle spoglie di Hitler, della guerra e della storia: se togliessimo quei baffi «resterebbe l'uomo», risponde Latella in un'intervista.
ph. Brunella Giolivo
Il punto delle Benevole di Littell – per riassumere i termini dello scandalo che questo difficile e complesso romanzo ha suscitato da un capo all'altro della cultura occidentale – è il racconto in prima persona; ma non dal punto di vista delle vittime, dalla prospettiva del carnefice. Di più, l'SS Max Aue, convintissimo nazista e autore di crimini sempre più efferati, è ben lontano da quella “banalità del male” con cui ci sono state in parte tramandate le ragioni della partecipazione e del coinvolgimento nello sterminio nazista: giurista, amante della buona musica, finissimo intellettuale, che somatizza con manifestazioni psicofisiche sempre più devastanti la sua atroce quotidianità, è quasi uno come noi. Infatti il romanzo, che prende le forme delle memorie dell'ex-SS scampato ai tribunali del dopoguerra e all'epoca della narrazione vecchio merlettaio d'adozione francese, si inaugura con: «Se siete nati in un paese o in un’epoca in cui non solo nessuno viene a uccidervi la moglie o i figli, ma nessuno viene nemmeno a chiedervi di uccidere la moglie e i figli degli altri, ringraziate Dio e andate in pace. Ma tenete sempre a mente questa considerazione: forse avete avuto più fortuna di me».
ph. Ralf Hoedt
L'empatia, l'identificazione con Aue è un problema grosso, al limite dell'inaffrontabile. Dice Latella che Littell pone una domanda sulla possibilità di rappresentazione del male; con questo dittico il regista ce ne rivolge una ulteriore, durissima, che riecheggia dal faro mobile guidato dal cantante Maurizio Rippa che esplora la platea all'inizio delle Benevole a Hitler in My Heart, canzone di Antony and the Johnsons che si fa leitmotiv di A.H., spettacolo che si chiude con l'inquietante invocazione “Io ero Europa, Io sono Europa, Io sarò Europa”: è una domanda sulla connivenza, quando non addirittura complicità, nei confronti della follia nazista, non solo da parte delle istituzioni internazionali, ma anche e soprattutto dei singoli individui. È una domanda su di noi, ieri ma anche oggi e domani, sulla possibilità di permettere la realizzazione di crimini del genere.
La possibilità del male ieri, oggi e domani
Ma qui, appunto, non si tratta solo di libri di storia, di dittature concluse, di tabù scoperchiati e ferite non rimarginabili: si tratta dell'umanità e così del male in senso assoluto, dunque innanzitutto del presente. Gli indizi, in questo senso, sono innumerevoli nell'uno e nell'altro spettacolo: basti pensare alla vertiginosa storia della guerra attraverso la storia delle armi mimata dal silenzioso Manetti in A.H., al dialogo fra Aue e un prigioniero russo nelle Benevole sulle differenze e coincidenze fra il progetto nazista e quello comunista. La vicenda della Shoah, in tutta la sua atroce incomprensibilità, è l'emblema della possibilità sempre attuale del genocidio e della guerra, di sprofondare progressivamente – sì, anche noi, anche adesso – in crimini che fino a ieri e da domani sembrano inconcepibili.
ph. Ralf Hoedt
La scelta di Latella, con la messinscena di questo dittico, su questo punto è d'una chiarezza accecante. Tempi bui quelli di questi nuovi anni Dieci, in cui i neonazismi e tutte le forme di nazionalismo, razzismo e intolleranza sono all'ordine del giorno; in cui il potere dell'uomo sull'uomo, in tutto il suo individualismo, si presenta in manifestazioni di sempre maggiore indecenza politica e culturale.
ph. Ralf Hoedt
I rischi di mettere le mani su un fascio di nervi scoperti, ancora doloranti, sono evidenti, ben presenti, si potrebbe dire addirittura previsti. «Ho sempre pensato, forse ingenuamente, che il male sia un mistero che non si può e non si deve comprendere; nell’istante stesso in cui il male è compreso, non è più male», scrive Antonio Latella nelle note di regia. Ma la creazione di questi due ultimi spettacoli in qualche modo lo contraddice. Così come – per fermarsi agli ultimi anni nei confini teatrali italiani – Him di Cattelan (prontamente ripreso poco dopo dal lavoro omonimo di Fanny & Alexander), l'Arturo Ui di Claudio Longhi, gli Orazi e Curiazi dell'Accademia degli Artefatti, l'ultimo lavoro di Fibre Parallele (la fonte del terzo quadro di Lo splendore dei supplizi è il Mein Kampf), la straziante tensione di Lingua Imperii di Anagoor (che, fra la complessità della stratificazione drammaturgica, riprende anch'esso Le benevole di Littell) – e tutti quei lavori scenici che, a proprio modo, si sono messi a fare i conti con la possibilità del male.
ph. Ralf Hoedt
Come se dopo la frammentazione del soggetto, la fine della storia, la perdita del senso, il faccia a faccia con l'indicibile e l'irrapresentabile, gli artisti di questi inquietanti anni Dieci rivendichino una rinnovata possibilità per il teatro, non di raccontare, rappresentare o testimoniare, ma quanto meno di tenere viva, sempre all'erta, l'idea che atrocità del genere siano state e siano tuttora possibili. E di richiamare le persone a farci un pensiero, interrogarsi, ragionare insieme in quello spazio – in questo caso non è un azzardo dirlo – di confronto e di elaborazione del pensiero collettivo che può essere il teatro.
Roberta Ferraresi (Il Tamburo di Kattrin)