Martin Scorsese. Hugo Cabret

9 Febbraio 2012

Finalmente Martin Scorsese, pur senza ritornare quello che era e che non sarà più, ha girato un film alla sua maniera, ritmato e cadenzato come un unico respiro, narrato senza seguire il filo di un racconto tradizionale (forse bruciato dagli sbandamenti impazziti di Shutter Island), ma facendosi guidare da un’emozione più forte di qualsiasi genere: l’emozione del cinema. Meglio ancora, l’emozione del miracolo che il cinema, mezzo meccanico e tecnologico, realizza quando parla all’anima di uno spettatore.

 


Non solo Hugo Cabret è il suo miglior film dai tempi di Al di là della vita, nonostante l’inattesa formula da blockbuster e la leggerezza del racconto natalizio; soprattutto, è ciò che Scorsese cerca di fare da Gangs of New York in poi, il film popolare del cinefilo che parla non con l’erudizione dell’intellettuale, ma con il cuore dell’appassionato, dello spettatore ancora stupito. Nella sua dimensione sognante e didattica, il film realizza l’incontro tra le due anime del regista, emerse dalla metà degli anni ’90 dopo lo straordinario documentario Viaggio nel cinema americano (interamente visibile su YouTube, a partire da qui): l’anima del documentarista e quella del regista innamorato del cinema, un tempo selvaggio cantore dell’ossessione, ora della passione come strumento di conoscenza del mondo.

 

Hugo Cabret è il primo film di Scorsese da molto tempo che trova un passo, una cadenza nel montaggio, e lo fa fin da subito. I primi minuti, quelli che precedono i titoli di testa, sono forse quelli meno convincenti, con le immancabili corse e rincorse a offrire la solita esperienza sensoriale del 3D, ma il movimento fluido della macchina da presa che vaga in un mondo fittizio e malinconico, molto francese eppure mai stucchevole, detta il ritmo trasognato e docile che attraverserà l’intero film, accogliendo sia il romanzo dickensiano del piccolo Hugo, sia la rimembranza del cinema di Méliès. La cadenza silenziosa eppure decisa della sequenza d’apertura, con i suoi raccordi di sguardo, i suoi quadranti di orologio a rubare il tempo, la sua improvvisa immersione in un mondo che il film non introduce ma offre come vortice in cui saltare, ricorda altri incipit forsennati o estatici di Scorsese e apre al regista la porta di territori che tornano ad appartenergli.

 

 

Ad ammorbidire la possente irregolarità della sua voce di un tempo, ad anestetizzare quell’improvvisazione da set che rendeva unico il suo cinema, nel solco di Cassavetes, della nouvelle vague, della cultura rock, è certamente la confezione da film commerciale, la forma impalpabile, inerme e caramellosa, del digitale vintage. Soprattutto, però, al di là dei limiti di un film non perfetto, a rivelare la vera anima della maturità senile di Scorsese, la svolta finalmente compiuta di uno sguardo che ha rinunciato ad aggredire il reale, è l’onestà intellettuale con cui affronta la storia del cinema e il suo desiderio di regalarla agli spettatori (che, considerato il successo planetario del film, spesso sono spettatori ignari del suo cinema e inconsapevoli dell’involuzione subita nell’ultimo decennio).

 

Ed è qui che si comprende la scelta di girare un film per famiglie, l’intento didascalico eppure commosso del cinefilo che invita ancora una volta al viaggio. I momenti didattici di Hugo Cabret sono quelli più commoventi, con il Méliès di Ben Kingsley che fissa la macchina da presa e parla con lo stesso sorriso dolce che Scorsese sfodera quando parla del “suo” cinema, della Hollywood classica e di Visconti, di Kazan e di Rossellini.

 

 

Senza l’ossessione citazionista di Shutter Island, senza la patina chroma-key di The Aviator, senza la pur esaltante magniloquenza romanzesca di Gangs of New York, con Hugo Cabret Scorsese compie finalmente il cammino tormentato, spesso fallimentare, della sua seconda parte di carriera, quella più commerciale, hollywoodiana, talvolta malriuscita, ma forgiata sul tentativo di divulgare la sua passione e costruirvi un grande racconto rivolto al passato, come un professore benevolo che insegna ai suoi studenti prima di tutto ad amare.

 

L’accento non è tanto sulla meraviglia del sogno cinematografico, ma sull’emozione dell’incontro con il mondo a cui lo schermo dà accesso, in un dialogo reciproco tra cinema e spettatore (reso esplicito dallo scambio tra Harold Lloyd e Hugo) che solo la contagiosa cinefilia di Scorsese rende onesto e necessario. Lo stesso ricorso al 3D acquisisce un senso di vicinanza e reciprocità che riporta il cinema alla sua dimensione di evento matericamente spettacolare, immaginifico eppure percepito come vero, sogno che sembra realtà, visione che restituisce un’esperienza.

 

 

Scorsese non insegna la storia del cinema, ne trasmette l’amore assoluto come forma di educazione alla vita. E lo stesso fa con la forma per lui estranea del blockbuster, riconducendo l’evanescenza dell’estetica digitale alla magia elementare di Méliès: non in un’ottica vintage o moralista, ma semplicemente riflettendo sull’origine del mezzo che ancora oggi, a più di cent’anni di distanza, non è mutato rispetto al muto e ancora può regalare le stesse emozioni.

 

Quando in Hugo Cabret Scorsese ricostruisce gli studi cinematografici di Méliès, eretti in vetro per far filtrare la luce, o quando, in una bellissima sequenza onirica, trasforma Hugo in un automa silente e metallico, o quando, ancora, inquadra lo stesso automa nella sua immobile meccanicità, sguardo inquietante che racchiude il futuro incerto del cinema e del secolo di cui è espressione, ciò che coglie nell’unione contraddittoria tra trasparenza e materia, vita e natura morta, cuore e metallo, è il momento decisivo della nascita della modernità, segnata dal sopravvento del meccanico sull’umano e, nel caso del cinema, dal fascino di una macchina cui spetta il compito di parlare al cuore.

 

 

E come Cronenberg con A Dangerous Method coglie nella psicanalisi il germe della natura romanzesca del cinema, Scorsese fa altrettanto con Hugo Cabret, indagando il rapporto tra la magia, la tecnologia e la dimensione onirica del mezzo. E non lo fa con la precisione dello storico o con la finezza dell’intellettuale, ma con la voce tenue di un anziano signore gentile che ha un’idea precisa della bellezza e ora, con forme rinnovate, meno personali ma mai così sincere, prova a trasmetterla a più persone possibili.

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