Mary Oliver: ecopoesia e ironia

5 Dicembre 2023

Per vivere in questo mondo

devi essere capace 
di fare tre cose:
amare ciò che è mortale;
tenerlo stretto

contro le tue ossa sapendo
che ne dipende la tua vita stessa;
e quando arriva il tempo di lasciarlo andare,
lasciarlo andare. (p. 163)

Chiude così Nei boschi di Blackwater, una delle 50 poesie di American Primitive, la raccolta di Mary Oliver, uscita nel 1983, vincitrice del premio Pulitzer, ed ora finalmente tradotta in italiano (Primitivo Americano, Torino, Einaudi, 2023), con una opportuna e illuminante introduzione di Paola Loreto, che firma anche tutte le puntuali traduzioni accompagnate da una utile nota sul tradurre. “Finalmente” perché a distanza di quarant’anni, con più di venti raccolte, pubblicate da editori come Houghton Mifflin o Penguin, centinaia di migliaia di copie vendute e una popolarità negli Stati Uniti davvero singolare per chi si dedica a questo genere letterario, anche l’editoria italiana si è accorta non solo di questo prezioso volume, il primo di Oliver ad apparire solo ora in Italia, ma soprattutto del suo appassionato e innovativo lavoro poetico di osservatrice e interprete della natura. Come mai un’icona della poesia americana non sia riuscita a conquistarsi un posto fra i nostri scaffali di libri tradotti è uno di quei fenomeni complessi da spiegare, e che ci interroga su come funziona, o non funziona, il mercato della poesia in Italia. Non è sufficiente dire che la sua poesia è troppo semplice, diretta, comprensibile, poco sperimentale per i pochi e raffinatissimi lettori di poesia in Italia. Molti altri poeti americani, neppure particolarmente noti a casa loro, come ad esempio Edgar Lee Masters, sono da noi invece considerati scrittori del canone. Lo testimoniano le numerose traduzioni della Spoon River Anthology: almeno 10 diverse versioni disponibili sul mercato negli ultimi 8 anni, che nemmeno la fortuna del disco Non al denaro non all’amore né al cielo di De André del lontano 1971 potrebbe da sola giustificare. Il discorso sarebbe lungo e ci porterebbe lontano. 

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Meglio tornare alla fulmineità aforistica della chiusura di In Blackwater Woods, che giunge come meditazione inattesa, dopo una descrizione di alberi che si fanno pilastri di luce, delle tife palustri con le loro tozze infiorescenze marroni che esplodono in mille semi e sono portate via dalle acque, e dei laghetti che si trasformano in rivoli scuri senza nome. I versi raccontano del passaggio ininterrotto delle stagioni, del ciclo della vita, del quale umani e non umani, piante e rocce fanno parte: 

Ogni anno
tutto quello 
che ho imparato

nella vita mi riporta a questo: gli incendi di luce
e il fiume nero della perdita

è la salvezza,
il cui significato
nessuno di noi saprà mai.

I boschi e i laghetti di cui parla Oliver nella poesia si trovano nella National Seashore di Provincetown, a Cape Cod in Massachussetts. Sono i luoghi che Henry David Thoreau ha descritto in una splendida guida dedicata a questo braccio di terra che si spinge dentro l’Atlantico (Cape Cod, tr. it. Riccardo Duranti, Donzelli, 2011), e che ancora oggi, come allora, conserva angoli in cui è possibile fermarsi e mettersi in relazione con una natura primitiva, con la wilderness così peculiare all’immaginario americano, e così carica di significati simbolici da resistere a qualunque definizione. Scriveva, non senza ragione, Roderick Nash nel classico Wilderness and the American Mind: “la Wilderness di uno può essere un’area picnic lungo la strada di un altro”. Come Thoreau, Oliver riesce a racchiudere in frasi brevi e folgoranti la sintesi di una meditazione esperienziale, e come lo scrittore di Walden si fa attentissima osservatrice dei luoghi, e li restituisce con parole essenziali, scelte con la precisione tassonomica che solo chi sa vedere e ascoltare davvero possiede; parole legate fra di loro come le note di una musica che incanta del flauto di Pan:

Ho legato insieme
poche canne sottili, inciso
delle tacche in cui soffiare e prodotto
una musica tale che sei rimasta
immobile, scioccata, e poi

mi hai seguito mentre vagavo
(…) ed eccoti lì

dietro di me, che anneghi
nella musica (…). (p. 141)

Come Thoreau, Oliver sa che non è necessario spostarsi per migliaia di chilometri per diventare un viaggiatore, ma che il viaggio vero, alla ricerca di un rapporto diverso con i luoghi e con sé stessi, può partire da dietro casa e dispiegarsi lì accanto. Nata nel 1935 vicino a Cleveland in Ohio, trascorre una parte significativa della sua vita, circa quarant’anni, nelle terre ancora protette di Cape Cod, con la sua compagna, la fotografa Molly Malone Cook. Lì ha condotto una vita semplice, scandita dall’abituale passeggiata giornaliera, la mattina presto, con un quadernetto per annotare gli alberi, i fiori, gli animali che incontrava e che non vedeva come oggetti esterni, ma come parte di un tutto in cui l’io e la natura sono in un continuo dialogo.

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Quel che sorprende, leggendo le poesie di American Primitive, è la insistita compenetrazione fra l’io lirico e gli animali incontrati. Nella maggioranza delle poesie non compare neppure il soggetto Io, ma tutto è spostato sull’oggetto dell’osservazione che diventa il protagonista. A volte chi dice “io” nella poesia non è l’Io soggetto umano, ma un non umano, un orso, ad esempio, come nella poesia di apertura August (p. 2), in cui chi parla è l’animale. Altre volte (A Meeting) l’io osserva con delicata partecipazione la nascita di un cerbiatto e la madre che assume le sembianze della “donna più bella / che abbia mai visto”:

Entra nella palude buia
dove la lunga attesa ha fine.

Il fagotto scivoloso, segreto,
cade fra le erbacce.

Piega il collo lungo e lo lecca
tra due respiri indeboliti dalla spossatezza.

E dopo poco lui si alza e diventa una creatura
come lei, ma molto più piccola.

Quindi adesso ce ne sono due. E camminano insieme
come un sogno sotto gli alberi (p. 123).

In Blossom, una delle poesie più intense della raccolta, la luna, i laghetti, le rane si corrispondono e si fondono, e sembrano condividere un fuoco centrale che illumina e appaga. L’io poetico osserva e desidera (long for) ricongiungersi fisicamente al tutto, perché sa di appartenere (belong) alla luna, a quel fuoco che la luna con il suo splendore accende di notte nei laghetti che si aprono nella notte come boccioli neri:

apparteniamo
alla luna e quando i laghi
si aprono, quando l’incendio
inizia il più
ponderato tra di noi sogna
di correre giù
dentro i petali neri
dentro il fuoco,
dentro la notte in cui il tempo giace a pezzi,
dentro il corpo di un altro.

C’è un’aspirazione – ed è significativo il gioco linguistico fra il desiderio (long for) e l’appartenenza (belong to) – a un ricongiungimento primitivistico fra il sé e la natura che è ora dissolvimento dell’essere, ora metamorfosi, ora laica comunione eucaristica, come ha acutamente notato Camilla Binasco in Un tacito conversare (Ledizioni, Milano 2020), uno dei pochi studi finora dedicati in Italia alla Oliver, attento agli aspetti ontologici, etici e stilistici della sua poetica. In queste continue corrispondenze e mutazioni la morte umana non è uno svanire nel nulla, una chiusura, ma è compimento di un destino necessario e inizio di una rigenerazione, nelle “incessanti cascate di cambiamento” (“Unending / waterfall of change”) che l’appetito della terra (“earth’s apettite”) impone, come si legge nella poesia Avvoltoi (pp. 71-3), che, con il loro macabro cibarsi delle carcasse, rappresentano il ciclo di morte e resurrezione, e che noi ad un tempo onoriamo e detestiamo. 

Ci sono in Primitivo Americano poesie che rimandano alla tradizione del pittoresco, con descrizioni un poco di maniera e figure prevedibili, come Morning at Great Pond o First Snow; ma nelle liriche più inattese come The Fish, Skunk Cabbage, The Sea, è chiaro che la prospettiva è assai diversa da quella che di solito viene definita nature poetry. Su questo scrive pagine illuminanti Paola Loreto nella sua introduzione alla raccolta einaudiana, quando sottolinea come la poesia di Oliver sia anticipatrice delle riflessioni filosofiche più recenti sul postumano. “All’opposto dei poeti romantici, infatti, che con una tecnica letteraria descritta da John Ruskin come pathetic fallacy, proiettavano sulla natura i propri, umani, sentimenti, antropomorfizzandola, Oliver decentra, e ridimensiona, il soggetto umano, nella sua visione del mondo, e rappresenta un ecosistema nel quale animali, piante, fiori, ruscelli e sassi sono interconnessi in una rete di relazioni che non conosce gerarchie di importanza e di potere” (pp. VIII-IX). La poesia di Mary Oliver offre una prospettiva diversa da quella della tradizionale poesia della natura, è frutto di un cambiamento di paradigma che la colloca in quel movimento di revisione del rapporto fra io e mondo proprio di molto pensiero ecologista contemporaneo, più o meno radicale, da Naess o Lovelock a Latour: a una visione antropocentrica del mondo si sostituisce una visione ecocentrica e relazionale fra umano e non umano. Oliver declina con gli strumenti forse più incisivi della parola poetica questo cambiamento di paradigma, di relazione. 

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La vicenda poetica di Oliver (che giunge a un suo compimento con la morte della poetessa nel 2019) ha sicuramente un suo momento fondativo in Primitivo Americano, ma poi continua con tanti altri libri che sarebbe bello poter avere anche in traduzione, a cominciare da A Thousand Mornings (Penguin) del 2012. In una poesia di questa raccolta, e che Oliver amava leggere in apertura dei suoi reading sempre molto partecipati, quel “panteismo ecologico” che emergeva in diverse composizioni della raccolta del 1983, non viene tanto affievolito, ma rafforzato da una dose di sana autoironia, che ricorda per dettato e spigliatezza certi versi di Patrizia Cavalli, nella consapevolezza, questa forse sì ancora romantica, che la dialettica fra anelare e appartenere, fra long for e belong to, è ineluttabile, costitutiva e sempre in divenire. Questa un possibile versione di I Go Down to the Shore:

Scendo in riva al mare la mattina
e a seconda dell’ora le onde
entrano ed escono 
e io dico, o misera me
che cosa farò
che cosa dovrei fare? E il mare dice
con la sua amorevole voce:
Scusami, ho da fare.

Oltre all’ironia, anche la poesia, con la sua parola-musica, può aiutare ad almeno intuire queste corrispondenze necessarie, e comunque a diffidare di chi pensa di sapere risolvere con una risposta razionale la complessità delle relazioni, come si legge in un altro breve aforistico componimento sempre in A Thousand Mornings:

L’uomo cha ha tante risposte
lo si trova spesso
nei teatri dell’informazione
dove offre, con grazia
le sue profonde scoperte.

Mentre l’uomo che ha solo domande,
per trovare conforto, fa musica.

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