Lettera dalla Val Seriana / I nuovi focolai
Adesso che la paura del contagio ha ripreso a circolare un po’ in tutte le regioni, ci chiediamo qua in Valle Seriana a cosa e a quanti possa servire l’esperienza della tragedia vissuta in primavera. Cosa abbiamo capito da tutti gli errori commessi, cosa possiamo e dobbiamo pretendere si faccia perché in futuro non ci tocchi assistere ancora a un simile disastro?
A orientare la bussola nella giusta direzione può servire la lettura di Il focolaio – Da Bergamo al contagio nazionale di Francesca Nava, collaboratrice di The Post Internazionale e autrice in passato di inchieste importanti per RAI 3, La7, Sky TG24. Si tratta di un lavoro importante, uscito a settembre per Laterza, di cui non sai cosa apprezzare di più, se il rigore giornalistico o la generosità della cittadina bergamasca che chiama a raccolta le conoscenze di una vita e dà voce ai tormenti di famiglie e individui travolti dalla pandemia e dall’incompetenza di chi avrebbe dovuto almeno limitarne le conseguenze. Nava riconosce il contributo di quanti in quei mesi hanno cominciato a fare le domande giuste, in particolare di Gessica Costanzo, direttrice della testata online Valseriana News, che ha aiutato molti di noi residenti a riflettere proprio perché quelle domande non ha mai smesso di farle.
Tutti quei morti
Voglio partire da dove ci eravamo lasciati a giugno su Doppiozero, da Bianca, la mia amica anestesista, la cui testimonianza trova conferma nel documento, citato da Nava, pubblicato il 6 marzo dalla Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva (Siaarti): “di fatto, un manuale tecnico sui criteri da seguire per selezionare chi salvare e chi no. In presenza di un afflusso di pazienti straordinario, e quindi superiore alle possibilità di ricovero, i medici della Siaarti indicano una via: la selezione per l’accesso alle cure intensive non può più seguire l’ordine di arrivo, sulla base del principio first come, first served, ma dovrà tenere conto di criteri anagrafici e biologici”. Ecco, nero su bianco, quello che fuori dagli ospedali non si poteva dire. In quelle settimane tremende i nostri medici hanno dovuto selezionare chi poteva essere salvato, come in un ospedale da campo in guerra. E se questo è accaduto in tempo di pace, aggiunge Nava, è perché negli ultimi dieci anni sono stati tagliati 70mila posti letto e 800 reparti e i posti in rianimazione in Italia, a febbraio, erano 5mila, a fronte dei 28mila in Germania e degli oltre 10mila in Francia. Da qua discendono le migliaia di malati lasciati morire in casa, senza possibilità di ricovero, o nei Pronto Soccorso intasati di quei mesi o nelle Residenze per anziani che non hanno saputo proteggere dal contagio né gli ospiti né il personale sanitario.
Le parole più toccanti e convincenti sulle conseguenze sociali di questo aumento abnorme della mortalità nella bergamasca, che ci consegna Francesca Nava, sono di Paolo Barcella, che insegna Storia contemporanea all’Università di Bergamo e la cui famiglia paterna è di Nembro: “cosa succede quando un’intera generazione, con le sue risorse e il suo bagaglio, scompare da una comunità? Cosa succede quando una massa di bambini vede scomparire massicciamente le voci che vengono dal loro passato, il primo raccordo possibile tra loro stessi e la storia? Forse chi ha temuto e continua a temere più di perdere profitti che vite umane, dovrebbe rifletterci”. E così veniamo al secondo punto.
Il lavoro uccide
A partire dalla seconda settimana di marzo, “in Lombardia scuole, bar, cinema, teatri e locali sono chiusi, ma allo stesso tempo è consentito lavorare e quindi spostarsi per ragioni di lavoro. Le fabbriche sono tutte aperte. Sono milioni le persone che nel Nord Italia circolano liberamente in quei giorni (…) Perché le fabbriche hanno continuato a lavorare?” (…) “Tutti, soprattutto al Nord, raccontano favole. La fase uno in Lombardia non c’è mai stata, perché le fabbriche hanno sempre lavorato”, così Mirco Rota, sindacalista bergamasco intervistato da Nava.
“In tutta la Bergamasca fino al 23 marzo (data dell’entrata in vigore del decreto Chiudi Italia) le fabbriche sono state autorizzate a continuare a lavorare a pieno ritmo. Nonostante il grido di disperazione lanciato dai medici e dagli scienziati, che chiedevano di chiudere tutto e subito.
E cosa succede dopo il 23 marzo? In piena fase uno, mentre tutti gli italiani, adulti e bambini, sono obbligati a rimanere chiusi in casa, in Val Seriana, ovvero laddove si muore di più, oltre 13 mila persone sono autorizzate a spostarsi (…) per ragioni lavorative”. Poi Rota aggiunge: “Tra il 20 e il 22 marzo Confindustria aveva espressamente chiesto codici Ateco più ampi possibili o ancora, e questo è un particolare non indifferente, ha espressamente richiesto la possibilità di introdurre deroghe per le imprese che in teoria avrebbero dovuto chiudere (…) Alle fabbriche bisognava chiedere una assunzione di responsabilità, soprattutto alle fabbriche di Bergamo. Confindustria Bergamo, invece, ha fatto l’esatto opposto (…) Con gli ospedali allo stremo il messaggio di Confindustria era: andiamo tutti a lavorare”.
Chiedo scusa per la lunghezza delle citazioni, ma sul punto davvero non si può riassumere né dire meglio. Per dare l’idea dell’assurdità della situazione vissuta dai lavoratori bergamaschi, Nava ricorda quanto accaduto alle acciaierie Tenaris di Dalmine, dove il 25 marzo muore il primo operaio, Salvatore Occhineri, 43 anni. Riporto uno stralcio della testimonianza di un operaio, ottenuta con una fatica cui Nava si limita ad accennare: “Durante quella riunione di inizio marzo alla Dalmine la tensione si tagliava a fette. Il momento più agghiacciante è stato quando il responsabile della sicurezza ci ha detto che la storia del virus era tutta una montatura, una fake news, che non era vera, che le superfici non erano un problema. Avevamo già i morti in casa e lui niente, negava tutto. Poi ha fatto un gesto a dir poco surreale. Si è avvicinato a una poltroncina e l’ha leccata. Sì, l’ha leccata davanti ai miei occhi per farmi vedere che non era vero che le superfici potevano essere portatrici del virus”.
E questo ci porta, credo al terzo punto.
Le nostre ottusità
A partire dalla metà degli anni ’90, ricordo, a chiunque fosse impegnato nel lavoro culturale qui in Valle la parola “territorio” cominciava a far venire l’orticaria. Una a una le amministrazioni comunali finivano in mani leghiste e, di riflesso, l’unica speranza per ottenere patrocini, non dico finanziamenti, era ancorare la tua proposta alle “tradizioni” del territorio. Si trattasse di ricerche storiche o rassegne cinematografiche o eventi musicali, da lì dovevi passare. Peccato che in campo sanitario, nel frattempo, quella stessa retorica funzionasse al contrario. Le riforme sanitarie della Regione Lombardia (Formigoni 1997 e Maroni 2015) non hanno solo arricchito la sanità privata, no, più grave ancora è stato l’impoverimento della medicina di base, quella che si fa sul territorio.
Tra gli innumerevoli spunti offerti da Nava in tal senso, mi limito a riportarne un paio: “In una lettera aperta del 16 marzo, l’Ordine dei medici e quello degli infermieri di Bergamo criticano la direzione strategica dell’Ats della loro città per aver lasciato ‘le strutture territoriali in uno stato di abbandono: Rsa (Residenze Sanitarie Assistenziali), erogatori dell’Assistenza Domiciliare Integrata, medici di famiglia, con gravi carenze di dispositivi di protezione individuali, oltre che di precisi indirizzi operativi e indicazioni di sicurezza, con il rischio di essere essi stessi soggetti infettanti’. Il verdetto è chiaro: ‘Se si abbandona il territorio diventa poi impossibile sostenere le realtà ospedaliere.’”.
Il 6 aprile la federazione Regionale degli Ordini dei Medici Chirurghi indirizza alla Regione una lettera aperta: “La sanità pubblica e la medicina territoriale sono state da molti anni trascurate e depotenziate nella nostra Regione”, scrivono i medici lombardi. “Ricordiamo in generale come (…) sia risultata evidente l’assenza di strategie relative alla gestione del territorio”.
Ora, se a queste desolate prese di posizione accostiamo le parole irresponsabili degli attori principali della primavera nera lombarda, da quelle di Marco Bonometti, Presidente degli industriali lombardi, (scrive Nava, che lo aveva intervistato il 6 aprile: “è talmente coerente, il capo degli industriali lombardi, che alla mia domanda se nei primi giorni di marzo ci sia stata in Regione una riunione tra il presidente Fontana e alcuni tra i principali imprenditori della Bergamasca e di Confindustria, per parlare proprio della zona rossa, rivendica con orgoglio: ‘Ci siamo confrontati, ma non si potevano fare zone rosse. Non si poteva fermare la produzione. Noi eravamo contrari a fare una chiusura tout court così senza senso”) a quelle dell’improvvido Assessore Gallera (che ‘spiegava’ così l’indice di riproduzone del virus a 0,50: significa che per contagiare me ci vogliono almeno due malati), ecco, se si mettono insieme testimonianze serie e battute grottesche, commenta amaramente Nava, “la scienza sembra essere la grande sconfitta di questa catastrofe che ha colpito i cittadini della Lombardia. Nella drammaticità degli eventi, quella che giorno per giorno viene messa in campo nella regione governata dalla Lega è una superba rivendicazione delle azioni intraprese, delle parole pronunciate, delle misure adottate, persino delle gaffes consumate in pubblico”.
La grande ottusità (e talvolta la cialtroneria) dei vertici, certo, ma attenzione, ce n’è anche per noi, cittadini comuni. E qui so di scrivere qualcosa che non piacerà ai miei lettori in Valle, ma mi tocca discutere il dogma della retorica orobica di quelle settimane, quel mòla mìa che impazzava ovunque, sui balconi e sui social, fuori dagli ospedali e sugli striscioni dei tifosi. L’espressione esprime bene tratti antichi della gente bergamasca: la tenacia, quella propensione a “non contare le ore” di fronte alla fatica del duro lavoro, il rifiuto di arrendersi di fronte alle difficoltà, l’inesauribile manualità necessaria a completare l’opera ben fatta. Penso anche alla leggendaria capacità di mobilitazione dei nostri alpini di fronte alle catastrofi naturali, alla diffusione capillare delle associazioni di volontariato ecc. Sì, nel mòla mìa c’è davvero molto dell’anima di questa terra. E ce lo siamo appuntato sul petto come un riconoscimento al valore quel motto, distogliendo la vista dall’immancabile rovescio della medaglia.
Quel rifiutarsi di tenere i camioncini in garage anche quando era ormai chiaro il rischio che correvano i nostri manovali, i nostri piccoli trasportatori, i nostri artigiani autonomi (le partite IVA). Quella farsa dei codici ATECO, di cui scrive Nava: “quello dei codici Ateco e delle deroghe prefettizie sembra quasi un gioco di prestigio: un’attività scompare da una parte e riappare dall’altra (…) Hanno inventato un meccanismo, ovviamente suggerito da Confindustria, che ha messo in condizioni di dire: non si lavora, ma si può lavorare.” Qua insomma si è fatta una gran fatica a smettere di lavorare anche nella fase uno, ma non solo, si è fatta anche una gran fatica a smettere di viaggiare (l’aeroporto di Orio al Serio chiude solo il 14 marzo, tre settimane dopo il primo contagio) e di godersi il tempo libero (tutti in coda sulle piste da sci del Monte Pora domenica 7 marzo, d’altronde c’era un bel sole e c’era tanta neve). Per cui sì, è vero, noi non abbiamo mollato.
La paura che rimane
È da poco uscito per Il Mulino l’ultimo lavoro di Chiara Frugoni, Paure medievali, che indaga con la consueta maestria su “epidemie, prodigi, fine del tempo” e sulle ansie dei nostri antenati. Ne ho molto apprezzato la lettura e sono rimasto abbagliato dalla varietà e dalla ricchezza dell’apparato iconografico, che mi ha riportato agli studi da ragazzo e poi alle lezioni da prof sulla Danza Macabra di Clusone. Non ricordo dove, ma so di aver letto da qualche parte di una Chiara Frugoni in sella alla Vespa col suo papà, che saliva in Valle per studiare quel ciclo di affreschi. L’immagine di quella bambina, cui mi ero affezionato, m’è tornata in mente per contrasto di fronte alla saggezza delle parole conclusive di questo lavoro: “oggi, mentre scrivo durante la pandemia di Covid-19, pur con tutti i mezzi moderni di cui disponiamo e il grande impegno del personale sanitario, per alcuni aspetti, non per tutti per fortuna, è un po’ come fossimo nel 1348. Non abbiamo medicine sicure né vaccini, non c’è più spazio per i cadaveri: scompaiono nelle lunghe file dei camion dell’esercito che li avviano alla cremazione senza che nessuno possa saperne più nulla, onorarli con una cerimonia, piangerli nel cerchio dei parenti e degli amici; i vecchi, nelle case di riposo, sono spesso costretti a una morte più vicina di quella da loro attesa”.
Ecco, quella paura oggi circola ancora, che si possa morire da soli, che questo possa continuare a succedere ai nostri vecchi, che non si possa più andare a trovarli, come peraltro in molte RSA lombarde ancora succede. Se c’è un aspetto di Il focolaio poco raccontato da Francesca Nava è forse proprio il dramma di quei nonni nelle RSA e dei loro cari.
Su questa solitudine estrema che ci spaventa aveva, forse per primo, iniziato a indagare da un punto di vista sociologico Norbert Elias. Aveva quasi novant’anni quando, nel 1985, cinque anni prima della morte, esce in Italia il suo La solitudine del morente, che riflette sulla rimozione del pensiero della morte nella società occidentale e, in particolare, sulle condizioni asettiche create dentro e attorno ai luoghi in cui finiscono i propri giorni molti vecchi.
Adesso però si tratta di reagire e di provare a costruire un futuro migliore nell’assistenza agli anziani e più in generale nella medicina sul territorio. Anche a questo puntano gli sforzi di chi si è associato per chiedere “verità e giustizia” rispetto a quanto successo la scorsa primavera. Invito tutti i lettori a visitare il sito del Comitato Noi Denunceremo, da mesi protagonista dell’importante battaglia civile (e non solo giudiziaria) che segnerà il tempo a venire nella terra del Focolaio.