Speciale
Una matita per l'estate / Matita
Sfiato di ripensamenti – mente testa (punta?)
o solo punto, lì dove si incrocicchiano le rette tra passaggi slargati mobili sopra la superficie:
come una banderuola che si issa, puntata torre
fissa per non cadere
nello scivolìo sdrucioloso del punto,
per non cedere all’orizzonte rotolante della retta.
Infine il vento ne ha spazzato la testa contro un muro gonfio di bianco
e poi grigio e tortora:
spezzata
dice di aver lasciato e di non ricordare…
che voleva ferire con la punta… umile difesa
… d’asparago… sbuffante trafrittura…
e inganno lesto dirsi in mano d’altri, fingersi vento – “Presto!”, “Presto!” – distesa
per esser sollevata senza frangersi – non corrotta o ridotta,
immobile rincantucciata
in sé sigillo,
di una crescita che è solo alla rovescia e tende al niente.
Ma ogni punto-punta in fondo uguale, se accarezzasse l’idea di un infinito che sta nella sua coda
e di un presente che incide superfici di cui non sa e rincalza
col correre sperdendosi,
così che anche “Qui, già”
(e dov’è?!)
si è fatto inganno.
L’età bambina mossa in uno slancio fiero di lucida scorza apprettata e scintillante; morsa
poi al lento scuotersi di dosso di smalti e metri;
poi il tempo di cadute accidentali frattura dentro – e ben nascosto –
finché scorzata non ne ridesti i mancamenti.
Pinocchiesca sì, se intendi: afferrata per la punta,
e un risolino che tintinna al ritrarsi della buccia dura.
“L’ho presa… l’ho presa!”... “L’ho persa...”
Così che a non ferirsi perdura, a non consumare,
che a consumarsi restringe, vita già data al limite della sua lunghezza;
e qui che sforzo e premo a scriver nomi e cose che disegno, e lei che forse preme a non far nulla:
campa nella sua scorza, s’impunta, dura trattiene,
si stancherà, esploderà dall’ozio...
E invece niente.
Sulla linea del prima lunga lunga
il dopo lo attraverseremo insieme, pena del bianco che ammattito digrigna i denti
al cono che striscia linee e che scalfisce col cratere molle del legno.
Effluvi di segni, bizzarrie, torsioni
come a dover racimolare la propria inesattezza d’anima
che si sperde.
Punta – ape-punta – che per difenderti vai morendo
e ti rigirano, ti sfogliano in spire di legno ballerine, tegumenti incoronati, regalità da gettare:
come nastri rilasciati ritorte bucce.
Anima minata già in partenza
poi minata, per il troppo cascare, di fratture
e il maestro Vocegrossa: “NON SI PUO’, NON SI DEVE!” che recide il gambo intero,
spezza il legno, il cannello,
la cannula dura “VIA!” getta – non consumata – con l’anima trattenuta che cadendo e ricadendo
ha franto il nerbo delicato – il cuoricino – che serba silenzioso le fatali spezzature
in fondo al bozzolo chiuso di nessuna trasparenza.
Acquieta le paure, clessidra senza tempo:
imprevedibile vuole solo passare, perdersi senza mente, dilungarsi sui campi e correre
– lasciare lasciare – sibillino andare, sibillina traccia spensierata che ti specchi
nello specchio opaco della superficie.
Mi dici il niente lì dentro, lo scrivi con tracce di lumaca,
lo sussurri
con la linea che tutto sospende, un divagare che non si quieta.
Un tra che srotola se stesso nel mozzicone adamantino di un passaggio.
Mondo al contrario, contrario, tutto assopito nel cavo di un cilindro:
un albero che si rotola e ridesta
e per la testa spunta radici mobili e vaganti.
Punto che incalzi senza mai arrivare, ma qui già messo al bando da un quesito funesto:
che arranchi nell’ozio astratto di un’attesa bellissima infinita
– punto invaghito di se stesso
che nessuna grafite può fantasticare –
o che imponga traccia a un corpo che dentro si consuma
e allora erra la fantasia di un punto-sbaglio fatto luogo,
anche il più piccolo:
un niente per il sogno eppure
vertigine di sguardo,
messo davanti, straniero, consistente, bambino,
così insensato scioglie le redini al suo apparire
– nessuna mano consapevole nessuna punta –
ma eccolo nato, estraneo irraggiungibile (impossibile che da solo resti in piedi – scellerato!)
... estraneo, e non estraneo...
Punto:
se mai lo riconosco, che riconosca me e che l’animi una matita pellegrina –
anima-animamina – così che a riguardarlo ci si riconforti.
Ma fitto nella punta, già discosta, e senza riconoscerci affoghiamo – il suo laccio un istante
nel mare bianco
e nella sua risata ci sperdiamo.