Bottega Ghianda, immersi negli oggetti
Vede bene chi fa della dissomiglianza degli oggetti una questione di patine attraverso cui riconoscere la qualità sensibile delle cose: dove la pelle si esalta come ultima soglia dell’apparire e del tocco – qui soprattutto del tocco, dominio della prensione e regno della carezza – con un sommovimento che dall’uso transita sempre più nell’indistinta regione del piacere, un po’ come in quel fregare dolce di grafite che accompagna sempre il disegno lento sulla carta. Un piacere che fa strada al sapere degli oggetti: presi, girati e rigirati tra le mani, assaporati e strofinati per capire nella superficie il piegarsi del volume – impararne le curve, saggiarne il peso e le convessità, con quel leggero rotolio tra palmi e polpastrelli che il disegno non potrà mai afferrare fino in fondo.
Sono allora gli oggetti, prima di tutto, cose da tenere tra le mani, da passarsi e ripassarsi secondo una percezione che non si appaga del puro guardare: una conoscenza che invece mette addosso i palmi a un corpo estraneo che docile e addomesticato si fa lisciare, accarezzare, quasi sedurre (ma con delicatezza); o forse un modo per accarezzare e sedurre, nel carattere ancipite della superficie, anche se stessi. Come da bambini, per esplorare e per capire; ma soprattutto per immaginare in un farfugliare silenzioso di mani, un fregugliare e cincischiare di dita attorno a geometrie di stoffa, di carta, di plastica e di legno, sui fianchi di giocattoli e statuette bambine. È lì dentro che affiora, tra polpastrelli e cavo vacuum della mano, la percezione di un sacro impresso nel confine delle pelli; è lì che si impara, ferendosi, anche il limite inviolabile di un noli me tangere fatto di distanze e trafitture, nello sconcerto di un movimento sottrattivo, nel diniego di uno scostamento. Lì si scrive (con la pelle) un disegno paradossale fatto per aderenze ai territori della superficie, sui corpi prosperosi della tridimensione, dove cresce lo stupore per un innesto, per la precisione di un attacco, per la tensione sottile che descrive l’arco teso di una curva.
Come un’introiezione della forma che di centimetro in centimetro si riversa nella coscienza, insieme al gusto sempre nuovo di un capire per contatto – quel che per il mestiere artigiano era un’eredità di gesti scambiati tra maestri e apprendisti spesso piccini (di padre in figlia, di madre in figlio), mano nella mano; che invece nell’età adulta, si ridurrà, per i più, a un movimento cauto e circospetto, allentato e allontanato come gesto sconveniente, o fatto presa veloce e funzionale per la praticità e gli usi che non devono attendere, come se il senso delle cose fosse sempre altrove, in una distanza irraggiungibile e un confine che si discosta di minuto in minuto dalla nostra presenza.
Eppure qui, tra gli oggetti della bottega Ghianda, c’è ancora forte il senso dell’indugio e dello stare, fissato nella forma dell’oggetto, tra le essenze dei legni e gli assemblaggi: l’immanere di un fare progettato che spira nella definizione di “oggetti ben fatti”. La pazienza artigiana a cui è affidata qui la lavorazione è un discorso sul tempo che ha come ultimo desiderio, come approdo dell’artificio costruttivo, l’idea di un’immutabilità degli oggetti, risultato – o frutto maturo – della conoscenza profonda di un lavoro che si costruisce di continuo nella vitalità del legno: un’asse per essere ben scelta deve essere cercata, poi saggiata, e anche assaggiata (come faceva Pierluigi) tra le labbra; un pezzo ben lavorato, rispetta il verso che la fibra – vena singolare e unica di un unico e singolare albero – ha disposto negli incidenti della propria crescita; e poi la finitura che va ad alimentare pelli ricettive a una memoria d’uso. Come un sogno di stasi, una sospensione, una calma non imposta, ma cercata per assecondamenti in una materia sempre palpitante che prende forma nell’ascolto del proprio artigiano. E in quella sospensione – tra squadre, segnalibri, mobili, contenitori – anche l’intuizione di un poter stare bene con le cose che emana dal legno e dalla sua fattura.
C’è un momento in cui ci si accorge che gli oggetti non sono mai di per se stessi, né mai esistono come puro mostrarsi pronto all’uso. Riportati agli stadi complessi della loro formazione, le cose appaiono per quanto sono state lavorate, pensate, capite. Capite nella loro sostanza di oggetti da usare, da guardare e anche sentire. Non c’è oggetto che non rivendichi il tempo della propria costruzione, che non rinnovi nel proprio immobile silenzio tutto il lavoro che gli è stato dedicato: cose di superficie – annotava Didi-Hubermann – riportando alla luce quanto, ancora invisibile, già stava sotto gli occhi di tutti: l’oggetto come incarnazione di un processo che si è andato imprimendo nelle sue patine e nel suo apparire.
Andrebbero guardati, questi oggetti, attraverso i corpi dei loro artigiani protesi sull’estensione delle assi, allungati nel movimento disciplinato di una verticale da smussare, ripiegati sulla punta di un trapano in rotazione, sospesi in un lavorio lungo di levigatura della superficie: sempre intenti ad addomesticare, insieme, materia e gesti per tagliare, arrotondare, cerare. È il tempo di un prendersi cura che l’artigiano trascorre in un contatto che dà forma alle cose, aderendovi in ogni parte. Che significa anche inventare i modi della precisione e i passi per arrivare a produrre, qui, una piccola serie di oggetti di bottega o campioni-prototipi nati su richiesta: un numero esiguo che serve a definire il pezzo, renderlo riproducibile e poi lasciarlo andare per tornare a discutere di altri oggetti, nel nodo sempre nuovo di un problema costruttivo, tra pensiero e materia, dove il disegno prende corpo, dimensione e consistenze.
È il sapere tacito di chi realizza che si fa visibile dentro le cose, e per capirlo bisogna già stare immersi negli oggetti – in quella intercapedine che faceva della bottega Ghianda un luogo singolare di ricerca per architetti e designer – dove il sapere del fare si collega direttamente alle ragioni progettuali: non il terreno della forma in cui l’occhio può appagarsi velocemente di un’immagine, ma lo spazio che vi si nasconde dentro, prossimo all’anima stessa degli oggetti, quell’anima che è un disegno costruttivo in grado di rendere possibile un’idea o una necessità dandogli corpo: lì dove le parti mobili di un oggetto lavorano in sottosquadra nello spessore del legno; dove l’esatta geometria di una scatola è il motivo di un costruire per spessori congiunti; o dove guide finemente arrotondate si fanno struttura e decoro prezioso di una cassettiera.
Un’anima che per paradosso è qui più che mai vicina al mondo sensibile: decidendo di volta in volta di mostrare o di sottrarre alla vista, imponendo un peso, imprimendo nel corpo un umore odoroso (gli usi del cedro), o liberandovi un suono dalle profondità. Calibrando anche la velocità dei movimenti: grazia e finezza con cui ogni oggetto si articola, si chiude o si apre come dialogando con la persona che lo usa. L’alito (o soffio o sbuffo) delle chiusure a fiaa usciva dai vani delle cassettiere parlando proprio questo linguaggio, reso possibile da una perfezione millimetrica che accompagnava il rientro del cassetto col bisbiglio dell’aria che ne usciva. Come a riportare la consistenza degli oggetti a qualcosa di vivente e di animato: forse l’idea che insinuandosi costruttivamente nella carne-fibra del legno sia possibile estrarne un oggetto d’uso sensibile; forse l’insegnamento di un’attitudine a pensare quel dietro/sotto/interno/viscerale (sempre nascosto) che disegna la forma ultima delle cose dandone il vero senso: un’attenzione dell’uomo costruttore per quel retro dei cassetti in cui Dio avrebbe da sempre riposto lo sguardo.
È un’arte del fare artigiano che qui costruisce e mette in piedi l’oggetto intuito, pensato, o brevemente abbozzato, come se un demone del dettaglio (il suo emblema è forse quel nodo del diavolo caro ai falegnami, che si apre sulla diagonale per smentire l’aspetto dell’incastro) si fosse insinuato tra le forme reggendo il fulcro del prender corpo del progetto.
Non perché l’oggetto sia solo una questione di dettaglio, ma perché la cura intrinseca del dettaglio (l’opera magistrale a cui Pierluigi Ghianda e la sua bottega lavoravano di continuo con quella fattura preziosa che sfida le mirabilia della fiaba sempre nascoste nel guscio di una noce) incarna qui l’oggetto: quel dettaglio che oggi sfugge al diagramma di astratte logiche urbanistiche, al disegno digitale di superfici apparenti, alle masse approssimate; quel dettaglio costruttivo – qui soprattutto fatto di incastri, resi con tagli e levigature nello spessore del massello – è ciò che stringe il corpo dell’oggetto all’essenza della propria idea (la voluta complanarità tra vetro e cornici nel progetto di Gae Aulenti per il Museo d’Orsay ne è un esempio). Come un regno della concretezza che asseconda e insieme trasforma secondo quanto è nel potere delle strutture e nella forza delle patine. Forme e controforme dove una ospita l’altra, l’accoglie e vi convive talvolta in un tutt’uno, talvolta scorrendovi per scivolamento: di oggetto in oggetto si plasmano, nella bottega, le regole di un come che sa interpretare i progetti e li struttura secondo un pensiero del fare prossimo all’essenza del legno e allo stare in piedi delle cose. Come abitante visionario del piccolo, l’artigiano sprofonda, così, nelle essenze della materia, tra le tensioni che possiamo pensare muovere i corpi dal di dentro, con la grazia di un’immaginazione (cara a Bachelard) fatta piccina per scoprire nelle cavità e negli snodi i gioielli di cui andare fiera: soluzioni, invenzioni, arguzie sempre nuove del costruire.
Gli oggetti diventano, allora, emergenze di un pensiero progettuale e di un fare artigiano che lavorano nei confini sobri di una perfezione strutturale mai dimentichi del design ingegneristico in cui la bottega aveva radici; e senza forzare i confini di un milanese fare elegante e raffinato – quello di Gio Ponti come esempio – in un paesaggio di arredo da abitare e da allestire. Anzi, affinando e levigando quei confini verso una forma che muove dalla volontà di un permanere delle cose al di là di facili apparenze e delle immagini veloci della moda, perseguita in una pratica insistita di saperi che trova un’essenza (strana parola di sostanza e di vapori) anche nella superficie.
Questo modo, il come, condensa in sé un atto di intelletto amoroso che apre all’instabile volatilità della sensazione (quel legno liscio reso a raso o a pelle, fatto leggero), ma come tutto sottoposto a un’opera di concentrazione diretta ora a una logica di semplicità funzionale, ora al disegno teso che l’esigenza costruttiva va a porre come relazione tra materia e giuntura. Così tasselli a coda di rondine e cerniere in legno prendono il posto di chiodi e snodi in ferro, tentando sempre un disegno del legno nel legno (rinforzato al più dall’ottone caro al modellismo): un intarsio tridimensionale che ha natura strutturale, dove il pezzo lavora col pezzo e ridisegna dentro l’oggetto pensato l’oggetto costruito. È un pensiero del dentro e delle strutture che salda l’oggetto e lo mette in piedi con quella singolare capacità di lavorare nell’interstizio che si metteva in moto dentro la bottega servendo il progetto del designer ma stillandovi in fondo una propria coesa visione (ciò che fa di questi oggetti un arcipelago riconoscibile sul confine condiviso di artigianato e design).
Il marchio di bottega disegnato da Pino Tovaglia e il catalogo degli anni ’90 (progetto di Lino Gerosa, curato da Isa Ghianda), già lo dicevano con la loro lingua senza parole, affidandosi l’uno a un gioco di pieni e vuoti incatenati dall’ambiguità della linea in una sineddoche di metamorfosi vegetali senza fondo; l’altro sospeso nella doppia natura del taglio tra estensione del foglio e piega della pagina: raccontavano il ruolo di una bottega che definiva, delimitava e dava contorno alle cose dentro il mondo, che le racchiudeva col loro profilo perfetto costruendo un parco di rari strumenti, scatole, mobilia – sempre diligentemente allineati sui tavoli di bottega in un’esposizione affettuosa di sé – ma che presto si ribaltano nella realtà di un duplice sguardo, come oggetti sempre in cerca di una doppia natura che dispone nell’evidenza già un nascondimento: a cavallo tra superficie e sfondo strutturale, tra realtà descrittiva e costruttiva. Nelle scatole si esplicita l’essenza di questi oggetti: nascondigli come luoghi per apparizioni e per sorprese, arti della meraviglia costruttiva dispensate a chi vi sa intrattenere lo sguardo. È proprio la meraviglia (il suo sapore in qualche misura) che cuce insieme gli estremi di struttura e di superficie, qui presi come cuori di uno stesso pensiero costruttivo al pari delle torte bottiglie di Klein: oggetti che così guardati emergono come membrane concettuali capaci di collegare il loro interno (assoluto, essenziale) alla purezza della patina, mai pensando disgiuntamente l’una e l’altra cosa.
L’idea portata a compimento nella forma si completa allora sul limite di una definizione senza sfocature. Eppure anche questa messa a fuoco, ultima levigatura, sposta il baricentro dell’oggetto verso qualcosa di non veduto, di sfuggente allo sguardo, come se attraverso il suo completamento e la sua definizione più accurata si mostrasse qualcosa che altrimenti sfuggirebbe in nome di una funzione o in nome di una forma; e una sospensione dei sensi andasse addensando attorno agli oggetti in un equilibrio che chiede tempo e che si scopre solo impugnando, muovendo, soppesando.
Sono oggetti di concentrazione, oggetti centripeti che calamitano mani e sguardo sui loro confini, oggetti che insegnano i limiti e il segno (dico segno per dire forme e superfici impastate nella loro grana, nel loro peso, nel calore che le accompagna) come se attraverso i loro corpi fosse possibile un affinamento dello sguardo e del tatto, un’educazione dei sensi che richiama a una necessità di stare con le cose, sulle cose, per capire nuovamente le sospensioni di un tempo lungo e di una disciplina di cui il sapere artigiano si fa maestro. Un sapere che viene da lontano per toccare vicino, continuando a ridisporre gli oggetti in una scala umana del fare e del vivere: di un fare (e vivere) lento e meditato, di un fare (e vivere) che si muove dall’interno delle cose e che le cose propongono tacite e sapienti come scrigni.
Fotografie di Antonio Mottolese e Roberta Sironi
Riferimenti:
Isa Ghianda, Pierluigi Ghianda, catalogo, Bovisio Masciago 1993, progetto grafico di Lino Gerosa, disegni di Claudia Scarpa e Mauro Fabbro.
Luca Bergo, Patrizia Peracchio, Pierluigi Ghianda, ed. 5 Continents, Milano 2006, fotografie di Giancarlo Pradelli.
Marco Sironi, Pierluigi Ghianda: se fare è pensare, doppiozero.com 2013.
Giovanna Zucconi, Pierluigi Ghianda, la bottega delle meraviglie, mostra alle Ex Scuderie Palazzo Arese Borromeo, Cesano Maderno, maggio 2015.
Studiolabo, L’uomo che firma il legno, 2012 (video).