Mel Bochner (e Douglas Gordon) Blah blah blah

8 Dicembre 2023

Il linguaggio non è trasparente intitolava una delle sue opere famose del 1970 con la frase scritta a gessetto bianco su un riquadro nero, come una lavagna, dipinto direttamente sulla parete con il lato inferiore sgocciolante. Era la sua dichiarazione di principio, la chiave della sua variante di arte concettuale da poco iniziata. Invece della tautologia analitica di un Joseph Kosuth o della forma e dell’estetica del linguaggio di un Lawrence Weiner, per sintetizzare al massimo, la sua era basata sulla non trasparenza. Le sue tautologie erano per sottolinearne i fondamenti di arbitrarietà o le incongruenze.

L’originalità riconosciuta delle sue prime opere era basata sull’uso dei numeri, matematica, misurazione, teoria degli insiemi. Un’opera famosa era costituita dalle misure di ogni parete della galleria, comprese porte e finestre, scritte direttamente sui muri. Tautologia dell’agrimensore di kafkiana memoria? Finta tautologia: “Quando si misura una stanza, si oggettiva il vuoto dello spazio. Le misurazioni proiettano la costruzione mentale dello spazio nello spazio stesso”, specifica l’artista. (Questione ripresa da Luca Vitone, se si ricordano i suoi esordi con le piante delle gallerie dove esponeva, 1988, riportate su carta a grandezza naturale che coprivano per intero i pavimenti: mappa-territorio, ma al tempo stesso pura mappa, irriconoscibile se tolta dal suo territorio, atopica.)

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Poi Bochner sparge misurazioni arbitrarie fluttuanti sulle pareti, quindi lo fa con forme geometriche la cui unione illustra la nozione di complessità e che diventano coloratissime, finché – non è tutto qui, naturalmente, ma per mostrare il filo – si giunge da un decennio a questa parte a scritte coloratissime dipinte su tela, come quelle esposte nella mostra in corso alla galleria Massimo De Carlo di Milano (fino al 20 dicembre).

La galleria, come si ricorderà, è il bellissimo appartamento anni trenta della Casa Corbellini-Wassermann e le tele coloratissime di Bochner hanno un effetto di shock nelle stanze d’epoca. L’effetto è evidentemente voluto, perché l’artista, come si sarà colto, gioca sulla provocazione che da visiva diventi concettuale, mentale, intellettuale.

Le tele sono divise a fasce, ognuna di un colore diverso, con scritto sopra, a forti spatolate di colore spesso, parole o altri segni, tipografici, quelli della tastiera. Le frasi riportate sono del tipo colloquiale, colte e estrapolate dalle conversazioni, a volte sospese, a volte lapalissiane, a volte insulse, a volte pretenziose, di quelle, insomma, che si sentono quotidianamente nelle situazioni più disparate, di argomenti imprecisati, anche alle inaugurazioni o nelle esposizioni o musei di fronte alle opere. A volte ricordano le tautologie del tipo concettuale e sembrano scimmiottarle.

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Dove porta la constatazione della non trasparenza? Costruttivismo, ironia, cinismo, sublimazione? Un po’ tutto insieme, a me sembra. C’è una dose di opportunismo: in fondo c’è del concettuale diventato pittura per essere più attraente e più vendibile. Ma immaginiamo una di queste tele nella casa del collezionista: prende in giro tutte le altre opere della collezione, e gli ospiti che spargono, o temono di spargere, chiacchiere in sua presenza. La risata riportata, AhAhAh, risuona per la casa. Contagiosa? Anche, salvo per gli autoimmuni, come l’artista, si suppone. Anche il colore dato a spatolate grossolane sta forse per una risata sulla pittura.

Ma la cosa che mi sembra più interessante e importante è ancora una volta la decontestualizzazione: le frasi, i simboli grafici stessi, tolti dal loro contesto assumono un significato diverso. E questa volta non è la citazione, non sono frasi colte a beneficio dell’artista o del discorso – ancora differenza da Kosuth –, ma è il frutto dell’ascolto, un cardine di alcune poetiche che non si sa bene se mettere all’insegna del modernismo o del post. Io penso in particolare alla rivoluzione introdotta da John Cage, a livello musicale ma non solo, visti i suoi accoliti fluxus e altro. Ascoltare significa apertura all’imprevisto, inclusività, desoggettivizzazione e disponibilità verso l’altro, attenzione verso tutto. In questo senso è forse proprio l’opposto della trasparenza presunta.

Nell’ascolto, si noterà, c’è lo spostamento da sé all’altro, diciamo pure al pubblico, sia nel senso di ciò che non è privato sia nel senso dei fruitori. Che ci sia qui una replica all’arte pubblica da un lato e alla dittatura dell’audience dall’altro? C’è comunque, anche in questo, un’uscita dalla chiusura concettuale, teorica, analitica, formalista. Il linguaggio non è trasparente, significa: bisogna guardare il rapporto tra il dito e la luna, non l’uno o l’altro. È così che si coglie il senso.

Si prendano allora le frasi riportate: “I forget what I forgot”, “Maybe not. So What? Who cares?”, “As good as it gets”, “It goes without saying. In other words. Talk is cheap”, “It is what it is. Are you out of your fucking mind?”, “I don’t get it. I still don’t get it. Who cares?” sono sì “Blah blah blah”, sono “#!!%*&…”, ma anche... ancor più che acquistare un senso diverso da quello della loro enunciazione originaria, vorrei dire che trovano il senso che hanno perduto. “Dimentico quello che ho dimenticato” sembra un motto nicciano (come il libro Dimenticato a memoria di Vincenzo Agnetti), così come “As good as it gets”, che significa “così come viene”, ma anche come “diventa”; “Non capisco. Ancora non capisco” suona come una richiesta oltre che come un’ammissione; “È quello che è. Sei fuori di testa?” è il contrario di una rivendicazione tautologica, il famoso “Quello che vedi è quello che vedi” minimalista di Frank Stella—e già si capisce che dietro ogni frase apparentemente banal-colloquiale ci sta in realtà un rimando cifrato a note questioni artistiche e non solo.

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“A chi importa?” (si) chiede più volte Bochner. Importa a Douglas Gordon per esempio, il cui Pretty much every word written, spoken, heard, overheard from 1989 (2006), in pianta stabile al Mart di Rovereto, non può non venire in mente. Non sono molte, a mia conoscenza, le opere di questo genere, composte da frasi ascoltate. Quella di Gordon è bellissima, meno ironica di quella di Bochner, meno ambigua, più sottile, ancora più aperta e al tempo stesso più dura, più ambiziosa, più metafisica. È la differenza tra America e Europa? È un aspetto interessante. Gordon ha ascoltato di più, ha colto frasi che risuonano di un senso implacabile, che mettono in gioco tutto, “praticamente ogni”. Sono scritte direttamente sulle pareti – come una volta nell’arte concettuale –, con dimensioni e caratteri diversi, sparse nello spazio, come voci che risuonano intorno a noi, che stiamo, noi, ascoltando (come dei telepatici o gli angeli nel Cielo sopra Berlino di Wim Wenders). A volte sono misteriose, altre addirittura minacciose, parlano dei grandi argomenti che assillano Gordon, il male, la morte, la follia, il controllo: “So bene chi sei e cosa fai”, “Tu ricordi più di quello che so io”, “Apri gli occhi, chiudi la bocca”, “Non sei tu, sono io” (scritto specularmente), “Noi siamo il male”, “Non proferirò parola (a nessuno)”...

Sono altri blah blah blah? Forse i due tipi di ascolto sono complementari. Forse ce ne sono altri, sarebbe interessante scoprirne di altre culture, perché quel che resta in gioco è appunto la cultura, una idea di arte e di cultura.

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