Meret Oppenheim. Afferrare la vita per la coda

23 Luglio 2015

Di frequente viene presentata, ad ogni corso d'arte contemporanea che voglia soffermarsi sulla fotografia surrealista, la celebre immagine Erotique Voilée (1933), di Man Ray: un corpo sottile, la mano sporca di inchiostro sulla fronte, poggiato contro un torchio di lavoro la cui manopola si erge sul pube della figura dal sesso ambiguo come un enorme fallo scuro, a offrire una fittizia sessualità che più che chiarire l'identità del modello ritratto, ne amplifica la compenetrazione di caratteri femminili e maschili. L'immagine, facente parte di una serie fotografica dall'atmosfera fortemente erotica, ha consegnato la donna che vi era in realtà ritratta, Meret Oppenheim (1913-1985), alla fama di bellissima musa surrealista, alternativo oggetto del desiderio distante dai canoni di una femminilità convenzionale, ripetutamente fotografato ed esplorato nella sua androginia dall'obiettivo di Man Ray. Una reputazione lusinghiera, ma anche soffocante, per un'artista il cui lavoro creativo ha affrontato numerose esperienze visive, spaziando dal disegno al ready made, dalla poesia ai monumenti pubblici, senza porsi alcun limite stilistico.

 

Man Ray, Erotique Voilée, 1933

 

Un anno fa è uscito per Johan & Levi Meret Oppenheim. Afferrare la vita per la coda [2014, NdR], di Martina Corgnati, ricchissima biografia resa possibile anche grazie allo scadere delle disposizioni testamentarie dell'artista, che aveva chiesto di non divulgare le sue lettere personali per i primi vent'anni dopo la sua morte, avvenuta nel 1985. L'opera di Corgnati, aiutata dalla stretta collaborazione con Lisa Wenger, nipote di Meret, ne affronta la vita e l'opera con una minuzia di dettagli e analisi critiche che rivelano una natura molto più ricca, complessa e autonoma di quella finora proposta dall'immaginario popolare.

 

La storia di Meret Oppenheim si intreccia con il Surrealismo, scoperto non appena la giovane ragazza, nata a Berlino nel 1913, arriva a vent'anni a Parigi e conosce i maggiori esponenti del movimento e le altre personalità che vi gravitano intorno. Man Ray, André Breton, Max Ernst, Alberto Giacometti, Jean Arp, Marcel Duchamp sono solo alcuni dei nomi con cui l'artista entra in contatto, mostrando un'iniziale reverenza (“ma allora parli!” le dirà Man Ray rincontrandola anni dopo) che nulla toglie alla sua capacità di assorbire intuizioni da un ambiente culturalmente così fertile, senza essere però mera spugna ricettiva.

 

Il rapporto di Meret con il Surrealismo è infatti dinamico e aperto: l'artista ha sempre rifiutato una rigida militanza, preferendo considerare il movimento come ambiente in cui era libera di approfondire idee artistiche e moti spirituali già presenti in lei dall'adolescenza. D'altro canto, è proprio nel giro surrealista parigino che la donna troverà non solo maestri, ma anche amici intimi e amanti, dando vita a un'intensa rete di relazioni amichevoli, sentimentali o sessuali frequentemente concretizzate in complicati triangoli amorosi. Non di rado questi comprendono la presenza dell'amica Leonor Fini, altra importante artista eclettica, che condividerà con lei l'amore per Max Ernst prima e per André Pieyre de Mandiargues dopo, senza peraltro nascondere una reciproca attrazione omosessuale. Dunque l'evoluzione del Surrealismo dagli anni Trenta in poi è un fenomeno a cui, vicina o lontana, Meret dovrà confrontarsi per tutta la vita, spesso costretta a rivendicare la propria indipendenza artistica e l'eterogeneità di un lavoro che non si è mai esaurito nel perimetro inscritto dai compagni di Breton, ma l'ha bensì travalicato alla ricerca di una propria identità stilistica sempre aperta al rinnovamento.

 

Definire l'opera di Meret Oppenheim è difatti impossibile, e il notevole testo di Martina Corgnati evita di assegnarle un'etichetta precisa, preferendo affrontare cronologicamente un'enorme quantità di lavori diversi prodotti fin dalla giovinezza, per ritrovarvi alcuni temi ricorrenti sopra i quali permane soprattutto l'intenzione dell'artista di non limitarsi mai a piatte reiterazioni di una stessa forma visiva. Ciò a dispetto del generale disinteresse da parte del pubblico, che la considerava solo in virtù del suo lavoro come modella o per la sua creazione ancora oggi più famosa, Colazione con Pelliccia (1936), vero e proprio archetipo surrealista in cui una normale tazza di porcellana è rivestita al suo interno da un fitto manto peloso; oggetto della quotidianità rivisitato e manipolato in modo da diventare altro, improbabile simbolo perturbante carico di suggestioni erotiche che unisce in sé due elementi convenzionalmente inconciliabili. Altri oggetti prodotti dall'artista, come Ma Gouvernate – my nurse – mein Kindermädchen del 1936 (un paio di scarpe femminili rivoltate su un vassoio, con due cappucci infilati sui tacchi a mo’ di tacchino arrosto) o Lo scoiattolo (1960), boccale di birra con una coda di pelo a fare da manico, sottolineeranno l'interesse di Meret per l'oggetto comune reinterpretato secondo uno spostamento di significati che suscitano nello spettatore disturbanti, inedite analogie.

 

 

Dall'alto di Meret Oppenheim, Colazione con pelliccia, 1936; Ma Gouvernante-My Nurse-Mein Kindermädchen, 1936

 

Ma nella sua lunga vita Meret farà molto di più: le sue opere affrontano il suo rapporto con l'arte, con la sessualità, la morte, senza dimenticare la lunga depressione che per quasi vent'anni l'ha tormentata durante la sua età adulta. In questo ambito l'inconscio è un interlocutore privilegiato, vera e propria fonte di ispirazione traslata in ripetute immagini ipnagogiche – vivide allucinazioni oniriche – da cui l'artista ricava suggestioni per opere che ricercano simboli archetipici presenti in ogni cultura umana, in virtù delle teorie junghiane sull'inconscio collettivo da lei molto studiate. Meret non rinnega la natura né il realismo, ma intende l'arte come una sua interpretazione che porta con sé anche i caratteri nascosti della vita; essere artisti è essere nel mondo, con la mente e lo spirito a fare da filtri consapevoli. Rimane dunque intatta una connessione con la realtà esterna, di cui però centrale è il suo costante metamorfismo, ove l'umano, il naturale e l'animale si confondono e si rigenerano continuamente. Si comprende qui anche il suo interesse per le opere pubbliche e la relazione fra l'individuo e l'opera d'arte immersa nella sua quotidianità, sfociato in alcuni progetti per fontane di cui solo di una – eretta in Waisenhausplatz a Berna nel 1981-1982 e accolta inizialmente con molta ostilità – Meret potrà vedere completa la realizzazione. La fontana bernese, concepita come oggetto che manipola l'elemento naturale, salvifico, dell'acqua, facendone simbolo culturale, svetta ancora oggi come un'enorme torre vegetale col tempo ricoperta di muschio e piante: probabilmente un risultato inatteso per la stessa artista.

 

La femminilità viene sovente tradotta nella sua forma più limitante, in opere come Donna di Pietra (1937), figura femminile dipinta come cumulo di sassi ovali passivamente stesi su una spiaggia, o Genoveffa (1971), evanescente creatura senza braccia: Meret rifiuta il destino preconfezionato di moglie e madre (benché si sposi una sola volta, nel 1949, con Wolfgang La Roche, senza poi rinunciare ai suoi innumerevoli ménage amorosi), ma non approva neanche l'equivoco di un certo femminismo ostile per principio agli uomini, rintracciando invece nella cultura moderna l'impossibilità patologica per entrambi i sessi di poter esplorare la duplicità dei caratteri sessuali presente in ogni essere umano. Tali riflessioni sono presenti anche in forma scritta nei fitti appunti che la donna prende, conscia di dover chiarire la propria posizione come artista contro i ripetuti equivoci prodotti dalla sua reputazione di avvenente musa disinibita, o pedissequa allieva dei Surrealisti. Non esita infatti a confutare le interpretazioni errate o riduttive sul suo lavoro, scontrandosi spesso con i critici d'arte, né opta per atteggiamenti più condiscendenti che forse le avrebbero portato quel riconoscimento generale che a parte gli ultimi anni, costellati dalle prime esposizioni di successo e dai premi d'arte, le è mancato in vita. Troppo facile definire “femminile” il suo lavoro, solo perché prodotto da una donna la cui esuberante quanto anticonformista sessualità ha soppiantato il valore effettivo delle sue opere. A questa definizione Meret Oppenheim preferisce offrire il concetto più complesso dell'artista come il tipo introverso teorizzato da Carl Jung: “L'attributo 'astratto' è stato secondo me utilizzato da estroversi per indicare qualcosa che per gli introversi è appunto concreto, reale” (da una lettera ad Arnold Rüdlinger del 1960 come critica a un suo testo su di lei).

 

Dall'alto Meret Oppenheim fotografata da Man Ray, e l'artista nel suo atelier di Oberhofen (Berna) nel 1958

 

È forse allora, fra tutte le opere descritte nel libro, la performance di Festa di Primavera (Berna, 15 aprile 1959) a risaltare come effimero compendio dei principali temi affrontati da Meret: l'azione consiste in un opulento banchetto imbandito sopra il corpo, colmo di fiori, di una donna dal volto e dalle mani dipinte d'oro, per il piacere di sei invitati, tre uomini e tre donne, che festeggiano la fecondità della natura traslata nel corpo umano, letterale fonte di nutrimento. Lo spostamento surrealista dei significati – una cosa che ne diviene altra – la natura interpretata attraverso nuove forme, la sessualità offerta come alimento per entrambi i sessi, e le suggestioni prodotte da una metafora dell'inconscio qui concretamente realizzata, tutto ciò contribuisce a generare la percezione di una visione artistica densa e multiforme. Non mancherà però anche il fraintendimento che Meret ha sempre visto proiettato sulla sua opera: all'Exposition internationale du Surréalisme, allestita a Parigi nel 1960 la performance verrà riproposta in una chiave sessista dove il corpo femminile serve a nutrire solo spettatori maschili; ennesima rilettura semplificata di un lavoro che forse solo oggi è possibile riconsiderare nella sua più ampia molteplicità di idee e influenze.

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