Miguel Falquez-Certain. Racconti di Triacas

18 Novembre 2011

Pubblichiamo un’anticipazione del numero 56/57 della rivista Nuova Prosa di imminente uscita (Greco&Greco Editori, pp. 341, 15,50 €). È un numero monografico intitolato Periplo Colombiano. Arte, musica e narrativa per il nuovo millennio, a cura di Federica Arnoldi e Fabio Rodríguez Amaya, ricco di saggi e di racconti di 16 scrittori quasi tutti inediti in Italia.

 

 

Abbiamo scelto un saggio della prosa brillante e nervosa di Miguel Falquez-Certain (Barranquilla, 1948), ritenuto uno dei migliori poeti latinos di New York, città dove risiede da oltre trent’anni: tre microracconti che ricreano l’atmosfera fervida, violenta e nel contempo critica di un periodo caldo della vita politica latinoamericana oscurata da una guerra fredda imposta dagli Stati Uniti e che vede come protagonisti Che Guevara, Camilo Torres e altri attori delle lotte anti imperialiste.

 


 

Il bivio

 

– Cinquecento seicento, Capitano – mi dicono all’altro capo del filo, confermandomi che lo vogliono morto. Entro nella stanza e lo vedo riverso accanto alla parete con le mani legate dietro la schiena, sporco, con una gamba sanguinante, vicino ai cadaveri buttati sul pavimento di terra. Sono più che certo di odiarlo per la sua crudeltà a La Cabaña, di aver lottato contro di loro sin dall’adolescenza: quando ricordo la loro arroganza nel mettersi in posa con i cinesi e con i sovietici, lì a sfoggiare il cappotto invernale, sento che gli occhi mi si riempiono di lacrime. “Alla fine ti abbiamo preso”, penso con rabbia e con allegria e allora ricordo le foto del suo diario che avevo scattato dall’agenda tedesca, con immagini varie: un bambino sul triciclo, una festa, una bimba nella culla con un orsacchiotto di peluche, e immediatamente mi sento mancare. “Ma è lui il colpevole di tutto quanto”, penso con ira, facendo in modo di trovare le forze che mi stanno venendo meno. “Cazzo, morto, ti voglio vedere. E pensare che tutti erano convinti che avresti combattuto fino all’ultimo. Ti sei lasciato acciuffare, Papakanzal, papà stanco, comandante...”

– Come minimo deve rispondere, lei ha invaso la mia patria – lo redarguisce Zenteno, ma lui resta in silenzio.

– A me non mi interroga nessuno – è la prima cosa che mi dice quando ci ritroviamo da soli.

– Comandante, non sono venuto per interrogarla. – Non so da dove mi sia uscita la voce. – Sono venuto per parlare con lei. – E lui continua a guardarmi, come cercando di decifrare se gli sto dicendo la verità o se lo prendo in giro. Quando vede che sono serio, mi domanda se può mettersi seduto e mi chiede di togliergli le corde. Chiamo un soldato e insieme lo aiutiamo a sedere su uno sgabello. Risponde a tutte le mie domande in modo evasivo e con un sorriso beffardo.

– Sa bene che a questo non posso rispondere.

E d’un tratto mi dice a bruciapelo:

– Tu non sei boliviano.

– E di dove credi che sia, comandante?

– Sei cubano, anche se ti sforzi di mascherarlo, e io non parlo con i traditori.

Se conoscesse il mio nome saprebbe che mio zio era ministro di Batista, ma io me ne sto zitto. Chiede al soldato del tabacco, promettendogli in cambio di regalargli la pipa. Terán gli dà due sigarette e lui le disfa all’istante. Prende la pipa e aspira. Sapevo che i boliviani lo avrebbero ucciso, che doveva morire quel giorno stesso e né io, né nessun altro, avremmo potuto fermare la storia. Estraggo la mia Pentax 35 e il suo sorriso si trasforma in una smorfia di scherno. Nell’altra stanza si sente uno sparo e il tonfo attutito di un corpo che si accascia al suolo. “Cinquecento seicento.” Metto la velocità dell’otturatore a 2.000 e scatto la foto.

– Mio capitano, quando la uccideranno? – chiede la maestra; la notizia della sua morte si diffonde ormai ovunque prima del tempo.

– È meglio così. Dite a Fidel che presto ci sarà una rivoluzione trionfante in America. – Si dimentica di essere ferito, si alza e cammina senza zoppicare. – E che mia moglie si sposi di nuovo e cerchi di essere felice.

– Sono qui per parlarti – gli dice Terán.

– Voglio che tu sappia che stai per uccidere un uomo.

Il tracagnotto gli spara e il corpo del Che si accascia sul fango. Gli sono rimasti gli occhi aperti.

 

 

Letteratura e rivoluzione

 

Entrerai senza esitazioni e fisserai la guardia negli occhi. L’hai già fatto tante volte, fingendo di interessarti alla biblioteca del leader. Nessuno sospetta; pensano tu sia un intellettuale interessato alle teorie dell’arte e sei diventato amico della bibliotecaria, che hai ammaliato con la tua conoscenza della letteratura russa.

Ricordi l’infanzia nel paese di tua madre, l’adolescenza, la guerra civile, gli studi a Mosca.

Tutto è stato pianificato minuziosamente: Jotov, David e i compagni te l’hanno ripetuto sino alla nausea. Hai fatto un passo dietro l’altro, sino a cesellarli nella quotidianità.

Ora dici buongiorno e chiedi di lui, sapendo che a quell’ora dà inizio alla sua giornata scrivendo nel diario appunti sulla sua vita da rivoluzionario.

La guardia ti sorride anche se insiste a perquisirti, forse alla ricerca delle tue armi segrete.

– Non si sa mai, compagno.

– È il tuo dovere, lo capisco.

Il sole batte sui mandorli in un giardino incantato dove tua madre Caridad gioca con i tuoi riccioli dorati.

Il mattino è fresco e profuma di azalea, la tua loquacità insolita convince la bibliotecaria a fare una pausa mentre ti offri di sistemare i libri. – Grazie, Ramón – ti dice, apprestandosi a uscire in cortile.

– Non preoccuparti, Silvia, gli porto io il caffè.

Prendi la piccozza dall’armadio e con circospezione sali le scale.

León si gira appena sente i tuoi passi: senza esitare nemmeno per un attimo, gli conficchi con violenza il piccone nella testa.

Le sue grida non ti abbandoneranno mai.

 

 

Lo zoppo

 

Amor, ch’a nullo amato amar perdona,

mi prese del costui piacer sì forte,

che, come vedi, ancor non m’abbandona.

Amor condusse noi ad una morte.

Caina attende chi a vita ci spense.

Dante Alighieri, Inferno, Canto V

 

Lo avevi annunciato categoricamente: Caina mi aspetta perché, nonostante tutto, sono ancora vivo. Mi hai relegato in questa zona desolata e spettrale dove abitano i traditori: il primo girone del tuo nono cerchio infernale. Ma non m’importa: seppur svuotata, ho preservato la mia dignità e voi, infelici, raggiungerete la gloria.

La luna piena illuminava il giardino e i rampicanti. Nel vederti nudo vicino a lei, con quella nitida perfezione che a me sottrasse nostro padre, tutta l’ira accumulata mi sgorgò a fiotti come veleno.

Tradito da te, sangue del mio sangue, e da lei, mia compagna per un decennio, la salda ma fredda spada trafisse senza misericordia le vostre carni.

L’adultera Ginevra ti diede forza affinché potessi consumare l’orgasmo con il tuo bello. Come paragonarmi a lui se i tuoi occhi vedevano solo la mia gamba zoppa e il mio potere politico? Non sono sospetti, ma pugnali che entrambi mi conficcano nell’oscurità.

Gli ho insegnato tutti i segreti dell’amore e della guerra. Ho consolato le sue prime paure e con lui ho conosciuto i piaceri della vita in famiglia. Eppure...

Oggi mi accompagna alle mie nozze con lei: premio e alleanza politica e illusoria. Guardaci mentre avanziamo insieme verso una vita che si preannuncia squisita e baciata dalla gloria.

Caina attende chi a vita ci spense – farfugli. Non avverti l’immortalità né i benefici. Esiliato dalla tua terra, saranno i miei discendenti a offrirti l’agognato riposo dei tuoi ultimi anni.

Cadrai perché non mi affronti. “E caddi come corpo morto cade”.

Canaglia, prosegui la tua commedia.

 

 

Traduzione di Anna Boccuti.

 

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