Mishima Yukio: assoluto e relativo

27 Settembre 2024

Ci si può chiedere cosa induca uno scrittore di peso, riconosciuto anche dalla critica come tale, a impegnarsi nella creazione di opere considerate minori, che per lo più la stessa critica tende a ignorare. Mishima Yukio (1925-1970), uno dei maggiori rappresentanti della letteratura giapponese del Novecento, non disdegnò questo tipo di produzione, e di recente Feltrinelli sta aggiungendo alcuni di quei lavori alle traduzioni in lingua italiana disponibili. Differenti tra loro per temi e stile, molte di queste opere sono, però, accomunate dallo sguardo ironico e disincantato che l’autore posa sui propri personaggi e sul mondo che descrive. Già Donald Keene nella sua storia della letteratura moderna giapponese, Dawn to the west, sottolineava la particolarità di questa produzione, supponendo che, più del ritorno economico o di fama, il principale movente che spingeva Mishima a dedicarvisi fosse la possibilità di dar voce, in questi scritti, ad aspetti della sua personalità che trovavano difficilmente posto nella sua produzione maggiore, in particolare proprio l’ironia e l’umorismo che i suoi amici apprezzavano.

Giorgio Amitrano ha inaugurato nel 2022 la nuova serie di traduzioni con Vita in vendita, e quando mi ha proposto di tradurre Nagasugita haru, (“Una primavera troppo lunga”), ho accettato volentieri. Per qualche motivo il titolo mi aveva colpito già durante gli studi, o forse mentre scrivevo la tesi di laurea sull’interesse nutrito da Mishima nei confronti della Grecia classica, più di trent’anni fa.

È un racconto lieve che ci regala una vivace rappresentazione della Tōkyō dell’epoca. Apparve per la prima volta a puntate sulla popolare rivista Fujin kurabu (“Il club delle signore”) da gennaio a dicembre del 1956, e poi in volume il 25 dicembre dello stesso anno, divenendo subito un best seller da un milione e mezzo di copie. Era un film già a maggio dell’anno successivo. Ebbe un tale successo che l’espressione “primavera troppo lunga” entrò in uso per alludere alle vicissitudini e ai problemi che può implicare un fidanzamento che duri più del consueto. È proprio questo il tema del romanzo: Momoko e Ikuo decidono di sposarsi, ma il padre di Ikuo pone come condizione che il ragazzo si laurei prima di convolare a nozze, e il lettore segue i fidanzati nei dodici mesi che li separano dal coronamento dei loro sogni.

All’indubbio riscontro ottenuto in patria non ha corrisposto un equivalente successo all’estero, tanto che, prima di questa versione in italiano, esisteva solo una traduzione in cinese del 1985, ristampata nel 1996.

Colpisce che, tra gennaio e ottobre dello stesso 1956, proprio mentre raccontava le avventure dei due ragazzi, Mishima serializzasse sulla blasonata rivista letteraria Shinchō (“Nuove correnti”) uno dei suoi capolavori, Kinkakuji (“Il padiglione d’oro”), che alcuni critici considerano la sua opera migliore ed è sicuramente una delle più tradotte. Si tratta di un magnifico esempio della grande arte con cui lo scrittore manipolava il materiale alla base delle sue trame, traendolo anche, come in questo caso, dalla cronaca. In Il padiglione d’oro, il fulcro dell’interesse non è l’incidente in sé (l’incendio del padiglione di un tempio, tesoro nazionale, per mano di un giovane monaco), ma il senso dell’atto del protagonista, le sue motivazioni, il processo che ha portato un uomo a distruggere l’oggetto della sua ammirazione, aspetti di una pregnante rappresentazione particolare del rapporto dell’essere umano con la bellezza e, nella visione mishimiana, con l’assoluto.

In una sua recensione (Lettura, 28 aprile 2024), Emanuele Trevi dichiara di trovare sorprendente che Mishima «abbia pubblicato nello stesso anno (1956) Il padiglione d’oro, che è una delle prove più inconfutabili della sua grandezza di scrittore, e un futilissimo e allegrissimo romanzetto sentimentale come Una primavera troppo lunga».

Un altro scrittore, Hirano Keiichirō, che ai suoi esordi, nel 1998, fu salutato dalla critica giapponese come un «novello Mishima», ha raccolto un lavoro di riflessione e approfondimento durato più di vent’anni in un corposo saggio dal titolo Mishima Yukio ron (“Su Mishima Yukio”, Shinchōsha, 2023). In esso, Hirano indica gli anni della pubblicazione di Kamen no kokuhaku (“Confessioni di una maschera”, 1949) e di Il padiglione d’oro come una fase in cui Mishima, dopo una prima giovinezza trascorsa durante lo scioccante periodo della guerra – con la morte costantemente incombente, l’aspirazione al sacrificio per la patria e per l’imperatore e, allo stesso tempo, il sollievo e il conseguente senso di colpa per averlo evitato – decide che deve e vuole vivere la nuova epoca, adattandosi al cambiamento in atto e alla società che sta ricostruendosi nel Giappone sconfitto. In un quaderno di appunti preparatori per la stesura di Il padiglione d’oro, Hirano individua frasi che suggeriscono come, almeno in origine, Mishima intendesse parlare della distruzione dell’assoluto e di un uomo travolto dall’onda del relativo. Nota che assoluto e relativo sono termini su cui Mishima comincia a focalizzarsi proprio in questo periodo, e che dopo il 1965, negli ultimi cinque anni prima del plateale suicidio compiuto secondo l’antico rituale del taglio del ventre, li assocerà rispettivamente all’imperatore e al sistema politico e sociale post-bellico, e poi alla morte (l’assoluto) e alla vita (il relativo).

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Nel suo saggio di quasi settecento pagine, ovviamente Hirano fa un discorso molto più complesso e approfondito, ma le poche riflessioni citate, gettano una luce sulla relazione tra due opere apparentemente così diverse: c’è un senso se Mishima, proprio negli stessi mesi in cui scavava nell’angoscia, nella frustrazione, nel senso d’impotenza di un uomo annichilito davanti al bello — davanti all’assoluto — che alla fine trova forza e motivazione per affermare l’anelito alla vita nella negazione, nella distruzione di quell’assoluto che aveva ispirato la morte nella sua giovinezza, raccontava con tono scanzonato e sprazzi d’ironia i piccoli incidenti e contrattempi che ostacolano un giovane studente e la sua fidanzata nel raggiungimento del loro sogno d’amore, tratteggiando con una certa ironia quella società postbellica in cui aveva deciso di integrarsi.

Perché Una primavera troppo lunga è anche una lettura, un’interpretazione che lo scrittore propone dal suo punto di vista, del nuovo Giappone che si sviluppava rapido intorno a lui, dopo che la guerra e la sconfitta avevano cancellato il mondo in cui aveva creduto nell’età in cui si è più portati a credere. Accenna alla paura delle vecchie generazioni per la “decadenza dei costumi”, sottolinea come le stesse vecchie generazioni, pur faticando a ignorarla, si sforzino di considerare retaggio di un passato da superare la differenza tra “classi sociali”, fa scorrazzare i due giovani liberi per la città, in caffè e cinema, mentre la madre di Ikuo si lamenta che ai suoi tempi bastava andare al cinema col proprio fratello per suscitare pettegolezzi, e fa sposare i suoi protagonisti “per amore”, e non in virtù del tradizionale omiai, l’incontro combinato da genitori e conoscenti (uso che peraltro non è mai scomparso, anche se oggi è in parte sostituito da siti di incontri che mirano allo stesso scopo), premurandosi di far sottolineare alla madre di Ikuo come questa fosse una fortuna di cui godevano le nuove generazioni.

A quelle nuove generazioni, protagoniste dell’accelerata evoluzione sociale in atto, lo scrittore sembra voler guardare con benevolenza, eppure i personaggi giovani non sfuggono al suo sarcasmo. Ikuo che, come aveva fatto Mishima pochi anni prima, frequenta Giurisprudenza all’Università di Tōkyō (del tutto riconoscibile nonostante sia indicata solo con l’iniziale) è un ragazzo non noioso ma serio, vivace ma non scapestrato, un figlio della società del dopoguerra che non si lascia travolgere dall’andazzo degenerato che spaventa le vecchie generazioni, però, come ammette lui stesso, lo fa più perché non è tagliato per la depravazione che perché ci creda davvero e abbia forza di volontà. Il fratello maggiore di Momoko, Tōichirō, è un aspirante scrittore che vive “tra le nuvole”, isolato dal mondo, producendo più carta da macero che letteratura. Miyauchi, l’amico esperto, già sposato, cui Ikuo si rivolge per chiedere consiglio, ricorda la figura dell’intellettuale chiuso nelle sue letture, assorto nello studio e nelle parole, di cui lo scrittore parla nei saggi Aporo no sakazuki (“La coppa di apollo”, 1952) e Taiyō to tetsu (“Sole e acciaio”1968), un tipo umano che, proprio in quegli anni, Mishima aveva individuando come modello cui non voleva più essere assimilato, come un passato che gli apparteneva, ma cui voleva sfuggire. Momoko sembra descritta con più coinvolgimento, ne conosciamo subito paure, sensazioni e speranze, e la sua forza di carattere risalta in particolare nel confronto con la futura suocera, ma anche lei alla fine si adatta alla vita, forzandosi a dimenticare qualsiasi dubbio. I personaggi negativi, poi, che al loro apparire sembrano personalità complesse che allungano cupe ombre sul quadretto idilliaco, finiscono per rivelarsi ingenuamente mediocri.

Se con Il padiglione d’oro aveva rinunciato all’aspirazione all’assoluto, e alla morte, per vivere nel relativismo della nuova era, con Una primavera troppo lunga, Mishima sembra far intendere che non nutre illusioni su cosa ciò voglia dire all’atto pratico: a ben guardare non manca una vena di amarezza nell’ironia con cui racconta i protagonisti della nascente società postbellica come banderuole allegramente disposte a girare al vento della felicità.

Lo scenario in cui questi personaggi perseguono i loro piccoli sogni, poi, è una Tōkyō pronta a dimenticare vecchie ambizioni, proiettandosi verso un promettente futuro, nonostante le ferite della guerra ancora evidenti. È cambiata molto, la città, da allora, ma non tanto da non essere riconoscibile. Dalle finestre di casa di Momoko si vedono parti bruciate dai bombardamenti, e i tetti bassi della zona di Hongō, area della città vecchia dove abitavano molti intellettuali e dove si trova il campus storico dell’Università di Tōkyō, con i suoi filari di ginko, l’auditorio Yasuda e lo Stagno di Sanshirō, il laghetto a forma di cuore così chiamato perché descritto nel romanzo Sanshirō (1908) di Natsume Sōseki. Il mezzo che a volte i protagonisti usano per spostarsi è indicato con il termine che si usa anche per i treni della ferrovia o della metropolitana (densha), ma all’epoca, in quei posti la sotterranea non era ancora stata costruita, e si usava il Toden, un tram che nel 1955 correva su 213 Km di rotaie trasportando quasi due milioni di persone al giorno. Il Toden è stato sostituito man mano dalla sotterranea, e però ne rimane ancora una sola linea di 12 kilometri. Nell’albergo dove la madre di Ikuo incontra le sue amiche si riconosce l’edificio che ha preceduto l’attuale Palace Hotel: affacciato su un angolo del fossato del Palazzo Imperiale, prima di essere requisito dagli occupanti a fine guerra, era effettivamente sede di un ente che corrispondeva all’attuale Agenzia Forestale. La Cattedrale di San Nicola (il nome ufficiale è Cattedrale della Santa Resurrezione), dove Ikuo riflette sul senso della divinità, domina ancora con la sua peculiare architettura la zona di Kanda, non lontano dal luogo in cui Momoko incontra il cugino all’asta dei libri, nel quartiere che è tuttora noto per il gran numero di librerie, molte dell’usato. Il Tōkyō kaikan, dove Momoko frequenta lezioni di cucina, è ancora lì (anche se è stato ricostruito due volte), con i suoi locali eleganti, lo storico ristorante francese e… la sua famosa scuola di cucina. Dal club in cui ha dato appuntamento a Tōichirō, nell’area di Shinbashi, la madre di Ikuo osserva i feriti di guerra che prendono aria nel giardino di quello che era diventato l’ospedale militare degli occupanti, dove ancora si ergeva la statua di un ammiraglio giapponese e, anche se l’edificio non esiste più, il giardino di quella che era stata la scuola di medicina della marina giapponese, requisita appunto durante l’occupazione americana per farne un ospedale militare, appare in alcune foto d’epoca proprio come è descritto nel romanzo: al di là di un corso d’acqua, con la statua dell’ammiraglio, principe Arisugawa Takehito, al centro. Ed è a questo punto che lo scrittore, mentre racconta come la società del dopoguerra stia cedendo a costumi e mentalità che si stanno imponendo con l’occupazione, fa fare alla signora una riflessione sull’ironia della situazione:

Sotto la generosa luce solare, il tappeto erboso del giardino anteriore dell’ospedale era movimentato dal passeggio di soldati americani feriti o malati. Alcuni camminavano con un deambulatore, altri, ciechi, erano condotti per mano, e lo sfavillio allegro delle ruote dei deambulatori in movimento le fece pensare, per contrapposizione, alla tristezza dei loro cuori. Era davvero strano il contrasto tra le due rive di quel fiume: al di là della corrente c’erano gli sventurati del paese dei vincitori, mentre al di qua ridevano i ricchi del paese dei vinti e magnifiche geisha.

Perché, in fondo, tutto è relativo.

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