Un Nobel contro l'atomica

9 Dicembre 2024

Il 10 dicembre di ogni anno Oslo celebra il vincitore del Premio Nobel per la Pace. Quest’anno, a ritirare il prestigioso riconoscimento verranno dal Giappone degli anziani signori, tra gli ultimi testimoni viventi di uno dei più terribili delitti contro l’umanità commessi nella storia. Sono esponenti di un ente conosciuto come Nihon hidankyō, una confederazione nazionale di hibakusha, coloro che hanno subito i danni di un bombardamento nucleare. Il nome completo dell’ente è Nihon gensuibaku higaisha dantai kyōkai, Confederazione delle associazioni dei danneggiati dalle bombe A e H del Giappone. L’organismo si è costituito nel 1956, a undici anni dallo sgancio delle atomiche su Hiroshima e Nagasaki, dopo che, nel 1954, gli Stati Uniti avevano testato nelle isole Marshall ordigni molto più potenti di quelli del 1945. Il governo degli Stati Uniti aveva deportato gli abitanti dall’atollo di Bikini già dal 1946, in occasione di una prima serie di test, per allontanarli dall’obiettivo prescelto. L’isola cui erano stati destinati, però, non era abbastanza distante e avevano subito comunque gli effetti deleteri delle radiazioni. Nel test tenuto il primo marzo 1954, finirono per essere coinvolti anche i 23 membri dell’equipaggio della nave da pesca Daigo Fukuryūmaru, partita dal porto di Yaizu, nella regione di Shizuoka in Giappone, che transitava in quell’area. Furono investiti dalle ceneri radioattive prodotte dall’esplosione della bomba all’idrogeno e il 23 settembre il marconista Kuboyama Aikichi morì. L’incidente suscitò in Giappone una reazione indignata che si concretizzò già nell’estate in una raccolta di trenta milioni di firme contro l’atomica e diede agli hibakusha giapponesi la forza di alzare la testa e unirsi per portare avanti le proprie istanze e testimoniare la loro esperienza. Infatti, nei sessantotto anni trascorsi dalla fondazione di Hidankyō, i suoi  membri, oltre a unire le loro voci nel richiedere al governo sussidi e sostegno per coloro che avevano subito i bombardamenti nucleari, si sono impegnati a testimoniare nelle più diverse sedi, dalle scuole agli organismi internazionali, gli effetti devastanti subiti da loro, dai loro consanguinei e dalla loro terra, e a fare pressione su opinione pubblica e governi perché il mondo imboccasse la strada del disarmo.

È capitato altre volte che il premio Nobel per la pace sia stato attribuito almeno in parte in ragione di azioni volte al contrasto della diffusione degli armamenti nucleari. Nel 1985 fu premiata l’organizzazione fondata da medici statunitensi e russi, chiamata International Physicians for the Prevention of Nuclear War, nel 1995 la Pugwash Conferences on Sciences and World Affairs, che vede tra i suoi fondatori Bertrand Russell, nel 2005 l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, con l’allora direttore Mohamed El Baradei, e nel 2017 l’ICAN (Campagna per l’abolizione delle armi nucleari). Anche l’attribuzione del Nobel per la pace a Barack Obama nel 2009 è stata in parte legata alla sua azione per la riduzione degli arsenali nucleari.

Ed esattamente cinquant’anni fa, nel 1974, questo premio fu assegnato per la prima volta a un cittadino giapponese, l’ex primo ministro Satō Eisaku, soprattutto come riconoscimento per aver guidato il Giappone al trattato di non proliferazione nucleare, e per aver formulato i tre principi contro la nuclearizzazione: non possedere armi nucleari, non produrle, non permettere che vengano introdotte nel paese. Pare che molti abbiano criticato l’attribuzione del premio a Satō e, ad esempio, su Le monde la decisione del Comitato Norvegese sia stata definita «sorprendente e discutibile». Il senso di quel premio era legato alla situazione politica internazionale del momento, che vedeva il Giappone impegnato in un difficile confronto con gli Stati Uniti, passati a essere da nemici, ingombranti alleati.

Oggi viviamo un periodo storico particolarmente complesso ed è facile immaginare che il Nobel per la pace 2024 non abbia lo stesso senso di quello del 1974, nonostante sia stato conferito sulla base di motivazioni in qualche modo simili. A riceverlo, poi, non è un politico impegnato nella definizione di un rapporto tra Stati che, ormai, ha assunto dei connotati piuttosto precisi, ma un’associazione di persone che hanno lottato per un ideale minacciato più che mai dalle attuali tensioni internazionali. Una confederazione di associazioni che, inesorabilmente, stanno diminuendo di numero, a causa dell’avanzare dell’età dei loro membri.

L’11 ottobre 2024, quando Jørgen Watne Frydne, presidente del Comitato norvegese delegato alla selezione, ha annunciato che il premio Nobel per la pace era stato assegnato a Nihon hidankyō, mi trovavo a Tōkyō. In televisione ho visto di sfuggita l’ottantaduenne Mimaki Toshiyuki, uno dei membri rappresentanti dell’associazione, rispondere commosso alle domande dei giornalisti, e pizzicarsi una guancia dicendo che gli sembrava un sogno, che non ci credeva.

Tra le motivazioni del premio, il presidente del comitato Frydne, ha ricordato soprattutto l’azione di testimonianza compiuta da Hidankyō e la sua efficacia nella creazione, su scala mondiale, di un tabù nei confronti negli armamenti nucleari, e poi ha espresso la speranza che questo premio possa attirare l’attenzione dei giovani, ormai lontani dai tragici eventi del 1945, e spingerli a raccogliere il testimone degli hibakusha nella lotta alla proliferazione delle armi nucleari.

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È comprensibile questa speranza ma, purtroppo, si ha la disarmante impressione che il premio giunga ormai fuori tempo massimo, considerato che tra invecchiamento dei membri originali e carenza di nuove leve, nel 2024 sono rimaste solo 36 associazioni locali a comporre la confederazione che una volta era capillarmente diffusa sul territorio nazionale. Ci si chiede perché arrivi solo ora, dopo tanti anni che Hidankyō opera e quando ormai molti dei suoi esponenti sono venuti a mancare. È evidente che il momento storico risveglia paure mai superate, ed è possibile immaginare che i commissari norvegesi abbiano inteso ricordare al mondo quanto un’arma di quella potenza, peraltro di gran lunga inferiore a quella delle corrispondenti armi attuali, abbia sconvolto le vite degli hibakusha. Le memorie ancora vivide nelle menti dei membri di Hidankyō, a dispetto della loro veneranda età, sono indubbiamente un monito pesante: gli effetti dell’esplosione atomica travolgono l’esistenza di intere comunità e una ferita del genere non si dimentica. La voce dell’associazione viene considerata un unicum, perché è espressione della sofferenza della sola nazione al mondo che abbia subito il bombardamento atomico durante una guerra. Il che è senz’altro vero, ma è tragicamente ironico che a spingere gli hibakusha sparsi per il Giappone a riunirsi in Hidankyō sia stato uno della lunga serie di esperimenti a causa dei quali la gente che abitava pacificamente l’atollo di Bikini ha perso la salute, in molti casi la vita, e, definitivamente, la propria terra, in tempo di pace. È una circostanza che dovrebbe far riflettere su quanto il fatto stesso che gli stati puntino sul nucleare e si impegnino nel suo sviluppo possa inevitabilmente comportare tragedie di portata enorme.

In realtà, pare che uno degli effetti maggiori di questo Nobel sia stato quello di rinfocolare dibattiti ponendo questioni, con lo straniante effetto di doversi meravigliare di quanto l’istinto belligerante sia ormai diffuso tra molti e accettato dai più, idee che si ritenevano ormai acquisite siano profondamente rimesse in discussione, e quel tabù nei confronti del nucleare che l’azione di Hidankyō ha contribuito a far nascere stia perdendo di potenza.

Lo stesso 11 ottobre, giorno dell’annuncio del premio, sul quotidiano Asahi compariva un articolo in cui vari esponenti dell’opposizione dichiaravano che esso è un invito al governo giapponese a ratificare il Trattato per la messa al bando delle armi nucleari, o almeno a partecipare come Paese osservatore alla conferenza del trattato. Ma, come l’Italia, il Giappone ospita basi NATO, con tutto quello che ciò comporta. E l’attuale governo sembra orientato in tutt’altra direzione.

Il 13 ottobre, mi è capitato di vedere una tribuna politica domenicale, Nichiyō tōron (“Il dibattito della domenica”, in onda tutte le settimane sulla televisione nazionale NHK), in cui alcuni esponenti dell’opposizione ponevano al primo ministro Ishiba Shigeru, fresco di nomina, la questione del significato di un premio Nobel per la pace dato a un’associazione giapponese contraria alla proliferazione nucleare, in un momento in cui il paese, di fronte all’instabilità internazionale e al complicarsi dei rapporti con i vicini Corea e Cina, punta inesorabilmente al riarmo. La risposta di Ishiba riecheggiava l’antico detto latino si vis pacem, para bellum, chiarendo le intenzioni del suo governo, riconfermato dalle elezioni meno di un mese dopo. Tra i partecipanti al dibattito qualcuno ha anche notato l’incongruenza di gioire per questo Nobel, mentre il paese, pur non possedendo armi nucleari, è apertamente sotto la protezione dell’ombrello nucleare statunitense.

In questo contesto difficile, un premio del genere ha troppi significati e troppe possibili implicazioni, per essere accolto semplicemente con gioia e orgoglio, come avverrebbe se finalmente arrivasse, per esempio, il sospiratissimo Nobel per la letteratura, magari a Murakami Haruki, come molti sperano e credono da anni.

La delegazione a Oslo sarà nutrita: dovrebbero presenziare trentuno persone, compresi i discendenti di seconda generazione di alcuni degli hibakusha. Di questi, i membri rappresentanti saranno tre, e tra loro Tanaka Terumi, di 92 anni, pronuncerà il discorso di accettazione del Nobel. Tanaka testimonia ancora con forza in Giappone e nel mondo la sua dolorosa esperienza. In Tasmania (Einaudi 2022) Paolo Giordano racconta di come lo abbia intervistato attraverso uno schermo, per poi incontrarlo in un toccante momento prima della cerimonia di commemorazione delle vittime nel torrido agosto di Nagasaki, nel 2022. Tanaka aveva tredici anni quando la sua vita è stata sconvolta. Non ha mai dimenticato ciò che ha visto e ciò che ha sofferto e la sua testimonianza ha la forza della realtà. Paolo Giordano racconta come quell’incontro a Nagasaki abbia dato a ogni passaggio della cerimonia un significato più profondo rispetto a quella di Hiroshima cui aveva assistito tre giorni prima. Immaginare il Tanaka Terumi tredicenne di quel maledetto giorno lo commuove al punto da dirsi che «si possono piangere nella storia di un solo bambino le sorti di tutta l’umanità».

La timida speranza è che le parole pronunciate il 10 dicembre a Oslo da Tanaka Terumi, amplificate dall’eco mediatica del premio Nobel, possano sortire un effetto simile su molti.

 

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