Speciale
Negare con le immagini
L’interrogativo alla base di queste mie brevi riflessioni è in apparenza molto semplice: è possibile ipotizzare che tutto ciò che esprimiamo con il linguaggio verbale sia rappresentabile attraverso le immagini? O, ancora più precisamente, se è vero che noi, con le parole, possiamo tranquillamente affermare o negare, è possibile utilizzare l’immagine per negare, anziché affermare, qualcosa? Gli studiosi delle culture orientali ci raccontano che nelle tradizioni taoiste e buddiste l’approccio al tema della conoscenza, rispetto all’occidente, è meno sbilanciato a favore del “logos” e molto sospettoso verso le teorizzazioni intellettuali, e che, anziché il primato della razionalità, vige proprio il primato del “vuoto” non inteso concettualmente ma come esperienza fondante dell’essere. I cinefili più raffinati citerebbero, a questo proposito, il regista Yasujirō Ozu che fece mettere l’ideogramma “Mu” (che significa proprio “vuoto, assenza”) sulla sua tomba.
Il linguaggio utilizza due termini che descrivono come si svolge la comunicazione verbale tra gli umani: si può parlare e si può tacere. Tacere è a volte addirittura più efficace, dal punto di vista della comunicazione, del parlare. Ma è possibile, e come si fa a tacere con le immagini? Tenendo, ad esempio, la fotocamera spenta, ma in tal caso non è possibile stabilire se questo tacere sia intenzionale e non sia semplicemente dovuto, poniamo, a problemi tecnici. Certo, quando le immagini erano prodotte dalla mano umana, si poteva pensare che la tela vuota fosse l’omologo della pagina bianca ma poi è arrivata l’arte concettuale a farci capire che la tela vuota non è mancanza di comunicazione ma è comunicazione della mancanza.
E, per continuare con la riflessione, con i mezzi tecnologici la cosa in ogni caso non funziona allo stesso modo perché un dispositivo di produzione di immagini elettroniche spento non comunica alcunché. Quindi, se da un lato è facile negare con le parole, come si fa a negare con le immagini? Poniamo che in una sceneggiatura sia scritto che il protagonista compie una data azione, in tal caso la regia si occuperà di rappresentare visivamente come detta azione sia compiuta, individuando l’angolazione di ripresa, il tipo di obiettivo, l’illuminazione, i costumi che il protagonista indossa, l’ambiente in cui l’azione si svolge, eccetera. Ma supponiamo invece che nella sceneggiatura sia scritto che il protagonista NON compie una data azione, in cosa mai potrebbe consistere la rappresentazione visiva di questa mancata azione?
O, ancora, supponiamo di dover realizzare un’immagine che rappresenti la frase “nella stanza ci sono due cani e due cavalli”, in tal caso basterà trovare una stanza, i cani e i cavalli e, ad esempio, fotografarli. Addirittura, si potrebbero disegnare anche senza averli realmente davanti a sé, basandosi sulla propria immaginazione. Ma se invece dovessimo rappresentare la frase “nella stanza non ci sono né cani, né cavalli”? Sarebbe possibile? E come? Certo, si potrebbe andare per esclusione, rappresentando TUTTI gli animali viventi, tranne, appunto, dei cani e dei cavalli. Ma siamo sicuri che una tale scelta sarebbe comprensibile? C’è da dubitarne.
Un interrogativo del genere se lo è posto Robert Zemeckis in Cast Away, rivisitazione contemporanea della storia di Robinson Crusoe. Nel film il protagonista si ritrova, naufrago, in un’isola deserta e deve preoccuparsi della sua sopravvivenza in attesa di un possibile salvataggio. Prendiamo la frase che ho appena scritto, “in un’isola deserta”. Per comunicare visivamente che l’isola è effettivamente deserta, quali scelte poteva compiere il regista? Per esempio, una lunga ripresa aerea di tutta l’isola? Probabilmente, una scena del genere avrebbe finito per fuorviare lo spettatore, facendogli ammirare la bellezza naturale, la meraviglia incontaminata in cui il protagonista aveva avuto la “fortuna” di capitare, e in cui la sua solitudine poteva non avere poi molta importanza. Zemeckis invece, compie una scelta sorprendente e di grande efficacia espressiva.
Il naufrago, Chuck Noland, si aggira, ancora scioccato e barcollante, sulla spiaggia e improvvisamente esce di campo a sinistra dell’inquadratura. La macchina da presa non lo segue e continua a inquadrare la spiaggia vuota. Finché, dopo un tempo non brevissimo, Noland rientra in campo da destra, cosa che sul momento ci fa pensare che si tratti di un’altra persona. Non ci sono stacchi e quindi dobbiamo ipotizzare che l’attore sia passato dietro all’operatore, il quale, per così dire, si materializza, prende corpo, nella nostra percezione della scena, cosa che va contro tutte le regole della regia cinematografica.
Questa specie di “doppio” naufrago ha quindi la funzione di esprimere, in immagini, un concetto che a parole si potrebbe dire con la frase “Noland è solo con se stesso”, rafforzando l’idea che è solo su di sé che potrà contare per la propria sopravvivenza. In altri termini, la questione non riguarda solo come rappresentare visivamente la negazione bensì piuttosto la possibilità di negare la rappresentazione. Ciò, a mio parere, non ha solo a che fare con l’assunto, oggi molto in voga, che sia proprio la proliferazione incontrollata delle immagini a renderle di fatto un dispositivo atto a negarne la verità. Le immagini sono contendibili, e a confutarne la veridicità non sono ormai più gli argomenti ma, semmai, altre immagini.
Questo è certamente vero ma qui si tratta di andare oltre, e di considerare la possibilità non solo di rappresentare il nulla, la mancanza, il vuoto, considerandolo addirittura (grazie all’efficace espediente narrativo del ribaltamento delle opinioni correnti) come qualcosa di positivo, o perché stimola la nostra immaginazione (v. il famoso finale di Blow Up), o perché grazie ad esso nasce l’inedito (v. l’altrettanto famoso episodio U.S.A. diretto da Sean Penn nel film 11'09"01 – September 11), ma di negare la stessa possibilità della rappresentazione. E non solo, ribadisco, per lo schiacciamento a cui siamo sottoposti quotidianamente sotto il peso di migliaia di immagini a cui diventa sempre più difficile dare senso.
Ma soprattutto perché non è ancora stata definita una volta per tutte la loro natura. Sono solo una versione semplificata del reale, o sono “iper-reali” come sostiene qualcuno? Forse una “seconda dimensione” della realtà? Sono un modo per salvare ciò – la realtà – che per sua natura sarebbe transitorio e sfuggente? Sono intrise di “perfidia” (in senso etimologico: qualcosa di subdolo, di sleale, che seduce mentre inganna)? “Un’immagine vale più di mille parole”. Quante volte abbiamo sentito questa frase? Il suo significato ci sembra ovvio, non essendo altro che l’ennesima affermazione del primato del visuale rispetto ad ogni altra forma di comunicazione.
Ma, allora, come mai sentiamo spesso il bisogno di corredare le immagini di didascalie esplicative (lo stesso Duchamp era un sostenitore dell’importanza fondamentale dei titoli dei quadri), perché altrimenti ci risulterebbe difficile comprendere ciò che rappresentano? Forse perché in realtà abbiamo poca fiducia nell’autonoma forza delle immagini? Ciò potrebbe suonare paradossale, nell’epoca dell’Iconic Turn.
Per finire questa breve ricognizione di una faccenda più complicata di quanto a prima vista non sembri, ho pensato a un’ultima e forse radicale possibilità di negare (con) le immagini, a partire da un breve aneddoto. Racconta Jacques Prévert: un giorno, sulle piccole colline delle Alpi Marittime, Doisneau era con un pastore, le sue pecore e i cani, quando un camion, uscendo di strada, investì il gregge e uccise i due cani. “Hai scattato qualche foto?” gli chiesi. Doisneau: “No, ho consolato il pastore”.