Nel castello delle belle avvelenate
Durante la prima presentazione online della collana “Babalibri Educazioni”, lo scorso autunno, i curatori Francesco Cappa e Martino Negri hanno illustrato i caratteri di un interessante progetto di recupero e riscoperta di testi che rappresentano delle pietre miliari della saggistica pedagogica, da molti anni irreperibili nelle librerie perché fuori catalogo, ai quali poter affiancare nel prossimo futuro altre proposte di titoli inediti. Due storiche collane di Emme Edizioni come “Il Puntoemme” (1971-1985) e “L’Asino d’oro” (1979-1988), dedicate rispettivamente ai mondi della scuola e della letteratura infantile, sono il principale riferimento genealogico di questo progetto, che riallacciandosi a un’epoca di grande fermento culturale mira a stimolare nuove occasioni di riflessione sull’infanzia e sulle pratiche educative.
È importante osservare che la collana non si rivolge esclusivamente a un pubblico accademico, anzi mira a suscitare l’interesse di insegnanti, educatori, genitori e appassionati, ed è altrettanto importante considerare quanto il linguaggio dei suoi libri solleciti una simile apertura, molto gradita e salutare in anni in cui il pensiero pedagogico è reso sempre più autoreferenziale da un gergo specialistico ricco di sigle, formule e tecnicismi ma povero di realtà. Nell’introduzione a La scoperta come apprendimento, titolo che assieme a Forse un drago nascerà di Giuliano Scabia ha inaugurato la collana, John Foster osserva: «Ho cercato di scrivere questa relazione in termini semplici e non tecnici. È un libro descrittivo ma, spero, anche obiettivo». Richiamandosi a questo passaggio, Martino Negri ha posto l’accento sull’idea di una collezione di libri che propongono esperienze ma non sono da intendersi come ricettari, libri che descrivono senza la presunzione di prescrivere o addestrare, che aprono spazi di riflessione e ricerca invece di definire schemi di facile consumo e riproduzione.
I libri di Antonio Faeti, l’autore del quarto volume della collana che fu maestro di scuola elementare e divenne il primo professore ordinario di Letteratura per l’infanzia in Italia, sono per queste ragioni doppiamente esemplari, sia perché la loro importanza storica è tale da farne dei classici, sia in quanto opere anomale e inesauribili per la loro peculiarità, in grado di appassionare anche a distanza di decenni qualsiasi lettore che vi dedichi tempo e attenzione. Nella nuova appendice a Dacci questo veleno!, apparso nel 1980 nella collana “L’asino d’oro” di Emme Edizioni e ora accompagnato da saggi di Emilio Varrà e Giorgia Grilli, la ricchezza dei testi di Faeti è colta proprio nella loro evidente estraneità agli odierni standard accademici. «Gli studenti universitari a cui li ripropongo si sentono disorientati di fronte a questi scritti che trovano impossibili da ridurre a schemi, a mappe concettuali, a Power-Point riassuntivi», nota Grilli, riconoscendo che si tratta di libri tanto più preziosi quali esempi di percorsi «fuori dai binari», sostenuti da vastissime conoscenze e da audaci intuizioni.
La scelta di proporre ai propri alunni di quinta elementare un confronto col linguaggio del fumetto, nell’anno scolastico 1971-72, portò lo stesso Faeti a intraprendere una vera e propria «avventura pedagogica», per dirla con Scabia, che negli anni successivi costituì il nucleo di una delle sue più affascinanti ricerche sull’immaginario infantile. La prima scoperta di questo percorso è una curiosa questione di genere, legata alle differenti abitudini di lettura. Mentre la maggiore dimestichezza dei maschi col linguaggio dei comics dà quasi sempre luogo a tentativi di imitazione delle serie più amate, ben fatti ma poco significativi allo sguardo dell’educatore, sono soprattutto le bambine a sfruttare questo strumento espressivo al di là delle sue convenzioni tecniche e narrative. Per il maestro, l’impressione è che il linguaggio del fumetto consenta loro di parlare finalmente di sé in modo spregiudicato, come mai avevano fatto nei più canonici temi scolastici o nei testi liberi.
Emerge infatti, da questo incontro fra parole e immagini, una zona dell’immaginario infantile dove le fantasie assumono tinte forti e perturbanti, un territorio che mescola fantasmi all’apparenza eterogenei, riconducibili alle fiabe di magia come ai romanzi rosa e polizieschi, oltre che ai fumetti e ai feuilletons. Di fronte a storie di avvelenamenti, vendette, suicidi, con giovani protagoniste tipicamente costrette a sposare uomini anziani o nani che tentano poi di assassinare, lo sguardo di Faeti maestro è sorpreso e cauto, desideroso di comprendere meglio ma fermo nella consapevolezza di non poter interpretare certi indizi alla luce di una lettura diretta. Lo soccorre però un pensiero di Rodari, dalla Grammatica della fantasia: «Quando si ha a che fare con i bambini, e si vuol capire quello che fanno e quello che dicono, la pedagogia non basta e la psicologia non arriva a dare una rappresentazione totale delle loro manifestazioni. Bisogna studiare altre cose, appropriarsi di altri strumenti di analisi e misura. Anche farlo da autodidatti non guasta niente. Anzi».
Per il maestro che dichiara la sua volontà di capire, ma anche il desiderio di fermarsi «sulla soglia di un mondo che mi avrebbe inevitabilmente accolto come un ospite non troppo gradito, guardato addirittura come un intruso», si tratta allora di assumere i panni dello studioso, appassionato di fumetti e letteratura infantile, ma soprattutto di spogliarsi della corazza di erudizione dello specialista per far proprio il passo libero e sciolto del dilettante. Il Faeti maestro aspetta così sulla soglia, che nel libro coincide col suo testo introduttivo e con la riproduzione in coda al volume di alcuni fumetti delle sue alunne, mentre il Faeti ricercatore si inoltra nel regno proibito delle storie e delle loro infinite ramificazioni, simile al giovane cavaliere di un’antica fiaba, intento a esplorare una valle lontana in cerca di un’ombra perduta.
Non credo sia esagerato pensare a questa opera come al racconto di una quest romanzesca: lo stesso Faeti la definisce «avventura interpretativa», e nota che la scrittura procede di scoperta in scoperta, mossa dal piacere della digressione e della raccolta di indizi disparati. «Nel labirinto di un “nuovo commento”» sono le sue prime parole, mentre più volte ricorre nel testo l’immagine dell’oceano, del «mare metaforico» che avvolge il percorso. Laddove la nebbia comincia a diradarsi possiamo seguire il cavaliere nei meandri di un castello che ha tutta l’aria di essere disabitato, e nelle sale di una biblioteca sfogliare con lui vecchi libri estratti da bauli polverosi. Non è un caso se dopo lunghi scavi bibliografici dedicati alle fiabe-feuilletons e ai fumetti, questa immagine dei libri ritrovati si presenta al lettore proprio fra le pagine di un libro, come in un gioco di scatole cinesi.
Tre casse di vecchi libri per bambini, nel romanzo Le porte di Damasco di Agatha Christie, custodiscono tracce più o meno sbiadite dell’esistenza di varie generazioni di inquilini, simili ai frammenti che nel libro di Faeti vanno a formare a poco a poco un composito «romanzo d’infanzia», e suggeriscono inoltre una precisa corrispondenza fra la letteratura infantile (specie quella di età vittoriana) e il genere poliziesco, che nella fiaba troverebbero un antenato comune. Fra le pagine di vecchi libri per bambini l’adulto interroga le ombre infantili dimenticate dagli anni, annidate anche là dove tutto sembra immobile. «Il bambino immerso nella società vittoriana affascina da tempo quanti sono interessati alla presenza di contraddizioni entro spazi che si presentano ricomposti e sommamente ordinati», osserva Faeti, mentre immaginiamo il cavaliere attraversare le sale di un castello sempre più simile a una sterminata galleria degli specchi, fra corrispondenze e rifrazioni che si rincorrono da un’immagine all’altra. Finché fra le mille illusioni, a un certo punto, il cavaliere non scorge qualcosa che lo chiama a sé.
Credo che ogni lettore possa trovare le proprie chiavi di lettura privilegiate, sparse nei vari capitoli, anche perché il libro sollecita di continuo consultazioni libere e approfondimenti. La mia impressione è che una via d’uscita da questa galleria di specchi segua il percorso a ritroso verso i territori della fiaba e conduca in una camera proibita, e un’altra strada sbocchi in un giardino segreto, a sua volta comunicante coi boschi che circondano il castello. Come nella fiaba Enrichetto col ciuffo di Perrault, citata fra le righe del classico di Frances Hodgson Burnett, immagino il cavaliere alle prese con due figure d’infanzia complementari, segregate in questi spazi metaforici sotto l’effetto di un antico incantesimo: da un lato l’infanzia protetta, aggraziata e distante, che gli specchi della sua camera riflettono nel volto di una fanciulla bellissima; dall’altro l’infanzia selvatica, che sotto la lente di rigidi schemi educativi assume invece l’aspetto di una creatura deforme e incorreggibile.
I curatori Giorgia Grilli ed Emilio Varrà, che sono stati allievi di Faeti, hanno dedicato dei meravigliosi saggi a queste due figure, a cominciare dai testi contenuti nel volume L’età d’oro. Storie di bambini e metafore d’infanzia (Pendragon 2001), rispettivamente intitolati “L’infanzia malinconica” e “Il pericolo rosa. Monelli e monellerie nella letteratura per l’infanzia”. Oggi, di fronte ai fantasmi di infanzie idealizzate, negate, violate o addomesticate di cui ci parlano romanzi e fumetti, un grande errore sarebbe ritenerli soltanto figure letterarie appartenenti al ricordo di epoche passate. Se la pedagogia che abbiamo interiorizzato è senz’altro più attenta ai bisogni del bambino, e la società ben più sensibile alle questioni di genere e agli stereotipi, ciò non significa che l’infanzia sia immune da nuove forme di controllo e deprivazione, talvolta più subdole e pervasive proprio perché non così semplici da riconoscere.
Che ombre troverebbe oggi il giovane cavaliere, se un maestro volesse proporre ai suoi alunni di far propria la voce della fiaba, combinando immagini e parole? Forse si accorgerebbe che le infanzie malinconiche stanno trovando un rifugio negli specchi sempre più piccoli e smart del ritiro sociale e nel narcisismo dell’immagine social, mentre le infanzie irriducibili ai modelli del mondo adulto non sono più deformate dalle lenti della pedagogia nera, ma occultate dietro un proliferare di etichette, diagnosi e prescrizioni mediche. Forse noterebbe anche che la proibizione ha assunto un volto più anonimo e impersonale, sfruttando a proprio vantaggio il lessico della sicurezza e della salute, mentre la ribellione è stata abilmente trasformata in prodotto di consumo, utile a confezionare nuove maschere identitarie e performative.
Questi inganni riguardano anche la nostra percezione della fiaba e della letteratura per l’infanzia, le nostre premure volte a smussare il linguaggio in modo da renderlo più neutro e rassicurante. L’espressione «dacci questo veleno», che nel fumetto di un’alunna di Faeti è grammaticalmente scorretta ma culturalmente pregnante come implicita parodia del «dacci oggi il nostro pane quotidiano», suona ora come una giusta esortazione a ridare vita a un immaginario infantile continuamente ripulito e anestetizzato, ritrovando il legame con la potenza perturbante e rigenerante della fiaba, in anni in cui la letteratura tende a essere concepita come proposta terapeutica e orientata dai temi dell’impegno sociale.
«Il racconto creava attorno a me un mondo reale, vivo, palpitante» scrive Richard Wright nel romanzo Ragazzo negro, rievocando l’effetto della fiaba di Barbablù sussurratagli dalla maestra. E Faeti, riflettendo sul significato di quel mondo cangiante, popolato di magiche presenze: «La camera chiusa di Barbablù induce il ragazzo nero a lottare per entrare nei territori che gli sono negati: il giardino segreto è il luogo in cui si riacquista la salute, quando si ha la volontà di cercare la chiave per aprire la porta e il coraggio per introdursi nello spazio proibito. Non sono metafore del superamento di ostacoli che si oppongono alla crescita: sono piuttosto sintomi della lotta combattuta dai bambini per essere bambini».
Una lotta che domanda agli adulti grande rispetto e responsabilità, e prima ancora la capacità tutt’altro che scontata di vedere l’infanzia, anche se può somigliare a un’ombra. Osservarla, riconoscerla e sapere che c’è, soprattutto quando è più difficile accorgersi della sua presenza. In un articolo recente, Giorgia Loschiavo ha raccontato di una bambina che ha disegnato con lei un castello, e alla domanda su chi lo abitasse ha risposto prima «non te lo dico» e poi «nessuno». Leggendo questo passaggio mi sono tornati in mente Faeti e i fumetti delle sue alunne. L’ho immaginato fermarsi ancora una volta sulla soglia di fronte all’esitazione sua e della bambina, rispettoso del silenzio e determinato a interrogarsi più a fondo, magari riformulando la domanda di partenza. Attento e in attesa come un maestro o un cavaliere, e certo che il castello non può essere disabitato, se una voce lo sta chiamando da una delle sue mille sale.