Peanuts. Personaggi per un centenario/1
Charlie Brown | Gianfranco Marrone
Non è chiaro, di primo acchito, se Charlie Brown sia il protagonista delle serie dei Peanuts. Altri personaggini avrebbero più ragioni di lui per esserlo. Linus senza dubbio, che è il filosofo del gruppo, tanto profondo quanto incapace di vivere. O la perfida Lucy, che sa come gestire uomini e cose, con modi tanto sgarbati quanto efficaci. Oppure ovviamente Snoopy, uno sbruffone, egoista e creativo al massimo grado, trasformista al limite del delirio. Geniale. Per non parlare di Piperita Patty, ottima sportiva e pessima alunna, bruttina tutto pepe. E così via.
Ma c’è una caratteristica che tutti costoro non hanno, e che solo Charlie Brown possiede ostinatamente: quella di restare sempre uguale, nel tempo come nello spazio. Fin dalle prime strisce di Schulz, quando le noccioline erano infanti, lui era già così: triste, incapace, un po’ stupidino eppure sempre desideroso di fare: nello sport, a scuola, nei giochi, negli affetti. Crescendo, non ha imparato nulla, come se non avesse fatto esperienze, non riuscisse a cambiare, a migliorare e neppure a peggiorare. Lucy gli sfila il pallone e lui cade; lancia la palla da baseball e gli ritorna tanto forte da farlo volare mandando all’aria cappello e vestiti; tira l’aquilone e finisce imbrigliato fra i rami di un albero; cerca di parlare con la ragazzina dai capelli rossi ma si vergogna. Sempre così, sempre lo stesso. Non si cambia nemmeno la maglia gialla con gli zig zag neri (adesso un must del prêt-à-porter). Non impara mai, né dalle situazioni né dalle relazioni sociali. Se gli altri bambini, animali compresi, cambiano a seconda dei contesti, dei rapporti amicali o istituzionali, degli ambienti e dei periodi (Snoopy ha mille avatar; Piperita è una specie di dottor Jekyll e mister Hyde; perfino Lucy ha i suoi momenti di debolezza), lui no, mai. È proprio il classico flat character, personaggio immutabile, antinarrativo malgré lui. Charlie Brown, come ripete egli stesso, non sa vivere nemmeno alla giornata: semmai alla mezza giornata: che è quanto dire. Perfino l’appellativo non subisce modifiche: viene chiamato per nome e cognome, l’unico, e sempre, da chiunque.
Per questo, senza dubbio, le storie dei Peanuts lo vedono sicuro protagonista: portano il suo nome (e cognome). La forza del suo carattere, potremmo dire, sta proprio nella sua debolezza; è il tipico don Abbondio che, per cattiveria della Storia, vince lui. O no: forse la sua forza psicologica (e dunque simbolica, mitica) sta in qualcosa di più grave e più profondo. Sta nell’assenza di senso, nell’insignificanza, nella neutralità. Roland Barthes, che non leggeva fumetti, se l’avesse conosciuto l’avrebbe apprezzato: Charlie Brown è l’incarnazione esemplare di quello che il critico francese chiamava il Neutro: la cancellazione del senso da cui tutto può accadere. Il grado zero. La pienezza del vuoto: quella che François Jullien, pensando alla Cina antica, chiamava fadeur, lo scialbo, l’insapore che, come l’acqua, contiene in sé tutti i sapori. Ancora: l’indifferente proustiano che, non avendo posizione, ne può prendere qualsiasi. Immobile, tetragono, ostinato, Charlie Brown è un formidabile generatore di storie, di passioni, di contesti: da cui la fortuna sua di tutte le strisce di quell’asso della matita che era Charles M. Schulz. Quel bambino dalla testa rotonda che s’è inventato chissà come è sempre stato – e sempre sarà – un rivoluzionario in pectore: altro che rappresentate in miniatura dell’american way of life.
Lucy | Bianca Terracciano
Lucille van Pelt è la capostipite delle api regine dell’immaginario mediatico americano, delle cattive ragazze a capo della cricca scolastica, capaci di distruggere la reputazione di chi prendono di mira. Se Lucy fosse adulta e patentata, sarebbe tra coloro che, passando su una pozzanghera, pigiano sull’acceleratore della macchina sportiva per schizzare il malcapitato di turno.
A Lucy interessa parlare, non ascoltare. Il sistema planetario lucycentrico non prevede che l’attenzione venga prestata gratuitamente, va monetizzata tramite il banchetto di aiuto psichiatrico, dietro cui Lucy siede per dispensare consigli criptici o caustici. Dotata di intelletto superiore, non può abbassarsi a vendere limonata o braccialetti come le sue coetanee, al contrario deve dimostrare di saper applicare il metodo scientifico, il pilastro della sua autostima fondata sul criticismo distruttivo. Alcune trovate sono geniali come il primitivo VAR usato per mostrare a Charlie Brown l’inadeguatezza della sua gamma emotiva. Il bambino prova emozioni da perdente, non regge il confronto con il savoir faire di Lucille, attrice consumata.
Il perfezionismo di Lucy racchiude l’interrogativo che ci poniamo nei momenti di massima sfiducia verso l’alterità, cioè quando ci chiediamo come sarebbe il mondo qualora fosse popolato da nostri cloni, flessibili e lucidi nel ragionamento. Andrebbe meglio, vero? È la Lucytopia, la nostra parte solipsista.
Comparsa sulle tavole di Schulz il 3 marzo 1952, Lucy riscrive l’essere bambina negli anni Cinquanta, propone un nuovo modo di essere e ricalibra le aspirazioni. Sì, sogna di diventare regina – di un popolo e di bellezza – però di quel ruolo le interessa solo il fattore autorità. È tanto proiettata nel futuro che preconizza una donna al comando degli Stati Uniti, anche se, in quanto bambina, prova fastidio perché qualcuno potrebbe precederla e rubarle il primato. La storia non le ha dato ancora ragione e nessuno le vieterebbe di mettersi in corsa e modellare il mondo a sua immagine e somiglianza. Non avrebbe neanche l’imbarazzo di scegliere come farsi chiamare, visto che in inglese il sostantivo president non contempla il genere grammaticale.
Lucy detterebbe legge con il broncio (il “crabby mood”), che non somiglia a quello “snob” di Donald Trump, piuttosto esprime risentimento per il mancato riconoscimento delle sue qualità. Da brava offenditrice seriale, sa di essere sin troppo categorica nei suoi giudizi di valore, e, conscia della sua lontananza dalla perfezione, teme di sbagliare. Ove mai avesse Facebook, Twitter o Mastodon starebbe in continuazione a inveire contro il malcostume e il malgoverno, la tifoseria della squadra avversaria, o i partecipanti a un reality show. Riverserebbe sul metaverso la sua richiesta accorata di attenzione e di riconoscimento sociale, per verificare se il moto di rivoluzione dei pianeti avviene ancora intorno a lei.
Se da dottoressa seduta dietro al banchetto acquisisce potere nella relazione di gerarchia con i suoi “pazienti”, da subordinata e indifesa groupie di Schroeder languisce languida sul pianoforte. Lucy, pur consapevole di essere insignificante dinanzi alla musica e a Beethoven, ascolta Schroeder suonare in posa da “musa”, utilizzando lo spazio non più per dominare, ma per provare a stabilire un legame per cui è disposta a partire in svantaggio. La pars construens le riesce peggio della destruens; poco male, Lucy è resiliente. Per rimettersi in piedi le basta rifugiarsi nella poltrona “Sacco” o abbracciare “un cucciolo caldo” – Snoopy – dispensatore della felicità di cui non riesce a godere.
Replica | Matteo Maculotti
A prima vista sembrerebbe una specie di Linus in miniatura, o meglio una Replica, come l’ha chiamato delusa Lucy, desiderosa di una sorellina. In mancanza di un nome porterà sempre questo nomignolo, e per due decenni sarà solo una rara comparsa, fino allo splendido riscatto finale.
Nella striscia d’esordio Lucy lo porta in giardino a conoscere il mondo, e lui risponde confuso: «Tutto qui?». Nella prima gag ricorrente è bloccato sul sellino posteriore della bicicletta della madre, perennemente ansioso e terrorizzato dagli imprevisti della corsa. Quasi sempre ha lo sguardo rivolto a sinistra, e in effetti già in una delle primissime apparizioni osservava sconsolato: «Ho solo un anno e vivo già nel passato».
I giochi nel tempo libero e l’ingresso alla scuola materna non cancellano questo senso di dipendenza e solitudine, rimarcato dalle tante composizioni asimmetriche, ma aprono anche nuovi spiragli sulla sua personalità. Nascosto sotto il letto per sfuggire alle lezioni, o di fronte alla casa di Charlie Brown per domandargli “in prestito” il suo cane, è evidente che Replica patisce l’esclusione dal mondo dei compagni più grandi, eppure la sua smania di crescere e imparare si direbbe più forte di qualsiasi frustrazione.
Replica è senz’altro più testardo e loquace di Linus. Anche nel parlottare fitto che lo caratterizza, tuttavia, è un po’ come se parlasse sempre da solo. Ora gioca con una palla da basket troppo pesante, e desidera più di ogni cosa un cane che la madre non gli concede. Degno di nota è il suo rapporto con Lucy, che gli insegna a contare e ad allacciare le scarpe mossa da insospettabili premure materne. Ma è nei giochi con Snoopy che emerge il suo lato più spensierato, specie quando arriva il momento di lanciare in aria alla rinfusa le carte, e l’esplosione di gioia rivela una perfetta complicità.
È il più giovane dei Peanuts, e l’unico dei personaggi principali a non varcare la soglia della fanciullezza. Per questo, negli ultimi anni di vita della striscia divenne protagonista in molte situazioni strampalate, inammissibili per i suoi compagni già troppo cresciuti. Qualcuno sostiene che Replica finì per rubare la scena ai suoi fratelli maggiori: un’affermazione esagerata, che però contiene un nucleo di verità. A questo bimbo che fino ad allora era rimasto sempre un po’ in disparte, e con cui Schulz cominciò a immedesimarsi nei panni di un piccolo artista incompreso, sono riservati alcuni dei momenti più ispirati che conducono all’epilogo dell’opera.
Suo è l’intervento finale nella gag del pallone da football: sostituendo Lucy, Replica rompe la continuità aprendo alla dimensione del “chissà” – e di fatto emancipandosi dal destino scritto nel suo nomignolo. Nella vignetta scelta per il commiato sta disegnando l’ennesimo fumetto e dichiara di avere grandi progetti per il futuro. Ora che lo guardo meglio vorrei provare a chiedergli il suo nome. È la fiducia che ripone nel suo genio, credo, a darmi l’impressione che in certi momenti una semplice domanda possa cambiare qualsiasi cosa.