Nelle stanze di Guido Monti

4 Gennaio 2023

Ci sono nella poesia di Guido Monti (Le Stanze, Pequod) alcuni numi tutelari di non secondaria importanza, come Philiph Larkin (citato in esergo con quel suo momento lirico del “pensiero di finestre alte”) o il W. H. Auden che può valere come ideale punto di partenza, da quella invocata “verità vi prego sull’amore”, verso una direzione se non argomentativa certo dialogica, di invito al lettore. Ma questo quadro di riferimenti non mette in dubbio l’originalità del testo.

Quella di Monti è una vita che scorre fra le mani per effetto di un verso lungo e ritmato, si direbbe anapestico, che viene da leggere un po’ velocemente come per apprezzarne l’incalzare, e nuclei di poema in prosa dove la voce si dilata, prende fiato, pronta a ripartire in un risveglio “amoroso”, forse proprio nel senso di una certa poetica degli Anni Settanta che evidentemente non è andata perduta del tutto. L’originalità è nel non abbandonarsi   alla pura circospezione interiore né a quella sorta di storia degli oggetti o della loro risonanza, che sembrerebbero quasi in alternativa contraddistinguere molta poesia contemporanea.

In questi testi si illuminano, a tinte d’acquerello, personaggi enigmatici ma nello stesso tempo assai concreti, come certi bambini ora reali ora quasi fantasmi, immagini che scolorano via persino balbettando, e ancora certi eroi o circostanze omeriche ad essi legati da fili sottili, tanto da costituire forse un unico e fondamentale nucleo dell’agire poetico. Dalle triremi antiche, l’arco voltaico del verso è in grado di generare ad esempio un Enea contemporaneo “con famiglia e salario”, “che di spread finanza sa quel/ che dicono i social fluttuanti”, in un discorso che tuttavia non è mai soltanto metalinguistico. Monti è poeta consapevole degli strumenti che impiega nelle sue marce di avvicinamento, e non di semplice e scolastica – o postmoderna – citazione: come della trenodia per un amico, al cui funerale infine si sottrae, cui chiede dunque “perdono ombra mia dantesca che talvolta mi giri/ d’attorno, se scappai e toccato da debolezza non fui/ al tuo funerale e abbandonai quello studio a spirale/ borgesiana, pozzo di verità vaganti colto forse dal peccato/ di superbia che tu tanto mi insegnasti a ricacciare da ogni mio me”.

I riferimenti sono sottili, se si pensa che il peccato di superbia fu uno di quelli spesso imputati al poeta di Buenos Aires – anche se al contrario un Mario Vargas Llosa, nelle interviste e nei saggi a lui dedicati (ora pubblicati da Le Lettere col titolo Mezzo secolo con Borges), scavò invece nel sentimento – o diremmo passione – opposta, l’umiltà, facendo a suo modo giustizia.  Gli strumenti dunque: possono essere questo Borges appena evocato (e in un testo che si intitola esplicitamente Il mio Borges), oppure il Montale della Suonatina, ma senza calchi stilistici, senza angoscia dell’influenza: propriamente “strumenti”.

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Strumenti umani, come ci ha insegnato e si direbbe gli ha insegnato Vittorio Sereni – la cui portata chiarì egli stesso in un’intervista che ci è stata restituita di recente dalla curatela di Chiara Fenoglio al suo libro maggiore (Gli strumenti umani, Il Saggiatore), oseremmo dire eponimo: “Penso, semmai, agli strumenti come ai mezzi o agli espedienti con cui un uomo affronta il reale. Non vorrei sottolineare troppo l’aggettivo “umani”, non vorrei dargli un’intonazione patetica […] ma, semmai, un’espressione più – come dire? – limitativa ed anche amara, al tempo stesso sottintendendo tutto ciò che gli strumenti umani non riescono a padroneggiare”. 

Così Monti, che col suo laico discorrere, spinge il verso alla soglia dello scherzo appunto montaliano sul “genere leggero” della Suonatina, sul “minuetto approssimativo/che si disciolga in arabeschi d’oro” risolto, riletto, in una quasi sommessa prosa, a un grado zero del colloquiale: “Io che credevo che la pianista di Montale non esistesse più/ ed invece l’ho rivista in te, tu torni a rivestirla”.  O in più decisa oltranza, penso ai versi conclusivi di Se ti imbatti in un prete vestito di nero, dove qualcuno o qualcosa è “appeso/ al tempo che gira nel muro e che tutto di noi/ svuoterà, anche questa laica certezza, blasfema/ però, per questa città dove se t’imbatti in un prete/ vestito di nero non sai mai dove il suo sguardo ti porterà”.

Siamo a un fluire di discorso in continua presa diretta fra persone o cose che anch’esse in fondo fungono da strumenti, un passo dialogico che si rivolge ad amici, bambini (figli forse) che lasciano intravedere quel lettore ideale stendhalianamente “benevolo”, avvinto a un’idea di “vero” inteso infine come affermazione: quella di chi alla scrivania di fronte al mare trasforma se stesso e la propria forse conquistata o casuale solitudine davanti alla natura, non nel senso stretto del paesaggio ma proprio, nel componimento che ha per titolo Prologo poetico”, in “quella strana cosa leopardiana”.

Qui il poeta diviene, come incantato, una sorta di marinaio allo specchio, e anche il dialogo si converte forse definitivamente in monologo, nella resa quasi infantile all’istanza del significante: “Ora che seggo su questa sediola/ davanti all’Adriatico piatto e che vedo a due a due/ filare le onde, come a far d’armonica a questa mia voce/ sì le onde che a due a due, vanno e vengono, vengono/ e vanno, le onde”.

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