New York città aperta

17 Luglio 2013

All'uscita di Modern Vampires of the city, il nuovo disco dei Vampire Weekend – un gruppo indie-pop statunitense che va oggi per la maggiore e che potrebbe essere definito post-world music, se esistesse il genere – sono stati diffusi in rete un paio di singoli sotto forma di raffinati video musicali. Uno dei due video, Step, è un omaggio piuttosto riuscito a New York, la città d'origine della band. Il video è molto bello ed è coerente con la copertina del disco, una foto aerea in bianco e nero di Manhattan avvolta da una foschia mattutina. Ricorda vagamente la copertina di Underworld di Don De Lillo, ma senza Torri Gemelle che scompaiono nella nebbia.

 

 

Il video, girato totalmente in un bianco e nero così poco contrastato che a dominare sono una varietà infinita di grigi, racconta una giornata a New York da mattina a sera, mentre il testo della canzone compare a caratteri bianchi e cubitali sulla superficie delle immagini con il procedere della musica. La scelta delle immagini, la maggior parte fisse, altre in movimento, è talmente riuscita da non richiedere alcuna didascalia o allusione stereotipata: non compare la Statua della libertà, né l'Empire State Building, né il rettangolo di Central Park, né una Grande Mela e neppure un “I love NY” con il grande cuore, ma scorci della città ben riconoscibili e tuttavia inusuali: i ponti sul fiume Hudson e la funivia per Roosvelt Island, Washington Square, le metropolitane che si affacciano in superficie, la facciata in stile neoclassico della Public Library e quella del Moma, il traffico delle macchine e gli incroci popolati dai pedoni, le vetrine di un barbiere, l'insegna di un ristorante, le scale antincendio fuori dai palazzi, operai in strada per lavori di manutenzioni e arrampicati sui ponteggi per pulire le vetrate degli uffici, l'Apple Center e Wall Street. E infine lo skyline di New York la sera, illuminato dalle luci, in una citazione quasi spudorata del finale di Manhattan di Woody Allen. Chiunque abbia visto il film, o qualsiasi altro film su New York, o abbia letto un romanzo ambientato in questa città è immediatamente chiamato a riconoscerla. Anche il bianco e nero del video contribuiscono a quell'effetto sentimentale nostalgico che provoca in chi guarda una inevitabile partecipazione emotiva. Il video di Step dei Vampire Weekend è una sintesi perfetta della città e, soprattutto, la conferma che New York è una categoria universale dell'immaginario.

 

New York è una città “sospesa”, si direbbe, all'entrata degli Usa: la meno americana delle città statunitensi e al tempo stesso la più importante, la capitale del mondo e, in realtà, la capitale formalmente di nessuno (ma del resto è la capitale mondiale dell'economia capitalista). Una città relativamente giovane, il primo insediamento europeo è dell'inizio del 1600, che ha il “nuovo” nel nome e che è stata costruita dall'emigrazione globale, da milioni di individui che l'hanno raggiunta, scelta o attraversata, definita in appena un secolo di esodo di massa che ne fa, oggi, la città più meticcia del globo, la più variegata per popolazione. Più che città “sospesa”, e “in sospeso” di giudizio, New York è una “città aperta”: aperta verso l'esterno come testimonia l'epopea di Ellis Island, l'insieme dei racconti collettivi e documenti storici di centinaia di migliaia di emigrati che sono passati in quarantena sull'isola che fronteggia la città. La signora di Ellis Island di Mimmo Gangemi (Einaudi 2011) è solo l'ultimo esempio, in ordine di tempo, di cosa è stata questa epopea per l'Italia, uno dei maggiori paesi di partenza insieme all'Irlanda. Tra i classici della letteratura di migrazione italiana e irlandese ci sono due romanzi, oggi poco letti, che sono anche due splendidi spaccati della New York negli anni Quaranta: il primo è un romanzo proletario, il Cristo tra i muratori di Pietro Di Donato, scrittore e operaio italo statunitense, una tragedia operaia che ebbe successo all’epoca e che Edward Dmytryk adattò per il cinema; il secondo è Un albero cresce a Brooklyn di Betty Smith, un romanzo di formazione femminile e il racconto della lotta alla povertà di una famiglia irlandese.

 

 

Nonostante una esistenza breve, New York è anche una città densa di storie e di trasformazioni, tanto aperta al cambiamento quanto pronta a pagarne il prezzo con la moneta dell'oblio. New York è una città aperta alla possibilità di interpretarla, di scriverla e di riscriverla: al tempo stesso palinsesto tangibile e metaforico. Tra le più belle guide lette in questi anni, vi è il diario personale, letterario e intimo di uno dei nostri migliori narratori giovani, New York è una finestra senza tende di Paolo Cognetti (Laterza 2010) che è soprattutto un ritratto di Brooklyn, ma anche il racconto della dialettica a distanza e che si incrocia a New York tra Melville e Withman, i padri fondatori della moderna letteratura americana. O ancora, i saggi autobiografici di Jonathan Lethem, Memorie di un artista della delusione (Minimum fax 2007), sono, per buona parte, un racconto della violenza che regnava in città negli anni Settanta (il più bello è, personalmente, la storia della nascita e dell’evoluzione del sistema metropolitano newyorkese).

 

Non esiste città simile che sia stata così raccontata e abbia ispirato così tante opere di finzione. Ecco, New York è un palinsesto, come dice Teju Cole nel suo sorprendente esordio Città aperta, Open city nel titolo originale: “Quel luogo, come d’altronde tutta la città, era un palinsesto scritto, cancellato e poi di nuovo riscritto. Era stato abitato molti prima che Colombo salpasse, prima che Verrazzano ancorasse le sue navi negli stretti, o che il mercante di schiavi Esteban Gòmez, un nero portoghese, risalisse l’Hudson; molti avevano vissuto qui, costruito case, litigato con i loro vicini ben prima che gli olandesi vedessero l’opportunità di fare affari con le pelli e la legna che abbondavano sull’isola e nella sua piacevole baia”.

 

 

Il romanzo di Cole, scrittore, intellettuale e fotografo nigeriano di madre tedesca, non è solo un romanzo sulla città di New York, ma vale come un saggio di filosofia politica sull’oggi, sull’Europa e sull’Africa, nel solco tracciato da Coetzee e Edward Said. Città aperta (pubblicato da Einaudi e tradotto da Gioia Guerzoni) è il racconto degli incontri e delle domande di Julius, un flâneur contemporaneo, che parte dal quartiere universitario di Manhattan, Morningside Heights, per arrivare a Bruxelles alla ricerca delle sue origini, tenendo sempre sullo sfondo della memoria la natale Lagos e le colpe nascoste nel passato. È un romanzo curioso e importante, che non si nega alle grandi questioni del nostro presente (11 settembre e le sue conseguenze, rapporto Occidente-Islam, la violenza dell'economia, una umanità obsoleta e tarata) e che presenta un uomo nuovo e forse avvantaggiato dal suo meticciato nell'esplorare e capire il mondo, non appartenendo a nessuna società specifica ma essendone il prodotto di diverse.

 

 

Cole ha la capacità di sostenere uno sguardo che è contemporaneo sulla città del presente, con un taglio originale, ed è allo stesso tempo profondo: il narratore racconta la città verticalmente confrontandosi con la Storia e ricercando la sua tragedia, proprio come farebbe uno studioso con un palinsesto nel quale anche le cancellature rimangono come traccie, oppure come un archeologo scavando su un antico sito per cercare stratificazioni di civiltà passate. Città aperta è ricco di queste rivelazioni storiche come se emergessero dal racconto della città, dall'urbanistica e dunque dalla pagina scritta: per esempio la vicenda del sanguinario schout olandese Van Tienhoven, il mostro di New Amsterdam (il primo nome della città) che sterminò i nativi indiani Canarsie che vivevano l'attuale Long Island proprio all'inizio del XVII secolo; oppure i più famosi disordini del 1863, raccontati da Scorsese in Gangs of New York, durante i quali vennero linciati migliaia di afroamericani innocenti; e ancora “l'eco secolare della schiavitù a New York” nel racconto della Citibank – banca che ha prosperato sulla tratta di schiavi per Cuba anche quando la schiavitù era stata dichiarata illegale – e nella descrizione del Negro Burial Ground, il cimitero dei neri a pochi passi da Broadway, oggi ricordato da un monumento retorico di prammatica. Questi non sono gli unici sconfinamenti nel dramma della Storia: nel suo romanzo Cole evoca le balene (impossibile non citare Melville guardando quelle acque); ricorda i genocidi e i crimini africani anche distanti dalla sua Nigeria; attraverso l'incontro con un vecchio amico professore accenna ai campi di concentramento per nippo-americani durante la guerra nel Pacifico; ci parla dell'Europa di oggi e di ieri; affronta di petto la guerra al terrorismo degli anni zero. Eppure gli episodi su cui il narratore indugia, sui quali riflette con più forza sono proprio quelli che riguardano la nascita e lo sviluppo della cultura afroamericana.

 

I continui richiami alla questione razziale ricordano in maniera stringente Uomo invisibile di Ralph Ellison, capolavoro della letteratura afroamericana, iniziatore della cosiddetta Harlem Renaissance e influenza politica per generazioni di americani di colore tra cui l'attuale presidente Obama, che l'ha più volte citato nei suoi discorsi. Uomo invisibile è ancora oggi un libro scandaloso sulla condizione di marginalità dei neri americani, insieme romanzo-saggio e romanzo di formazione di un giovane nero, che ha, tra i suoi molti apici memorabili, il racconto di una rivolta contro gli sfratti a Harlem. È una delle descrizioni più vivide della città di New York negli anni quaranta, con i suoi caseggiati aperti e caotici e una vita che veniva trascorsa prevalentemente sulla strada. Tra le molte opere che derivano dal libro di Ellison, vi è uno dei libri meno citati di Toni Morrison, quel Jazz che non è solo a metà tra noir, romanzo storico e omaggio alla musica jazz, ma anche un racconto vivido e riuscito della Harlem del passato, il mondo della comunità di colore com'era prima del racconto di Ellison.

 

 

Ma la cultura di Cole è forse più ibrida e sembra essersi generata da molte influenze, soprattutto alte e europee – basti pensare ai continui rimandi alla pittura (il poeta sordo John Brewster) e alla musica classica (il compositore Gustav Mahler). Ma questa esposizione di fonti, questa sfaccettatura culturale non risponde a uno sfoggio narcisistico, semmai è una spia di come questo scrittore ci proponga una nuova figura di intellettuale in grado di interpretare e raccontare il contemporaneo ormai, inesorabilmente, globalizzato e apparentemente fluidificato.

 

Citta aperta di Teju Cole sembra il contraltare a un altro romanzo che si è affermato, in questi ultimi anni, come racconto della città post-11 settembre. Si tratta del fortunatissimo Molto forte incredibilmente vicino di Jonathan Safran Foer, un commovente viaggio nella città di un bambino con il suo tamburello di latta, Oskar, alla ricerca del padre, vittima degli attentati alle Twin Towers del 2001. Fra gli altri punti di contatto dei due libri c’è il legame con la Seconda Guerra Mondiale, con le tragedie europee ereditate dalla generazione dei nonni, in Cole il racconto della Berlino post-bellica, in Safran Foer quello di Dresda. Eppure queste analogie non avvicinano i due romanzi che sono radicalmente diversi nel modo in cui viene raccontata la città: se Cole riesce, appunto, a fermare il presente come un “fotografo di strada” e allo stesso tempo scavare nell’oblio della memoria collettiva, Foer opta per delle “trovate” postmoderne elementari e scolastiche (il remixaggio de Il tamburo di latta di Grass) che depotenziano verso la trasfigurazione quasi magica della città. Al di là del giudizio sul libro, Molto forte incredibilmente vicino presenta una lettura di New York irrealistica e standardizzata, lontana dagli stereotipi, ma alla ricerca di una consolazione e di una accettazione del trauma e delle conseguenze sulla sua storia.

 

Siamo tutti assolti leggendo Safran Foer, leggendo Cole non possiamo non sentirci tutti colpevoli, o almeno in parte responsabili. La credibilità di Città aperta sta proprio nella sua capacità di rinnovare la storia della città, testimoniando le storie che la abitano e la Storia del passato, con una maggiore consapevolezza del futuro. Senza ieri non ci può essere domani. New York è un palinsesto aperto, nel senso che molti, moltissimi, ne hanno scritto, l'hanno cantata e ne hanno trasformato l'immaginario. L'impressione è che laggiù questo tipo nuovo di intellettuale e di narratore, il Julius/Cole di Città aperta, stia scalzando definitivamente il tardo post-modernista Oskar/Safran Foer. 

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