La spettacolarizzazione del cibo / Nuovi mercati metropolitani e convivialità 2.0

5 Gennaio 2018

Con la valanga globale che ha dissacrato ogni tradizione e l’impoverimento della qualità dei prodotti dovuto a produzioni intensive e modelli di consumo fuori controllo, la generazione postmoderna si trova ad affrontare un drammatico vuoto nostalgico nei confronti della propria infanzia gastronomica, così recente ma ormai parte di un’altra era sociale. 

 

Il cibo è da sempre lo specchio culturale di un popolo e la risposta più immediata a uno dei bisogni primari dell’individuo. Dal rapporto diretto con le risorse del territorio, infatti, nascono piatti immortali che affinano l’identità collettiva di una comunità. Creazioni che i ritmi della modernità industriale prima e post-industriale poi hanno elevato da essenza a desiderio, da sussistenza a nicchia edonistica. Nell’amorfo tessuto metropolitano, in particolar modo, l’intenso profumo d’identità locale emanato da piatti della tradizione contadina e di strada diventa merce preziosa che si arricchisce di nuovi significati sociali. Attraverso la riorganizzazione degli spazi di consumo, anche l’arte culinaria decide di cavalcare prepotentemente la pressione subliminale del biocapitalismo (V. Codeluppi), puntando tutto su emotività individuale e coinvolgimento empatico. Riprodotto e riproposto secondo i canoni dello spettacolo, il cibo della classicità passa dal retroscena dell’ambiente familiare ai riflettori di eventi tematici destrutturati, per poi essere dematerializzato dai flash di instagram e inghiottito da occhi virtuali. E così, nei centri urbani europei, chioschi vintage ammassati l’uno di fianco all’altro sfornano Delikatessen glocali in contesti suggestivi, come ex edifici portuali o vecchi complessi industriali riqualificati.

 

 

Se i non-luoghi classici di cui parla il sociologo francese Marc Augé – aeroporti, supermercati, autostrade – si caratterizzano per l’assenza di una valenza storica e per l’incapacità di sviluppare identità e relazioni, questi nuovi contenitori metropolitani trascendono tale definizione e si travestono da luoghi autentici in cui coltivare emozioni. Non a caso, essi costruiscono la loro anima attraverso simulacri di storie e localismi tipici di luoghi “reali”, nel tentativo di sfuggire, appunto, all’anonimità e all’asetticità del non-luogo. Il risultato è la proliferazione di officine dell’effimero che racchiudono i sapori del mondo e reinventano un presente cosmopolita, spesso a prezzi non proprio popolari. Oltre al gradevole aroma delle cose genuine di una volta e al forte odore di gentrificazione, d’altronde, l’offerta comprende la ghiotta occasione per turisti ed espatriati di dimostrare a sé stessi e al mondo intero il proprio prestigio sociale e affettivo. Un’esperienza prettamente figurativa che mantiene la promessa di colmare quel vuoto identitario – tipico delle metropoli contemporanee – attraverso la messa in scena di riti e rituali che riesumano un calore familiare ormai smarrito. Ecco allora che l’arancino dello stand siciliano al Mercato Metropolitano di Londra assurge a simbolo paradossale per l’hipster in fuga da quella provincialità che, se riproposta con filtri stilistici appropriati, può essere sbandierata come autorevole vessillo nella lotta per corroborare la propria distinzione.

 

 

Al contempo, per emanciparsi dal passato, gli sarà sufficiente spostarsi di qualche metro, degustare gourmet dal carattere esotico e candidarsi, così, ad esperto cittadino del mondo. Si può qui osservare la transitorietà in divenire dell’homo mobilis (G. Amar) che, emulando figurativamente il migrante descritto da Augé, taglia i ponti con il luogo di provenienza e s’imbarca senza identità verso qualcosa che non raggiungerà mai. Un nomadismo identitario, insomma, che svela il bisogno di riscrivere le proprie origini rendendole mitiche e, parallelamente, di fluttuare tra culture diverse con leggerezza e disincanto.

 

La spettacolarizzazione del cibo si svolge in teatri che esaltano al massimo quel romanticismo dei mercati rionali, ripuliti però da tutte le loro imperfezioni boccaccesche e re-settati a favore della convivialità 2.0.

È questa l’atmosfera che si respira, ad esempio, al Markthalle Neun di Berlino in cui si passa, senza soluzione di continuità, dall’angolo della pasta fresca emiliana al Ramen giapponese, fino alla brasserie biologica parigina invasa dai fumi del BBQ messicano.

 

 

Un labirinto multiculturale in cui il design è l’unico vero Leitmotiv: chioschi e banchetti in materiali grezzi come ferro e legno, mattoni a faccia vista, caratteri tipografici rustici, Apecar e furgoncini Anni Sessanta che rievocano aneddoti che la maggior parte dei presenti non ha mai realmente vissuto. In questo non-luogo farcito di capitale emozionale, i piatti proposti drammatizzano il folklore delle osterie di passaggio e appaiono esteticamente impeccabili a discapito del gusto che, in questo spettacolo grottesco, non va oltre al ruolo di comparsa. Il palinsesto culinario raggiunge l’apice con i festival monotematici dedicati a cucine remote e affascinanti, come il “Georgien Spezial” dedicato alle prelibatezze georgiane. L’intensità spettacolare del festival, dal latino giorno di festa, è un format che ben si sposa con un’altra caratteristica della contemporaneità, ovvero la natura ludica ed edonica di un consumo esperienziale che rivela il piano di adolescenza infinita dell’odierno puer aeternus (M. Maffesoli). Il tutto a garanzia del sentimento inedito di essere sospesi nel tempo e nello spazio, di essere ovunque e da nessuna parte, pellegrini globali all’avanscoperta d’identità autoctone attraverso la sollecitazione della propria memoria gustativa. Poco importa se reale, o genuinamente fittizia. 

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