Speciale

Pantani di Marco Martinelli

8 Aprile 2014

Salgo
Cerco la strada e salgo
Salgo sulla Montagna
Abeti verdi
Sfondo oro del cielo
Salgo
A fatica salgo
Salgo come un falco
Come una tempesta
Attorno alla Montagna
Nuvole scure e pioggia
Cielo violaceo
Fondale
Strisce azzurrine e porpora
Salgo
Rosso di ferite
Salgo
Salgo verso l’alto
Verso cime innevate
Alte solitudini
Sempre più in alto
Sempre più a fatica
Sempre più solo
Salgo
Montagna che mi guardi
Gola scorticata del Mondo
Nell’aria
Non so qual lungo canto
Salgo
Montagna che mi ignori
Salgo sulle tue vene
Sulla tua pelle di roccia
Sulla tua carne dura
Affaticato e stanco
Nell’aria
Nel vento che mi respinge
Una curva dopo l’altra
Bestia braccata
Salgo
Nell’aria
Quel grido
La massa che mi dà la caccia
Quel grido selvaggio
Che avanza
Lo strepito
Che fa rimbombare la terra
Salgo
Alle mie spalle
Latrano
Mute di cani rabbiosi
Sono legione
Latrano mostruosi
Latrano senza fine
Non mi volto
Non li vedo
Rimbombano nella testa
BA BA BA BA
Nella mia testa di cinghiale
BA BA BA BA
Inferno di ululati
Rimbombano nella testa
Non mi volto
Forse mi prenderanno
Mi azzanneranno
Forse cadrò a terra
Prima dell’ultimo tornante
Il vento mi scortica la pelle
La Montagna mi attende.

Il Coro della salita è il secondo dei sette cori che scandiscono il Pantani di Marco Martinelli. Il testo dello spettacolo delle Albe di Ravenna, andato in scena per la prima volta nel novembre del 2012, è ora pubblicato da Sossella in una nuova collana teatrale curata da Jacopo Gassman. Il volume esce in coincidenza con il decimo anniversario della morte del ciclista. Ma non ha nulla dell’instant book  e tanto meno dello spettacolo d’occasione che, una volta passata l’ubriacatura delle celebrazioni, va a finire in archivi polverosi o fra le cose inutili accatastate sulla luna. Ha piuttosto l’urgenza delle rappresentazioni verosimili che, secondo Aristotele, animano la tragedia, e la fanno essere qualcosa di diverso da una pagina di storia. Pantani  è una veglia funebre per un eroe dello sport realmente esistito e molto amato; e nello stesso tempo intende ripercorrere con la puntigliosità dello storico una vicenda giudiziaria poco chiara; ma è anche il tentativo di raccontare l’umiliazione mortale che una società da decenni narcotizzata dal brusio ipnotizzante dei venditori di sogni di plastica ha inflitto, con superficialità disumana, a un giovane caparbio e di immenso talento sportivo. È la tragedia sull’ipocrisia di un sistema che, cinicamente, pur di vendere persino il nulla, si prende gioco anche di sogni e di miti, incorona eroi e poi li distrugge come fossero merce da vendere in fretta e  rimpiazzare.

Il Coro della salita è un esempio di come il teatro riesca a produrre pagine di intensa poesia. Il ritmo è scandito da versi brevi che ritornano come le  pedalate sofferte del ciclista che vuole conquistare la vetta della montagna, con antagonista la natura: la tempesta, la neve, la gola scorticata, il vento. Poi il ritmo dei versi si fa concitato e l’impresa diventa una fuga angosciata dal gruppo di inseguitori, non ciclisti rivali , ma muta di cani rabbiosi che latrano. Una fuga caparbia, in solitaria, contro tutti, contro le voci ossessive, le chiacchiere, le accuse. Il ciclista assume le sembianze di un cinghiale, animale mitologico, forte, notturno, caparbio, che quando è attaccato diventa furibondo, violento, e si difende a testa bassa. Il latrato  trova una concreta materializzazione in una onomatopea che riproduce non il ringhio di un cane, ma le chiacchiere ossessive, criminali della folla («BA BA BA BA»). Il canto qui da inno epico allo scalatore diventa prefigurazione del destino che aspetta Pantani: eroe per alcuni anni del ciclismo mondiale, e poi morto,  solo, in un alberghetto di Rimini, in un giorno di febbraio del 2004.

Nella rappresentazione, il palcoscenico si trasforma in un luogo familiare, raccolto, un “giardino aperto per coloro che l’hanno amato”, come si dice in apertura citando un verso di Prévert. In questo luogo, dichiaratamente di parte, in cui si celebra l’elegia funebre, nove attori delle Albe danno corpo e voce a un giornalista francese, ai genitori di Marco, alla sorella, a compagni  di squadra, a politici e dottori, ad amici e nemici, e ripercorrono anche con l’aiuto di immagini proiettate su un grande schermo, la vita del campione, il suo amore per la bicicletta, le prime gare, gli incidenti che hanno segnato la sua carriera, le imprese epiche del Tour e del Giro, fino al passo più alto, impervio e drammatico: il controllo dell’ematocrito a Madonna di Campiglio, nel 1999. La storia è nota, così come sono note le ombre che circondano la correttezza di quel controllo e la sua attendibilità scientifica. Da lì l’ultima discesa, questa volta non spericolata e vincente come quelle a cui aveva abituato i suoi tifosi, sdraiato sulla bicicletta con la pancia appoggiata al sellino, ai novanta all’ora; ma una discesa angosciante, tragica,  forsennata, fra cocaina e allucinazioni.
 
Dello spettacolo, della bravura degli attori, da Ermanna Montanari a Luigi Dadina, hanno scritto in molti, ancor prima che Pantani vincesse il premio Ubu 2013 per la drammaturgia. Di recente Gerardo Guccini ha curato un ricco Dossier Pantani sulla rivista “Culture teatrali” (22, 2013) in cui sono raccolte molte importanti recensioni, insieme a una lunga intervista a Martinelli e a un bel saggio dello stesso Guccini intitolato “Una tragedia per l’Italia di Oggi: scrittura, realtà, destino nel teatro di Martinelli”, che entra con competenza nella poetica delle Albe e nelle nuove modalità di scrittura a cui è approdato il drammaturgo della compagnia. Anche sulla storia di Pantani, sulle presunte irregolarità nei controlli antidoping, sulle circostanze non chiare della morte sono stati  scritti molti libri, spesso rigorosamente documentati e quasi sempre dettati da passione e affetto: da Gli ultimi giorni di Marco Pantani  (Rizzoli, 2008) scritto dal giornalista Philippe Brunel, fino a Pantani era un Dio di Marco Pastonesi (66thand2nd, 2013).

L’autore ricostruisce la carriera di Pantani con una serie di testimonianze di persone che gli sono state vicine (gregari, dirigenti sportivi, giornalisti), e con alcuni ritratti brevi e magnifici di vecchi eroi della bicicletta che aiutano a meglio comprendere lo spirito di Pantani. Sono i suoi antenati, gli appartenenti alla setta degli scalatori: “Una specie, una tribù. Una razza. Pesi mosca e piuma. Pulci e aquile, camosci e stambecchi (…). Gli scalatori non sono persone banali. Sono uomini aeronautici (…). Sono sherpa a due ruote (…). Hanno il dono della leggerezza, il dovere dell’agilità, il potere della volatilità (…). Gli scalatori sono sacerdoti. Le loro non sono salite, ma ascensioni. Più in alto vanno, più si trasformano in spiriti. Spiriti santi, quando il ciclismo è respirato come una religione. E sono anime solitarie, mistiche, sofferenti fino al dolore, disposte all’agonia, votate all’apnea (…) gli scalatori sono uomini soli”.

 

Fra gli antenati Pastonesi ricorda lo spagnolo Bahamontes, lo “scavalcamontagne”, che dopo aver raggiunto, grazie a una fuga folle, la cima del Galibier al Tour, scende dalla bici, si siede su un muretto, si fa dare un gelato da uno spettatore e aspetta l’arrivo del gruppo; o il lussemburghese Charly Gaul, imprevedibile, umorale, con le gambe che “giravano a una tale velocità che avrebbero potuto spezzare il cuore”, e capace di staccare di 7 minuti il primo degli inseguitori sul Bondone al Giro del 1956 (da 192 a 1300 metri in 16 Km.), con il termometro che segnava meno quattro gradi, e lui vestito con una maglietta dalle maniche corte. All’arrivo la maglietta congelatagli addosso fu tagliata con le forbici, e lui fu trasportato in albergo e immerso in una vasca di acqua calda per mezz’ora prima che si riprendesse, senza peraltro ricordare nulla di quel che era successo.  

 

Gaul e Bahamontes

Gaul e Bahamontes

Molte sono le pagine epiche, nello stile colorito e aneddotico dei giornalisti del ciclismo. Ma ci sono anche capitoli inquietanti, almeno per chi ama ingenuamente pensare alla gara sportiva come una competizione leale fra pari. In “Doping”, “Conconi”, “Antidoping” si legge di come fra gli anni ottanta e novanta prima l’autoemotrasfusione e poi l’Epo fecero il loro ingresso in pompa magna nello sport, con l’avvallo di scienziati e delle organizzazioni sportive. Di questo scrive Sandro Donati, già allenatore della nazionale di atletica leggera negli anni settanta-ottanta, nel suo libro più recente Lo sport del doping. Chi lo subisce, chi lo combatte (EGA – Edizioni Gruppo Abele, 2012).  Il salto rispetto alle “bombe” di cui parlavano Coppi e Bartali è abissale. Aldo Bini, gregario di Bartali, racconta di avere aiutato il suo capitano a vincere il giro del 1946 “con una bomba particolare confezionata con Coca-Cola, caffè, uova, whisky, cherry, brandy”. Sembrano beveroni artigianali che fanno sorridere se confrontati ai “cambi del sangue” di cui parlava già Alberto Cova , oro a Los Angeles sui 10.000 metri. All’epoca, nel 1980, le autotrasfusioni non erano illegali; lo saranno cinque anni dopo. La pratica, seguita da Francesco Conconi, può forse spiegare come mai d’improvviso il mezzofondo sia diventato una specialità italiana capace di conquistare tanti allori internazionali. Si continua poi con la somministrazione sistematica dell’Epo il cui luminare, sperimentatore e anche controllore è sempre l’ex rettore dell’Università di Ferrara. Il libro di Pastonesi riporta dati di analisi del sangue archiviati nei file del computer di Conconi e sequestrati dai Nas, relativi a ciclisti seguiti dal professore, fra cui Pantani. Oltre a questi, leggiamo le motivazioni di sentenze del giudice Franca Oliva nel processo per frode sportiva contro Conconi nel 2003, e i dati resi pubblici dal Senato francese nel 2013  su controlli retroattivi su referti del Tour degli anni novanta. Da tutte queste carte risulta come l’assunzione di Epo fosse pratica diffusa. Niente di nuovo. Ma non è questo il centro del problema. D’altronde Pantani in una intervista alla “Gazzetta dello Sport” è piuttosto esplicito: “Sul doping la mia posizione è presto detta: sono disposto ad accettare qualsiasi regola, a patto che sia chiara e uguale per tutti (…). Chiunque abbia talento, chiunque abbia interesse nel ciclismo vuole uno sport pulito”.
 
E si torna così al punto di partenza, alla tragedia, come genere letterario e teatrale, che non vuole essere solo una biografia, il capitolo di un libro di storia, ma semmai una storia esemplare. È certo importante capire se le analisi di Madonna di Campiglio furono intenzionalmente falsificate per “punire” Pantani che si era messo alla testa delle proteste dei ciclisti contro le ispezioni del Coni, o perché aveva scatenato con le sue vittorie le invidie dei colleghi, o se era stato liquidato in questo modo dal giro delle scommesse clandestine che avevano puntato sulla sua sconfitta. Ma è ancora più importante cogliere il rapporto tra un mondo omertoso e ipocrita e un ragazzo fagocitato da questo mondo e poi da questo mondo messo alla berlina. Di questo, nel dramma di Martinelli, si fa portavoce con forza particolare il coro.  

 

Teatro delle Albe Pantani
 
Nel quarto coro, intitolato “Colpo Grosso: 1994”, anno in cui Pantani ottiene le prime vittorie di tappa al Giro diventando il nuovo eroe dello sport nazionale, si canta di questo mondo falso. Si comincia subito con una dichiarazione che ha l’andamento del jingle pubblicitario, facile e orecchiabile:

I sogni adesso
Non si sognano più
Li puoi trovare già pronti
Te li dà la Tivù

E tra rime sarcastiche e beffarde (Nazione/corruzione; Corrotti/salami cotti; L’uomo dai sogni rosa/l’uomo dalla Messa in Posa; televisioni/elezioni), si parla della scesa in campo di Silvio Berlusconi, che «consiglia agli italiani/e alle italiane/di acquistare il suo Sogno», e che fonda il suo pensiero politico sulla filosofia di un uomo di spettacolo, «teorico di questa novità», ideatore della trasmissione televisiva Colpo grosso, «Umberto Smailà». Qui la scalata non è una lotta con la montagna, fra fatiche e sudori. Basta sognare a occhi aperti:

Arriveremo a Palazzo!
Faremo la scalata! (…)
Colpo grosso è realtà
pensiero e profezia
e la sigla finale
è altissima teoria
un trattato terminale
di necrotica filosofia (…).

Le parole si fanno sempre più di plastica, la cadenza più cantilenante: il coro canta quella “rivoluzione” culturale assumendone il lessico, ma senza mai perdere il tono di sarcastica derisione. C’è in questa rappresentazione la forza retorica dell’ironia corrosiva, una medicina omeopatica con cui Martinelli costruisce in molti suoi spettacoli le invettive a quel modello di società che appare qui come “causa prima” della tragedia di Pantani. Così era stato in Salmagundi, in cui si racconta di un paese, l’Italia del 2094, devastato dall’incompetenza e dall’illusione senza fondamento. Scrive Martinelli in una premessa a quel testo (Editoria & Spettacolo, 2004): “La mia intenzione era quella di inquadrare la stupidità. Provare a metterla in quadro, incorniciarla (…). Non un caso singolo, non l’imbecillità di questo o quel personaggio, ma il dilagare della stupidità di un popolo. Quella stupidità che è la vera, grande, feroce dittatura del nostro tempo, quella forma di paralisi interiore che ci fa tutti “salamgundi”, salami cotti, ululanti in corsa dietro la prima bandiera che sventola."

 



Non c’è da sorprendersi se a Madonna di Campiglio i giornalisti e i benpensanti siano stati altrettanto lesti a cambiare bandiera. Nel damma si ricorda come il direttore della “Gazzetta dello Sport”, Candido Cannavò, passi da articoli in cui Pantani è descritto come «dio del ciclismo» a un titolo a caratteri cubitali che non lascia spazio a incertezze: «Tradimento». Si chiede allora uno dei personaggi del Pantani: «Ma in che mondo è vissuto il Candido direttore fino a quel momento? E perché non mette una parola di dubbio, un “aspettiamo” prima di giudicare?». Nel punto cruciale della ricostruzione narrativa troviamo la parola chiave del testo: «dubbio». Ancora il coro:

C’è qualcosa che non mi torna.
Basti pensare
alla piovra affaristica
che lucra sulle spalle degli atleti.
Basti pensare
alle case farmaceutiche
produttrici di EPO
ai legami
che queste multinazionali
intrecciano con gli ambienti sportivi.
Basti pensare
ai malavitosi arrembanti
che hanno
tra le voci più attive del bilancio
il commercio di sostanze dopanti. (…)
Basti pensare
che pochi mesi prima
per l’ematocrito molto alto
di alcuni calciatori del Parma
si disse che si era trattato
di un guasto dei dispositivi di controllo    
e non se ne fece nulla.

È il coro della città che “dubita” e vuole comprendere;  è il coro-città che prova rispetto per il giovane eroe che si è perso, e disprezzo per chi cambia troppo velocemente bandiera, per chi, come gli ex amici di Giobbe, si trasformano in un «branco» ipocrita che «dilania», «perseguita» e «digrigna i denti» contro l’eroe caduto in disgrazia. E sa che da tanta ipocrisia, a volte, purtroppo, l’unica fuga è l’uscita di scena.

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