Intelletto pubblico e senso della vita / Paolo Virno. L’idea di mondo

15 Maggio 2016

Esiste una certa lettura dell’opera di Gilles Deleuze che consente un aggancio tra la sfera ontologica e quella etica a partire dal non-concetto di immanenza e dal “canone eretico” della storia della filosofia, cui egli si rifà: Spinoza, Bergson, Nietzsche, gli stoici, per citare i più noti. Forse il più grande merito di una simile lettura sta nel fatto che essa rifiuta alla morte il privilegio di donare compiutezza e senso all’esistenza, per soffermarsi invece sull’incompiutezza senza mancanza che fa tutta la potenza di una vita.

 

L’idea di mondo. Intelletto pubblico e uso della vita di Paolo Virno (Quodlibet, Macerata 2015, pp. 187) non condivide con Deleuze alcuna premessa operativa esplicita, eppure sembra ruotare attorno allo stesso intento problematico. Il libro di Virno è composto da tre saggi, due dei quali già pubblicati nel 1994, che afferiscono a “generi” differenti. Il primo è un saggio filosofico stricto sensu; il secondo un trattato politico; e il terzo un programma di lavoro per una filosofia «da fare». Nonostante questo i tre saggi sono inestricabilmente avvinghiati l’uno all’altro, non solo perché ognuno prende l’abbrivio esattamente dal punto in cui quello precedente si interrompe, ma proprio in virtù del fatto che, pur nella loro differenza di genere e d’intenzione, sembrano essere tutti protesi a illuminare con luci diverse la stessa tematica di fondo.

Tutt’altro che eretici, i riferimenti con e contro i quali Virno intesse il suo dialogo filosofico sono Wittgenstein e Kant, identificati come i pensatori della totalità del mondo e del linguaggio. Se totalità rima necessariamente con Dio, con trascendenza o, almeno, con l’ipostasi di un Soggetto cosmoteoretico in grado di vederla e coglierla, Virno però si concentra su quei luoghi del pensiero dei due filosofi in cui essi rapportano tale totalità compiuta con i modi di esistenza di chi vi si trova costretto, nella tensione sempre rinnovata e frustrata di coglierla. 

 

Quale tonalità affettiva connota questi sforzi intellettuali? Nella meraviglia di fronte all’esistenza del linguaggio che nessun metalinguaggio potrà mai esaurire (Wittgenstein), e nell’immaginazione suscitata dal sublime matematico che polverizza i limiti della propria prensione sul mondo, solo per vederseli ricreare un poco più in là (Kant), Virno intravede il fondamentale sentimento di noia di un  regresso all’infinito che ripete senza tregua il proprio gesto immaginario. Parimenti il pericolo senza residui che incute la potenza della natura in ciò che Kant chiama sublime dinamico, non può che ricadere nella disperata ricerca di una sicurezza altrettanto assoluta: ricerca, questa, connotata da un radicale senso d’angoscia. Angoscia solitaria e incondivisibile, come ad esempio vorrebbe Heidegger.

 

Per Virno le tonalità affettive assunte dai nostri pensieri e dalle nostre azioni non vanno ad aggiungersi in modo posticcio all’idea di mondo che possiamo avere, ma ne costituiscono la radice genealogica o la fonte sorgiva. A sua volta la cosmologia non si limita a essere sterile e oziosa rappresentazione, ma rinforza i gesti e retroagisce su coloro che vi dispiegano l’esistenza. Noia e angoscia sono allora i sentimenti fondamentali di chi ancora vive, ma all’Ultimo Giorno del mondo: perché un mondo compiuto è anche un mondo finito.

È a tutto questo che Virno oppone una concezione del mondo immanente che non aspiri a coglierlo come totalità finita, ma che piuttosto – in tutta la sua infinità e indeterminatezza – contestualizzi e sostenga la vita. Ed è proprio il concetto di contesto a istituire una nuova idea di mondo. Il contesto è letteralmente circostante: schivando sempre la frontalità, anche se prospettica, di ogni possibile Vorstellung, esso ha in comune con il colpo d’occhio, o con il fenomeno percettivo della coda dell’occhio, di mancare in ogni caso la “giusta distanza” della rappresentazione, in favore delle sfumature del troppo distante, oppure dell’amorfismo del troppo vicino. Parafrasando Merleau-Ponty, che parlò di una chair du monde, Paolo Virno indica il contesto con il sintagma di Carne del Possibile. «Carne» perché si tratta del modo di darsi sensibile della natura grezza, di una vera e propria pressione aptica sulle sensazioni di chi vive; «Possibile» perché, bucando ogni rappresentazione, non sta ad alcuna realizzazione e continua invece a rovesciarsi in una «inconsumabile virtualità» (p. 56). Questa assoluta dynamis mantiene dunque in sé anche il suo «poter-essere-altrimenti» e, circostanziando dei soggetti, ne permette l’apparizione e l’espressione. 

 

La condizione umana, René Magritte.

 

Come nell’ultimo Barthes l’individuazione si poteva dare solo assieme a una nebulosa di nuances contestuali, e mutava col modificarsi del contesto senza rinchiudersi mai nella presunzione di un soggetto autarchico, così in Virno la prassi “trascendentale” – l’uso della vita che sottende ad ogni specifico contenuto d’azione – è caratterizzato da quella che si potrebbe definire una grammatica preposizionale, dove ad essere prioritarie sono le preposizioni semplici: i “tra”, i “con”, i “da” e i “per” che intessono lo spazio pubblico, perché esse indicano la dischiusura del Comune a partire dalla quale si delineano dei soggetti, i quali non si darebbero senza interrelazione. 

Già Gilbert Simondon mostrava come l’angoscia fosse prodotta da una disparazione inconciliabile di singolarità in perfetta solitudine: non è dunque un’angoscia che si vorrebbe strutturale a renderci soli, bensì la solitudine a renderci angosciati. Ora, caduta la pretesa alla totalità, il tono emotivo che entra in circolo virtuoso con il contesto non può essere la cieca disperazione della caccia a un riparo assoluto – proprio quest’ultimo ingenera terrore –, ma piuttosto una congiunzione solidale nel «non-sentirsi-a-casa-propria» sotto le spinte di una sovrabbondanza di mondo, ma che proprio per le sue caratteristiche apre anche all’agio relativo di un «Essere-con».

 

La condizione umana è dunque quella di una condivisione radicale che è già percorso e sperimentazione, in quanto del tutto inscindibile dai movimenti di una moltitudine da sempre politica e connotata dalla pratica di fenomeni istituzionali. Questi ultimi, lontanissimi dal corpo negativo di un sistema di leggi e norme, nemmeno si lasciano esaurire dalla perfetta calcificazione nel corpo positivo di un’istituzione. Piuttosto, polivalenti e proteiformi, ridisegnano sempre la carta geografica al di là di qualsiasi inscatolamento. Attraverso la comune abitazione dei luoghi comuni si diventa, già da sempre, politici. Questi luoghi comuni che tutti noi frequentiamo incorporano la potenza del pensiero e si identificano con la facoltà di pensare e parlare in contesto. Si arriva alla pubblicità della vita della mente che Virno chiama, con Marx, general intellect. Tale terminologia addita alla potenza di uno spartito bianco in cui ognuno compone, con e davanti al pubblico, una musica comune. Questo esempio che, in fondo, vuole mostrare il continuo rilancio del possibile nell’apertura della sfera pubblica, sta a indicare la «ripetizione etico-politica del contesto sensibile» (p. 111). Un raddoppiamento riflessivo nella prassi, che per questo è già una variazione. A partire da qui e in aperta polemica con le posizioni di Hannah Arendt, Virno ipotizza una nuova alleanza, o quantomeno una porosità, tra le sfere dell’Azione, del Lavoro e dell’Intelletto, incrociantesi nella figura del “virtuoso”, nuovo paradigma dell’agire politico. Il virtuoso è colui la cui opera si genera sempre “a fianco” della sua potenza d’agire, nel momento in cui riesce a far vibrare lo “spartito degli spartiti” che è l’espressione del general intellect e l’affacciarsi alla sfera pubblica. Se la «società postfordista» cerca con ogni mezzo di far sussumere l’Azione dal Lavoro, di salariare e recintare la stessa facoltà d’agire, parlare, pensare; il legame con la pubblicità dell’Intelletto offre all’Azione la possibilità di svincolarsi sempre di nuovo, in quanto radicalmente instatalizzabile, frammentato e condiviso da una moltitudine priva di centro.

 

Quella del virtuoso è una forma d’esistenza connotata dal concetto di uso. Usando di sé il virtuoso è in diretto contatto con la matrice pluripotenziale che permette e al contempo buca ogni precipitato in opera, mostrandone la virtualità. Allo stesso tempo e per la stessa ragione egli non coincide mai con la propria vita, ma piuttosto la ha e vi accade sempre scartando di lato. Lungi dall’essere una constatazione nichilista, sembra piuttosto di vedere qui l’abbozzo di una possibile echologia in rapporto problematico con l’ontologia: l’essere che non è la propria essenza, ma la possiede e ne può fare uso, è anche l’essere che non può esaurirsi teleologicamente in un destino da realizzare, o in una mortalità connaturata. L’uomo è incoincidente con la Carne del Possibile, ma proprio per questo la può abitare e in certo grado manipolare, così come essa non smette di affettarlo e cambiarlo, disponendosi e disponendolo ad usi sempre rinnovati. 

 

Proprio a partire da questo germe di un’echologia ancora tutta da pensare, però, Paolo Virno sembra mettere in crisi alcune delle sue argomentazioni concernenti il linguaggio. Fin dall’inizio del libro ha con tale concetto un rapporto schizofrenico, dal momento che continua ad assegnargli un ruolo di estremo privilegio, per poi decostruirlo, per meglio privilegiarlo altrimenti. Se convince il rapporto che intesse tra idea di mondo contestuale e facoltà di linguaggio, ognuno dei quali trova nell’altro il proprio limite immanente, sembra dato per scontato il fatto che la pubblicità del general intellect si esprima in luoghi linguistici. È anzi lo stesso Virno a suggerire questa critica nel momento in cui adombra una pragmatica linguistica in attiva sinergia con altre pratiche. Verrebbe da chiedere – non certo a Virno che ha il grande merito di permettere alla domanda di sollevarsi, bensì a tutti i pensatori dell’etica e del linguaggio – se non sia possibile immaginare un diverso agencement tra la facoltà e l’uso della lingua, e le restanti prassi della vita, senza ammettere alcuna gerarchia. Non si tratterebbe nemmeno più, quindi, di sostenere un’echologia – ma piuttosto un’echopratica.

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