Parigi: convergenza di rabbie e di lotte

4 Aprile 2023

Insurrezione per motivi meschini

Secondo certa sinistra ben addottrinata, una contestazione radicale di un governo in carica, con tanto di scioperi, blocchi stradali, manifestazioni non autorizzate e altre azioni di disubbidienza civile dovrebbe essere motivata da altissimi e umanistici principi, non certo dall’aumento del prezzo del carburante, in conseguenza per altro di una virtuosa carbon tax. Invece è proprio ciò che ha costituito l’innesco di uno dei più ampi, spontanei e determinati movimenti di contestazione politica del XXI secolo almeno in Europa, ossia il movimento francese dei “gilet gialli”. Non si può parlare di quanto accade oggi, senza ricordarsi di quanto accadeva nelle piazze francesi prima che l’epidemia di Covid-19 congelasse non solo le proteste, ma la vita intera di tutti noi europei. Dal novembre 2018 al giugno 2019, i gilet gialli non cessarono, autorizzati o meno, di protestare contro il governo Macron, sia con grandi manifestazioni a Parigi sia con una moltitudine di azioni sulle rotatorie ovunque nel paese. Le loro rivendicazioni apparentemente meschine e anti-ecologiche si rivelarono rapidamente di tutt’altra natura, riportando la questione dell’eguaglianza sociale e della rappresentanza democratica al centro della scena pubblica, senza ignorare il contesto della crisi climatica, ben percepito come orizzonte ormai ineludibile di ogni controversia politica. 

È indubbio che tale movimento fosse di difficile decifrazione rispetto alle opzioni politiche circolanti: la loro identità di classe era incerta, le loro rivendicazioni contraddittorie, la loro storia politica inesistente: non volevano partiti, né leader, né sindacati alla testa dei loro cortei. Il presidente Macron e il suo governo li hanno considerati subito come una pericolosa anomalia, legittimando un’ondata repressiva senza precedenti, che ha valso alla Francia il monito delle istituzioni internazionali (del Consiglio d’Europa e persino delle Nazioni Unite) per l’uso eccessivo della forza da parte della polizia e per la riduzione abusiva del diritto di manifestare. Dal canto suo, la sinistra – o almeno la sua componente più istituzionale – rivelò (dentro e fuori il paese) il suo lato benpensante e dirigista. Di fronte a una mobilitazione poco controllabile, costituita dai “brutti, sporchi e cattivi” della Francia rurale o periferica, ha preferito l’astratta coerenza dottrinaria e le prove inconfutabili d’appartenenza. Peccato che quella coerenza e quelle prove si traducessero ormai in attitudini catastrofiste e rinunciatarie o, all’opposto, in compromessi politici sempre più al ribasso.   

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Un’incomprensione simile si verifica ora riguardo alla massiccia opposizione contro il nuovo governo Macron, che vuole innalzare l’età pensionabile ai 64 anni dagli attuali 62. In particolar modo, dall’osservatorio italiano ciò appare a molti come un capriccio tipico dei francesi, una forma d’irresponsabile anacronismo di fronte alle serissime questioni di bilancio. Da noi, infatti, il lavoro grosso (e “sporco”) è già stato fatto con la riforma Fornero del 2011, in seno al governo Monti, un governo “tecnico” e “di emergenza”, che doveva salvare i conti pubblici italiani nel contesto della grande crisi finanziaria statunitense, ormai abbattutasi sull’Europa e in particolar modo sulla Grecia. Da noi, insomma, le decisioni d’ordine economico e finanziario dell’esecutivo hanno tagliato corto con i capricci del dibattito politico, mostrando che le crisi prodotte dal capitale nella sua forma deregolata (per decisione politica) saranno risolte con il contributo di tutti i lavoratori (per decisione tecnica, ossia “apolitica”). Nel frattempo, qualcuno si è forse reso conto che esiste una correlazione stretta tra la crisi del 2007 e le ricette tecnocratiche per uscirne negli Stati Uniti e in Europa, da un lato, e la crescita dei populismi di estrema destra in quegli stessi paesi, dall’altro. Da quella data, lo scenario delle decantate democrazie occidentali sembra stretto tra tecnocrazia e populismo, facce di una medesima impasse politica.

Discussione di massa versus monologo tecnocratico

I francesi, giunti alla decima giornata di lotta a livello nazionale (il 28 marzo), si stanno permettendo il lusso d’introdurre nelle due uniche alternative fino ad ora concesse una terza, ossia quella di fare politica secondo uno spirito democratico sancito anche nella carta costituzionale. Fare politica, infatti, non significa (soltanto) formulare delle ricette legislative all’interno di un parlamento, ma anche esprimere in occasioni pubbliche e collettive la propria volontà, in quanto soggetti (studenti, lavoratori, pensionati) direttamente implicati in una decisione che riguarda la vita di tutti, e in particolar modo il rapporto tra i lavoratori attivi e quelli non più attivi, nell’ottica di garantire un sistema previdenziale il più possibile equo. Quello che spesso non è apparso chiaro nei resoconti che i media italiani hanno dato della situazione francese, è che la contestazione attuale non si limita alla semplice difesa dello status quo. I francesi in piazza (dai singoli cittadini a tutti i corpi intermedi fino ai partiti di sinistra), vogliono partecipare alla discussione su una riforma delle pensioni, che è sentita da tutti come necessaria. Semplicemente non vogliono farlo nei tempi e secondo i presupposti dettati dall’esecutivo.

Dopo l’utilizzo da parte del governo dell’articolo 49.3, che impone l’adozione della legge senza voto parlamentare all’Assemblea Nazionale, ogni margine di rettificazione e compromesso con le controparti sindacali è stato cancellato, ma lo stesso dibattito collettivo per una proposta alternativa di riforma non ha ovviamente più senso. Con questo gesto politico Macron e la sua prima ministra hanno gettato nell’insensatezza più di un milione di persone che, mobilitandosi, aveva cominciato a chiedere conto delle decisioni tecniche, entrando nel vivo delle controproposte provenienti dai sindacati e dai partiti di opposizione. 

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Da questione puramente contabile, il finanziamento delle pensioni nelle assemblee sindacali e nei media più militanti è diventato un’occasione per indagare i fondamenti dell’intero sistema pensionistico, i pericoli a cui esso è esposto, ma anche i modelli anacronistici sui quali si è costruito. La riforma di Macron, in effetti, è in linea con un programma che la precede di una trentina d’anni, e che fa parte della più generale controffensiva neoliberistica nei confronti dello Stato sociale. Già da tempo istituzioni internazionali come il Fondo Monetario o la Commissione Europea sostengono la riduzione della pensione pubblica per ripartizione, affinché quest’ultima lasci sempre più spazio alla capitalizzazione individuale, attraverso fondi pensioni o assicurazioni sulla vita. La ripartizione implica un rapporto d’interdipendenza tra attivi e non attivi, tra generazioni diverse, insomma tra membri di una medesima società. È quindi l’idea stessa di una pensione basata su una forma di solidarietà sociale che è messa in questione dal solito credo liberista: il meccanismo previdenziale non può funzionare bene che se ognuno risparmia per se stesso, salvo poi doversi affidare ai processi di finanziarizzazione dei fondi pensionistici e ai rischi che essi incorrono. Lo scontro va quindi ben al di là dell’estensione del periodo contributivo e dell’innalzamento dell’età per ottenere una pensione piena. Esso riguarda la fisionomia di società a cui tale riforma rimanda e al tipo di altre riforme con cui fa sistema, e che hanno immancabilmente come obiettivo di accrescere l’individualizzazione del rischio e l’indebolimento dello Stato sociale. D’altra parte, il modello delle carriere su cui è costruito l’odierno sistema pensionistico è quello basato sulla continuità dell’impiego maschile, che oggi non è più sostenibile in un mondo dove donne e giovani sono sottoposti a carriere frammentate e più corte. Non è un caso, quindi, che l’imposizione della riforma abbia riattivato non solo le rivendicazioni femministe per un’uguaglianza di stipendi, ma anche la critica a una distinzione dei ruoli, che assegna ancora alla donna il difficile cumulo di lavoro salariato e familiare. Quanto ai giovani, si sentono chiamati in causa proprio perché la “flessibilità” del lavoro e lo schiacciamento dei salari a cui sono sottoposti, non permette loro di partecipare in maniera efficace al sistema di ripartizione. Si riconoscono così come doppiamente perdenti, nel presente e nel futuro.

Don’t take it personally

“Non farne una questione personale”, dicono gli anglosassoni, per non personalizzare i conflitti, mettendoli invece in conto a impersonali leggi della competizione sociale. Se qualcuno ti fa un colpo basso in un contesto professionale, non succede perché gli stai antipatico, ma perché “legittimamente” vuole un posto o uno stipendio migliore. È curioso, invece, che i francesi ne facciano davvero una questione personale dell’atteggiamento di Macron nei loro confronti, e colgano nella sua politica un sovrappiù di disprezzo classista indirizzato a semplici cittadini senza arte né parte. Dai gilet gialli era già detestato non solo perché rappresentava gli interessi del padronato, ma anche per il suo specifico stile, per i tratti della personalità che si manifestavano oltre il ruolo istituzionale. Certo, la carica presidenziale del sistema francese facilita questa polarizzazione dello scontento su di una persona singola, ma il presidente attuale vi aggiunge poi un physique du rôle particolarmente adeguato. Egli incarna in modo esemplare l’autismo del tecnocrate, che agisce per il bene del popolo, ossia per le superiori esigenze dell’economia mondializzata, senza dover scendere a patti con l’insipienza di quest’ultimo né con le esigenze di una certa “pace sociale”. A differenza del dirigente populista, non cerca di fomentare emozioni e di situarsi in una prossimità più o meno fittizia con il cittadino. Egli fa valere i principi della ragione economica, dell’efficienza amministrativa, che s’impone al di sopra delle cieche e anacronistiche divisioni ideologiche, ed esibisce senza vergogna una completa mancanza di empatia. Gli effetti di questo stile di governo danno oggi risultati inattesi anche sul campo variegato e frazionato della sinistra: il presidente può felicitarsi di aver compattato come non succedeva da anni il fronte sindacale, e di aver saldato tra loro lotte di lavoratori e studenti in altri momenti sparpagliate. Dalle raffinerie alla raccolta rifiuti, dai licei alle università, dalla sanità alle ferrovie, l’arco delle azioni di lotta è stato quanto mai ampio. Un opinionista televisivo ha voluto precisare che non si trattava, in queste manifestazioni, di una convergenza di lotte, ma di una “convergenza di rabbie”. Di tanto in tanto, anche le voci ultramoderate dei talk-show politici dicono qualcosa di perspicace. 

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Il futuro si declina al plurale

Nell’attuale orizzonte culturale e politico, la struttura d’insieme delle società, ossia ciò che la fa esistere come realtà globale, appare sempre di più come un fantasma, una sorta di ombra impalpabile, in quanto a essa si antepone, nelle rappresentazioni correnti, l’immagine concreta dell’individuo come fonte e destinazione di ogni cosa. Ma nella situazione francese, l’allucinazione ideologica secondo cui “la società non esiste, ma solo gli individui”, è contradetta proprio da questi ultimi, che riconoscono la forza che le loro molteplici appartenenze possono offrire loro. Un giovane da solo non è che carne da cannone per le piattaforme digitali e per il marketing, e tutto ciò che ottiene su quel versante avrà a che fare con eventuali vantaggi legati all’uso qui e ora di un certo prodotto o di una certa risorsa informatica. Il futuro, però, non gli è concesso con la stessa facilità, in quanto esso implica anche un allargamento di orizzonte e la traiettoria individuale finisce per essere percepita come inevitabilmente connessa a traiettorie collettive. Che tipo di lavoro la società ha approntato per me? Che tipo di garanzie per la mia salute e vecchiaia? In che tipo di mondo mi sarà data la possibilità di vivere? Si ridurrà tutto a un gioco tra due grandi squadre: i perdenti e i vincenti, come accade in certe serie televisive tanto apprezzate? Nonostante le stregonerie dell’individualismo contemporaneo, il futuro non può essere immaginato sub specie individui; esso esige un ripopolamento, e persino un ritrovamento di un orizzonte terrestre: né sulla luna né sul Metaverso. In questo senso l’immaginario di un futuro è sempre politico; non si può immaginare fuori da un’organizzazione sociale complessa, avulso da una polis. E l’incertezza di futuro è ciò che caratterizza, nella forma ambivalente della paura e della rabbia, il giovane individuo, ma anche ciò che lo può trasformare in studente, ossia in un membro di un popolo specifico (gli “studenti”) che scende in piazza con i “lavoratori”, altro popolo specifico, ma alleato. Ed è quasi per istinto novecentesco, sedimentato nel corso di tante lotte sociali, che il giovane quando si trova integrato nella tribù degli studenti, e quest’ultima si allea a quella dei lavoratori, può di colpo far paura al potere, e rendere d’un tratto malleabili le istituzioni arbitre dei destini collettivi, che tanto sembravano irrevocabili e anelastiche. Il concorso delle rabbie delle diverse tribù e la paura che generano nella controparte politica – il governo, la presidenza – permettono alle lotte di rivelarsi e di articolarsi progressivamente. Bisognerebbe quindi correggere l’opinionista su di un punto preciso: la convergenza delle lotte non è la stessa cosa che la convergenza delle rabbie, ma quelle non possono esistere senza queste. Solo la rivelazione di uno spazio e un tempo specifici, in cui sofferenze, rabbie e paure possono incontrarsi e riconoscersi, permette di formulare parole d’ordine e proposizioni concrete tipiche della lotta sociale.

Crisi di legittimità e involuzione della democrazia

Macron lo ha detto chiaro e tondo nei primi minuti di un’intervista concessa il 21 marzo scorso: “la folla non ha legittimità di fronte a un popolo che si esprime attraverso le elezioni”. Se chi protesta e sciopera non ha legittimazione per bloccare la riforma, allora la palla passa nel campo della polizia, che dovrà semplicemente gestire uno sfogo illegittimo di malcontento. Oltre al muro tangibile di CRS (celerini) in assetto di guerra, i cittadini in lotta dovranno poi essere confrontati al fuoco di fila “delegittimante” dei media filogovernativi. Quanto agli scioperi, il loro impatto tende, almeno dall’epoca Sarkozy, a essere limitato dagli interventi del prefetto contro i picchetti e dalla garanzia di un “servizio minimo” nei settori più cruciali.

Naturalmente il discorso di Macron ha una sua innegabile coerenza, ma dimentica le condizioni concrete che determinano la sua legittimità politica. Innanzitutto abbiamo un presidente che al primo turno ottiene solo il 27% dei voti, tallonato da due concorrenti, Le Pen e Melanchon che lo seguono di poco. Al secondo turno, vince contro l’estrema destra, godendo di voti che, piuttosto che sostenerlo, vogliono sbarrare la strada a Le Pen. Due mesi dopo, alle elezioni legislative, il suo partito è sanzionato dagli elettori, e perde la maggioranza assoluta in parlamento. Al secondo turno delle legislative più della metà degli elettori non ha votato (53,77%). Malgrado un consenso così fragile, egli non ha esitato a ritenere la contestazione come una semplice minaccia della democrazia, considerandola un fenomeno di ordine pubblico, di cui è la polizia ormai a doversi occupare. 

Le nostre democrazie, però, non si limitano a un’esistenza puramente procedurale, in quanto sono organismi complessi, stratificati e soprattutto prosperano grazie a una specifica “cultura” che le istituzioni fondamentali come la scuola e l’università trasmettono. Ed è per questo motivo che il caso francese è particolarmente significativo, in quanto non c’è forse nazione in Europa che si vanti più della Francia, di essere baluardo dei diritti dell’uomo, oltreché modello di spirito critico e cultura democratica nei confronti degli autoritarismi di ogni colore e latitudine, che minacciano il modello occidentale.

Se in termini di politica interna Macron si situa senza ambiguità nel campo della destra, la sua presidenza non cessa di sbandierare un’indole progressista ed esemplare sul piano della politica estera, usufruendo di un’adesione mediatica vasta e indefettibile. Appena nel mondo non occidentale emergono movimenti di piazza piccoli o grandi contro i governi legittimi (Hong Kong, Iran, Russia, Cina, ecc.), vi è un’immediata condanna della Francia delle azioni repressive che tali governi mettono in atto. D’altra parte, la formazione scolastica dei giovani e delle giovani francesi non fa che elogiare i valori dell’autonomia dei cittadini e l’importanza dello spirito critico, celebrando una storia della democrazia liberale, in cui non sono escluse componenti “progressiste” radicali, a partire da quelle che si sono espresse nella Rivoluzione del 1789, nella storia del movimento operaio e della Resistenza, e persino in certe correnti del Sessantotto non demonizzabili, come il femminismo e il movimento gay. È chiaro, insomma, che esiste una retorica a livello istituzionale, che nutre e diffonde un’immagine della Francia come nazione “democratica” e non certo in un senso esclusivamente procedurale.

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Ora questa immagine è sempre stata insidiata dall’eredità problematica del passato coloniale e dalle discriminazioni sistematiche di cui è oggetto quella parte della popolazione francese che è originaria delle ex colonie. Non è un caso che per anni sono soprattutto i giovani figli d’immigrati africani, studenti, lavoratori o disoccupati, ad aver fatto esperienza di una brutalità poliziesca molto poco “democratica”. La novità, oggi, è che questa brutalità – almeno dal movimento dei gilet gialli – si è generalizzata alla gestione dell’ordine pubblico, ogniqualvolta sia in gioco una contestazione di carattere politico. Anche in questo caso la Francia non è un’eccezione: Seattle 1999 e Genova 2001 stanno a ricordare che la militarizzazione della polizia è un fenomeno non recentissimo in Occidente. Solo la Francia, però, in questi anni ha conosciuto una tale costanza di mobilitazioni antigovernative. Ed è qui, quindi, che la violenza della polizia si è dispiegata nel modo più durevole e in un contesto di omertà giornalistica e mediatica che si è prolungato per tutto il periodo dei gilet gialli. Solo oggi, nel corso di questo nuovo ciclo di proteste, il tabù della formula “violenze poliziesche” (“violences policières”) è caduto, ed essa è pronunciabile in televisione o sui giornali non solo da esponenti dell’“estrema sinistra”.

Il potere politico, maggior responsabile di questa involuzione nella gestione dell’ordine pubblico, enfatizza dal canto suo la violenza dei manifestanti. Questa violenza esiste, anche se è minoritaria, ed è una violenza principalmente diretta contro le cose (vetrine di banche, elementi dell’arredo urbano, ecc.).

Ad essa la polizia risponde con una violenza indiscriminata e sproporzionata sui corpi dei manifestanti, con armi che possono mutilare e accecare (pallottole di caucciù, granate). In tale situazione, e con l’uso delle armi attualmente consentito, il più pacifico dei manifestanti può rischiare un’amputazione della mano, così come il più esagitato – per aver bruciato un contenitore della spazzatura – può rischiare di perdere un occhio. Non si tratta qui di paragonare il caso francese a scenari di repressione in stati democratici dell’America Latina o neppure negli Stati Uniti. Si tratta di capire in quale direzione si sta muovendo uno dei paesi europei che vanta con più sicurezza il suo DNA democratico. E da questo punto di vista il bilancio è tutt’altro che rassicurante. Mentre i turisti annullano viaggi a Parigi, terrorizzati dalle narrazioni internazionali su di una città “messa a ferro e fuoco”, persino negli studi televisivi, in Francia, i giornalisti parlano ormai per prima cosa delle azioni violente della polizia, invece di concentrarsi esclusivamente sulle frange più agitate dei manifestanti. 

La partita che si gioca in queste settimane di scioperi e manifestazioni, sia nelle grandi città che nelle zone rurali – la lotta contro i bacini idrici, che favoriscono i metodi dell’agricoltura industriale oggi in crisi – ha un significato simbolico che travalica i limiti sia delle circostanze politiche che l’hanno fatta nascere, sia i confini della nazione entro i quali si svolge. La “cultura democratica” continuerà a esistere effettivamente nei regimi che definiamo democratici? Questa cultura, infatti, riconosce la possibilità che i cittadini (almeno) siano in grado di porre domande radicali sul vivere civile e di dissentire con le istituzioni che hanno ereditato. I cittadini francesi mostrano di credere ancora nella cultura democratica in cui sono cresciuti, ed è questo che li porta a far emergere una contraddizione maggiore all’interno dell’intera famiglia delle nazioni europee. Com’è possibile, da un lato, delegittimare in modo sempre più violento e sistematico il dissenso sociale nei confronti del nostro modello capitalistico e continuare, dall’altro, a difendere l’idea di una specificità (leggi “superiorità morale”) dei regimi democratici occidentali?

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