Parlando di beni comuni

25 Giugno 2014

Parlando di beni comuni, viene spontaneo chiedersi “comuni a chi”? Qual è la comunità che se ne occupa, che ne decide, che li gestisce?


Se dei beni privati ne godono e se ne occupano i privati, lo Stato è responsabile dei beni pubblici e una definita comunità con specifici requisiti di accesso gestisce costi e vantaggi dei beni di club, come si configura la relazione di una (e quale? definita come?) comunità con i beni comuni? La questione è sempre quella sollevata da Hardin nel famoso articolo The Tragedy of the Commons: se un bene è caratterizzato da un accesso senza limitazioni e da un’elevata rivalità di consumo, non esiste nessun incentivo razionale che spinga a sostenerne e condividerne i costi di gestione.

 

Hardin usa l’esempio di una terra in cui tutta la comunità può portare i propri animali al pascolo – è un bene comune, accessibile (non escludibile) ma si consuma facilmente (ad alta rivalità) se troppi animali pascolano sulla stessa terra. Il singolo pastore, secondo Hardin, ha un elevato incentivo ad aggiungere un animale al suo gregge, perché ne trae un guadagno privato, mentre i costi del consumo del pascolo sono distribuiti su tutta la comunità.

 

Da qui quella che Hardin definisce, appunto, la tragedia dei beni comuni: sono utili a tutti, ma nessuno ha un incentivo razionale a mantenerli. L’articolo di Hardin è del 1968. Fortunatamente, negli anni successivi diversi ricercatori, tra cui il premio Nobel Elinor Ostrom, hanno dimostrato che nella realtà le comunità sono perfettamente in grado di trovare delle modalità effettive ed efficaci di gestione dei beni comuni, che ne salvaguardino l’integrità condividendone i costi di manutenzione.


In questa prospettiva, è evidente che un elemento chiave per la riflessione sui beni comuni è relativo, appunto, alla definizione della comunità, in termini di titolarità (di godimento) e di responsabilità (di manutenzione). La vicenda delle terre comuni in Portogallo è un esempio efficace della questione.

 

Fino alla promulgazione del codice civile della fine del XIX secolo, le terre comuni, in Portogallo, erano di tre tipi: terreni privati ad uso dell’amministrazione comunale, terreni comunali e terreni che appartenevano alla popolazione locale (baldios). Il codice civile, sull’onda della burocratizzazione e razionalizzazione dello Stato, ridefinì i diritti di proprietà e di titolarità precisando i confini delle terre comuni e specificando le caratteristiche di chi poteva usufruirne.

 

Con uno slittamento semantico, le terre comuni divennero comunali e la titolarità venne ridefinita sulla base della residenza all’interno di confini amministrativi specifici. Le terre comuni diventarono, quindi, terre il cui utilizzo è permesso a persone che risiedono all’interno di confini amministrativi definiti e la cui amministrazione è ridefinita all’interno dell’amministrazione dello Stato. In altre parole, con il codice civile la proprietà della terra passò dalle mani della popolazione locale a quelle del comune.

 

La politica di enclosures continuò anche dopo la caduta della monarchia (1910) e il colpo di stato militare (1926) e nel 1966 il diritto di proprietà comune fu espunto dal codice civile: nonostante le proteste e le rivolte delle popolazioni locali, i baldios, vennero inclusi tra le proprietà private dei corpi amministrativi dello stato, anche se alcuni diritti collettivi di utilizzo rimasero attivi.

 

Qualche anno dopo la rivoluzione dei garofani e la fine della dittatura militare (1974), la proprietà comune dei baldios venne riaffermata, se pure solo per quelli che si erano mantenuti fino al 1926 (che non sono pochi, nel Nord del Portogallo si contano oggi circa 820 baldios – come potete leggere nella mappa dei baldios in Portogallo). Di fatto, i baldios rimasti sono perlopiù terre forestali – a seguito della politica di afforestamento dei Commons perseguita dall’Estado Novo e valorizzata oggi dalla comunità europea in relazione alla politica del controllo delle emissioni inquinanti (e delle relative quote).


Il nuovo regime (1976) riconosce tre tipi di proprietà pubblica: gestita dallo Stato, da organizzazioni di lavoratori, o da comunità. Si stabilisce che le comunità locali possono reclamare le terre comuni se si costituiscono in assemblea ed eleggono un consiglio direttivo di cinque membri, che può includere o meno un rappresentante dello Stato.

 

 

Affermare il diritto di proprietà pubblica e le modalità di gestione non è sufficiente, ci sono tutta una serie di regolamenti e leggi che stabiliscono il regime fiscale dei baldios, i rapporti tra la proprietà comune, lo Stato e i privati (particolarmente complessi nei baldios afforestati dallo Stato), i vincoli che le comunità devono osservare nella gestione delle terre comuni, la responsabilità penale e civile, i rapporti tra i confini dei baldios e i confini amministrativi locali – per dire che si tratta di una complessa negoziazione tra diversi regimi di proprietà, titolarità e responsabilità. I mutamenti nelle forme di economia locale, nelle terre interessate, nella popolazione, la complessità di re-instaurare un regime di proprietà comune dopo la dittatura, i significati e le aspettative politiche legate alla gestione comune della terra post-rivoluzione – tutti questi fattori, insieme a molti altri, rendevano la gestione comune delle terre sancita dallo Stato un affare complicato.

 

Contro-intuitivamente, la maggior parte dei baldios sono oggi gestiti da forme ibride di cooperazione tra Stato e comunità locale, invece che dalla popolazione in maniera autonoma -  si tratta di una scelta della comunità che pure, nella maggior parte dei casi, in una recente inchiesta si dichiara non soddisfatta.


In ogni caso, al di là delle questioni gestionali specifiche, la comunità di riferimento è definita sulla base di un rapporto con il territorio. Finché il bene comune è un pascolo, una foresta, un fiume, potrebbe essere una soluzione efficace – anche se, in tempi di mobilità crescente, non tutti i residenti hanno necessità di accedere a quel bene e godere dei suoi benefici, e non tutte le persone che lavorano in un territorio e contribuiscono al suo sviluppo sono residenti.

 

In questa prospettiva, molte riflessioni contemporanee si concentrano sul rapporto tra comunità e bene per ridefinirne titolarità e responsabilità. I beni comuni per come li intende la rete di spazi occupati legati al Teatro Valle, per esempio, sono intesi in chiave di attivazione e non di territorio: un bene è comune se è attivato da una dinamica di relazione – la definizione di bene comune ha, cioè, una dimensione performativa che innesca la ricomposizione di soggettività.

 

In questo senso, non è possibile definire a priori i confini di una comunità, perché questa non esiste di partenza, non ha caratteri stabili, non ha diritti acquisiti su un bene. Il passaggio chiave è quello della volontà di valorizzare l’intenzionalità: la comunità non è tale in virtù di diritti acquisiti, ma per una dinamica di relazione che si crea. In questo senso si porta in primo piano la dimensione della responsabilità collettiva nei confronti di un bene, che sia un bene materiale, immateriale, circoscritto o dai confini indefiniti.

 

E’ chi attiva una dinamica di relazione con il bene, ad esserne responsabile – collettivamente, non individualmente. Idealmente, la comunità di riferimento potrebbe essere infinita. Sotto questa luce non è solo la comunità che si ridefinisce, ma la stessa natura dei beni. In altre parole, un bene non è privato o pubblico per caratteri intrinseci, ma per volontà di chi entra con esso in relazione. Un trapano, per esempio, secondo la teoria economica è un bene privato: è sottraibile (se lo usa il sig. X, non può usarlo la sig.ra Y), ed escludibile (posso, cioè, limitare l’accesso al bene).

 

Ma è appunto scardinando il principio di esclusione che si può incidere sulla natura del bene stesso. Al di là dell’esempio del trapano, chiaramente, si tratta di ragionare sulla possibilità e sugli strumenti attraverso cui ridefinire la natura di un bene. In questa prospettiva non si tratta (o potrebbe non trattarsi, meglio) di definire un bene “comune” sul piano di un principio di giustizia, o di un “assoluto” – si tratta invece di agire sulle condizioni materiali di esistenza, di accesso e di riproducibilità, ragionando sul valore “relativo” del bene. In altre parole, si tratta di ragionare di beni comuni, al plurale, invece che di bene comune al singolare. Per questo, anche per questo, la dimensione della responsabilità e dell’attivazione giocano un ruolo chiave. Si tratta di una prospettiva teorica molto interessante per ragionare di sharing economy e mutualismo.


Rimane aperta la questione della tutela dello Stato, nel caso dei baldios, come nelle riflessioni della rete degli spazi occupati. Lo Stato ha una funzione di traduzione tra diversi regimi di titolarità, responsabilità e proprietà – ma anche, evidentemente, una funzione di terzo, di garante. La funzione del terzo è quella che garantisce, appunto, i termini comuni di una relazione – che siano le regole del gioco, un linguaggio comune o la traducibilità in misura comune di istanze incommensurabili – il principio di terzietà fonda, in ultima analisi, l’autonomia del soggetto di fronte all’arbitrio o a legami particolaristici.

 

Una vasta letteratura scientifica si occupa delle trasformazioni del principio di terzietà in rapporto alle dinamiche del neoliberismo e della diffusione di elementi di “rifeudalizzazione” del diritto.  Allora qual è il ruolo del terzo, e come immaginarlo, in un regime di beni comuni? Solo il pubblico, inteso come Stato, può garantire le condizioni di esistenza di beni comuni? O è possibile pensare a regimi parziali di terzietà? Qual è il rapporto tra inclusi in una comunità (sia pure dai confini indefiniti) ed esclusi? Dove finisce il principio di cittadinanza – inteso come garanzia?

 

Il ragionamento sulla ridefinizione del principio di identificazione di beni comuni fondato sulla dinamica di relazione apre scenari interessanti e innovativi, e, allo stesso tempo, mette in luce numerosi rischi.

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