Complotti veri e falsi, teorie persecutorie, paranoia / A pensar male ci si indovina
Dall'epidemia al marketing
Converso con un giovane somalo che lavora nel campo audio-visivo, un uomo di cultura, e accenno all’epidemia di ebola. Il mio interlocutore fa un gesto che esprime il fastidio di dire cosa ovvia, dato che – mi dice – ormai tutti in Africa lo sanno: che il virus dell’ebola è stato diffuso volutamente in certi paesi africani da “loro”. Chi sono “loro”? La loro identità non è univoca, è allo stesso tempo diffusa e omogenea – il potere euro-americano, idra dalle varie teste. Il “loro” fine è sterminare gli africani. Non perdo tempo a chiedergli perché questi persecutori avrebbero interesse a sterminare gli africani.
Questo pronome personale – “loro” – appare spesso nei discorsi della gente, e, a seconda delle preferenze, questo posto può essere occupato dal governo americano, dalle multinazionali, dalla CIA, dai poteri finanziari e bancari, da poteri politici, dagli ebrei, dai massoni…
Alla fine degli anni ’80 si disse che il virus dell’AIDS era stato prodotto nei laboratori di sperimentazione della CIA, e che per errore (o volutamente?) alcuni esemplari erano fuoriusciti dai laboratori diffondendosi tra la popolazione. Non appena si diffonde un’epidemia, emerge ipso facto una teoria cospiratoria: qualcuno ha progettato e prodotto il contagio. Questo è sempre successo, anche nel lontano passato. Gli untori dei Promessi sposi risalgono al 1630.
A cena parlo con amici colti, tra cui uno scienziato cognitivo prestigioso, specialista dei sistemi complessi. Questo amico aborrisce il film La grande bellezza, e dice che il suo successo è dovuto al marketing delle case produttrici del film. Del resto, aggiunge – riscuotendo l’approvazione di tutti gli intellettuali presenti – i successi cinematografici, musicali o letterari sono tutti prodotti del marketing. La gente crede di gradire un film, in realtà è semplicemente condizionata, come i cani di Pavlov, dal battage pubblicitario (il marketing comprende la pubblicità).
Siccome il mio amico conosce la filosofia, mi permetto di dirgli che certo, per promuovere un’opera, “il marketing è essenziale, ma non è per essenza necessario né sufficiente”. Infatti, ci sono tantissimi esempi di opere che hanno avuto un grande successo anche senza alcuna particolare promozione, in quei casi ha funzionato l’arcaico sistema bocca-a-orecchio. È il caso, ad esempio, del bestseller di Thomas Piketty Il capitalismo nel XXI° secolo, che ha venduto nel mondo oltre un milione e mezzo di copie; questo trionfo non è effetto di un marketing assillante, ma del fatto che era il tipo di libro che l’opinione intellettuale di sinistra, dopo decenni di predominanza del pensiero liberale in economia, aspettava. Quindi, il marketing in molti casi non è necessario. Ma non è nemmeno sufficiente, perché abbiamo tantissimi esempi di opere che hanno fatto flop pur essendo state promosse da un marketing colossale.
Masse pavlovizzate
Sono sempre colpito da una credenza ferma, irremovibile, che caratterizza molti ”intellettuali di sinistra” in Occidente: che la produzione culturale di massa, per sua natura Kitsch, è imposta alla gente dalle industrie di produzione attraverso il marketing e altri sistemi di manipolazione delle menti. Gli untori oggi sono gli industriali della cultura.
Questa quasi onnipotenza attribuita al capitalismo nel persuadere i consumatori contrasta con la visione delle prime generazioni marxiste, che insistevano piuttosto sulle fragilità del capitalismo. Lenin diceva “i capitalisti ci venderanno anche la corda con cui li impiccheremo”. Per loro, il capitalismo era anarchico e cieco, in fin dei conti auto-distruttivo. Da tempo invece prevale un presupposto di onniscienza e invincibilità del capitalismo, per cui oggi si direbbe “i capitalisti ci convinceranno anche a comprare la corda con cui ci impiccheranno”.
In effetti, per l’intellettuale che si auto-definisce “critico” le opere artistiche o saggistiche si dividono in due grandi categorie: o
(a) sono opere che piacciono a me, o
(b) sono opere “commerciali” che a me non piacciono e che però hanno successo di pubblico.
Se appartengono al tipo (a), non ha alcuna importanza che abbiano successo commerciale o meno, quel che conta è che “noi intellettuali” le eleggiamo capolavori. Anzi, un eccessivo successo commerciale getta un’ombra, talvolta fatale, su opere che l’opinione intellettuale in un primo tempo aveva apprezzato. È così che si storce ora il naso di fronte a libri come Il nome della rosa di Eco o Gomorra di Saviano proprio perché hanno riscosso troppo successo.
Se le opere sono del tipo (b), come spiegare allora il fatto che queste, pur non piacendo a me intellettuale critico, piacciano a tante persone, di solito non molto colte? Mi dico: “Non posso ammettere che non ci sia un consenso universale su ciò che è bello, sublime, buono, giusto [per me]. Come è possibile che invece piacciano i reality shows che io detesto? Semplice: perché le folle sono condizionate dal marketing.”
La risposta più ovvia – “i nostri gusti e preferenze dipendono dalla nostra condizione sociale e dalla nostra educazione, dagli stimoli a cui siamo stati esposti, dalla funzione sociale che svolgiamo…” – non viene presa in considerazione, perché si parte dal presupposto che se una cosa è bella e buona per me deve essere bella e buona per chiunque. E se non è così, è perché c’è stata una cospirazione.
Persino illustri professori delle discipline sociali ricorrono a teorie cospiratorie per spiegare il successo di teorie o visioni rivali. Leggo ad esempio un articolo di Le Monde diplomatique nel quale un economista ben noto denuncia il fatto che gli economisti eterodossi (keynesiani o marxisti, critici nei confronti del pensiero iper-liberale) fossero nel 2004 il 18% dei nuovi professori alle facoltà di economia nelle università francesi, mentre nel 2011 il loro tasso è caduto al 5%, a tutto vantaggio degli “ortodossi”, ovvero dei sostenitori dell’economia di libero mercato. Ora, questo declino del potere universitario degli anti-liberali viene spiegato con le strategie universitarie dei professori ortodossi, che sarebbero stati capaci di rizzare un fuoco di sbarramento per impedire ai critici del capitalismo l’accesso alle posizioni universitarie superiori. Eppure processi analoghi si sono svolti in tutto il mondo occidentale, e ben prima che in Francia. A questo commentatore non passa per la mente che l’egemonia universitaria di una certa corrente intellettuale sia in realtà il riflesso diretto e indiretto, semplice e complesso allo stesso tempo, di una egemonia omologa nella società intera. È che il cambiamento generale di mentalità si riverbera, prima o poi, sugli assetti di potere universitario. Altrimenti sarebbe come dire che l’insegnamento della lingua inglese si allarga sempre più nel mondo grazie all’abilità maneggiona dei docenti di inglese in tutti i paesi a scapito dei colleghi che insegnano francese o tedesco.
La grande classica divisione della politica occidentale, quella tra sinistra e destra, rischia quindi di ridursi al confronto tra due teorie cospiratorie. Quella di sinistra vede la storia come una serie di macchinazioni da parte dei “poteri forti”, politici economici e culturali; quella di destra vede la storia attuale come effetto di cospirazioni delle “sinistre” per dominare il mondo moderno. Il cospiratore è sempre “l’altro”, il proprio successo è invece sempre “autentico”.
A. Zannier, I cospiratori.
Cospirare per far credere a una cospirazione
Oggi le spiegazioni cospiratorie sono quasi un’industria, il “complottismo” si riferisce a una cultura di massa planetaria. Internet straripa di video e scritti che tendono a spiegare gli eventi politici attraverso complotti. I più famosi sono i libri e film che rivelano come gli americani abbiano solo fatto finta di arrivare sulla Luna nel 1969, e che gli attacchi dell’11 settembre 2001 siano stati in realtà architettati dal Pentagono e dal presidente George W. Bush. La distruzione delle torri gemelle fu voluta dal governo americano per gettare la colpa sugli islamisti e poter poi invadere l’Afghanistan e l’Iraq. Mi hanno fatto vedere alcuni documentari, lunghi e costosi, che dimostrano, con prove ovviamente inoppugnabili, che le cose andarono proprio così.
Stanno fiorendo tesi complottiste anche sugli eccidi del 13 novembre 2015 a Parigi. Persone coltissime mi assicurano che le forze speciali di polizia sono intervenute al teatro Bataclan con tanto ritardo perché c’erano indubbie connivenze della polizia (e del governo?) con i terroristi.
Prima di parlare di La grande bellezza, avevo parlato col mio amico scienziato proprio delle voci complottiste, e lui le aveva derise. Anche per lui quelle teorie sono spazzatura. Eppure lui stesso, su altri piani, condivide la mentalità degli “ingenui complottisti”. Pensare che ebola sia voluta dal Big Pharma americano segue la stessa logica del pensare che i successi letterari o cinematografici siano dovuti unicamente al marketing. Perché il marketing, anche se non è a rigore un complotto, è comunque uno stratagemma da parte di un centro di potere.
Abbiamo quindi un complottismo “basso” (le leggende metropolitane) e uno “alto” degli intellettuali “critici” (francofortesi, post-moderni, neo-marxisti, neo-populisti). Entrambi furono riassunti nella famosa denuncia da parte di Karl Popper della teoria cospiratoria della società. Scriveva Popper in La società aperta e i suoi nemici:
«La teoria cospirativa della società… risiede nella convinzione che la spiegazione di un fenomeno sociale consista nella scoperta degli uomini o dei gruppi che sono interessati al verificarsi di tale fenomeno (talvolta si tratta di un interesse nascosto che dev’essere prima rivelato) e che hanno progettato e congiurato per promuoverlo. (…) Io non intendo affermare, con questo, che di cospirazioni non ne avvengano mai. Al contrario, esse sono tipici fenomeni sociali. Esse diventano importanti, per esempio, tutte le volte che pervengono al potere persone che credono nella teoria della cospirazione. E persone che credono sinceramente di sapere come si realizza il cielo in terra sono facili quant’altre mai ad adottare la teoria della cospirazione e a impegnarsi in una contro-cospirazione contro inesistenti cospiratori».
E sempre Popper nel 1963 scriveva in Congetture e confutazioni:
«Quando i teorizzatori della cospirazione giungono al potere, essa assume il carattere di una teoria descrivente eventi reali. Per esempio, quando Hitler conquistò il potere, credendo nel mito della cospirazione dei Saggi Anziani di Sion, egli cercò di non essere da meno con la propria contro-cospirazione».
Il complotto a cui Popper si riferisce è il Protocollo dei Saggi di Sion. Dal 1903 in poi, a partire dalla Russia, circolò questo documento in cui si mostrava come gli ebrei stessero progettando il dominio del mondo attraverso il controllo della stampa e dell’economia dei gentili. Da tempo è stato dimostrato che fu scritto da agenti zaristi. Notare che anche se questo testo fu denunciato come contraffazione già nel 1921, esso continuò a circolare nelle varie lingue e fu preso sul serio dagli anti-semiti per molti decenni, Hitler incluso. Quando una leggenda conferma i nostri pregiudizi, resiste cocciutamente a ogni sconfessione fattuale. Ho l’impressione che per la gran massa della gente la storia sia una immensa leggenda metropolitana.
Potremmo creare una nuova leggenda anti-semita: “dimostrare” – ovviamente sempre con prove schiaccianti – che “lo smascheramento” del Protocollo come complotto anti-ebraico fu a sua volta un complotto. Che The Times di Londra, quando nel 1921 denunciò quel libello come falso, fu pagato da ebrei ricchi, magari si mostrerà in modo inoppugnabile che all’epoca uno dei proprietari del Times era ebreo, ecc. Questa tesi sullo smascheramento del complotto potrebbe però essere a sua volta denunciata come un complotto… E così via potenzialmente all’infinito. Le teorie cospiratorie spesso sono come due specchi che si fronteggiano, tendono a una mise en abyme.
Il complottismo è soggetto a una sorta di legge del taglione. È probabile che chi elabora teorie del complotto diverrà oggetto di teorie secondo cui costui complotta. Scriveva Umberto Eco pochi mesi prima della sua scomparsa:
Recentemente ho trovato su Internet anche un sito che attribuisce ogni nefandezza degli ultimi due secoli ai gesuiti. I gesuiti del diciannovesimo secolo, da padre Barruel alla nascita della Civiltà cattolica e ai romanzi di padre Bresciani, sono stati tra i principali ispiratori della teoria del complotto giudaico-massonico, ed era giusto che fossero ripagati della stessa moneta da parte di liberali, mazziniani, massoni e anticlericali, con la teoria appunto del complotto gesuitico, reso popolare non tanto da alcuni pamphlet o da libri famosi, a partire dalle Provinciali di Pascal a Il gesuita moderno di Gioberti o agli scritti di Michelet e Quinet, ma dai romanzi di Eugène Sue, L’ebreo errante e i misteri del popolo.
Reagire a una voce che mi accusa di un aver complottato un misfatto accusando a mia volta altri di aver complottato questo misfatto talvolta può portare a esiti storici per me disastrosi. È il caso di Nerone. Subito dopo l’incendio che distrusse Roma nel 64 d.C. venne lanciata l’accusa contro l’imperatore Nerone di aver fatto incendiare la città – ipotesi che oggi gli storici considerano del tutto inattendibile. La ragione di questa diffamazione era che Nerone era “di sinistra”, diremmo oggi, colpiva i grandi patrimoni aristocratici e cercava di favorire le classi medie e popolari; per secoli gli storici, tutti appartenenti al ceto aristocratico, si sono fatti portavoce della diffamazione contro Nerone. Già all’epoca Nerone era al corrente dell’accusa infamante contro di lui, per cui a sua volta inventò un complotto: accusò i cristiani – all’epoca molto invisi al popolino – di essere loro gli incendiari. Dette alla plebe quel che essa desiderava: massacrare i cristiani. Una manovra complottista che gli ha rovinato la reputazione per circa duemila anni.
Credere ai propri desideri come a realtà
Un’analisi delle leggende metropolitane – che per lo più sono leggende paranoidi – ha portato molti a concludere che le leggende cospiratorie sono strumenti per realizzare consonanza cognitiva. Ovvero, le leggende sono strumenti per riconfermare “la mia visione del mondo”. Quando accade qualcosa che contrasta con la mia visione, anzi, che potrebbe metterla in questione, la leggenda metropolitana rimette tutto a posto.
In effetti, scommetto la testa che tutti quelli convinti del fatto che l’11 settembre sia stato architettato dal governo americano detestino gli Stati Uniti e la loro politica. Per costoro, gli USA sono i carnefici, mai le vittime. Ma cosa pensare del fatto che, una volta tanto, gli americani siano vittime e che i carnefici siano piuttosto coloro che, nel sistema di pensiero anti-americano, occupano il posto delle vittime, ovvero islamici? La leggenda complottista elimina questa cacofonica stecca del senso: si dimostrerà che gli americani restano in quell’occasione carnefici, anche se di se stessi. Si potrebbe dimostrare che tutti i rumors, le leggende metropolitane, non fanno altro che riaffermare la visione del mondo di chi ci crede e la propaga. Ad esempio, il giovane somalo di cui parlavo vive in un universo molto semplice in cui l’item “africani” è sempre posizionato nella casella “vittime di ‘loro’”. Quindi, anche quando per puro caso vien fuori per mutazione genetica EBOV, ebola virus, questo disastro deve avere un fine politico. La posizione degli africani come vittime dei potenti va riconfermata al più presto.
Le persone da me incontrate che insinuano una complicità tra forze dell’ordine francesi (e quindi del governo di Hollande) con i terroristi del 13 novembre sono tutte radicals per i quali lo stato, il potere politico, è cattivo per definizione: se qualcosa di malvagio accade, il Potere deve esserne se non artefice almeno complice.
Quindi, le leggende metropolitane sono un formidabile strumento affabulatorio per evitare il confronto critico con la realtà. È uno scudo a un tempo passionale e cognitivo contro tutto ciò che non rientra nel sistema – più o meno strutturato – con cui ciascuno interpreta il mondo. E che non va scosso da alcun contro-fatto. Le teorie cospiratorie sono una riduzione violenta, direi terrorista, di complessità.
Ma la consonanza cognitiva è parte di un processo più vasto, il wishful thinking.
Nel 2001, dopo la vittoria delle destre alle elezioni politiche in Italia, si diffuse la voce secondo cui Berlusconi era malato di cancro in fase terminale, e che sarebbe morto da lì a qualche mese. Era evidentemente una bufala. Berlusconi in effetti era stato malato di cancro alla prostata, ma ne era anche guarito. Ho bisogno di aggiungere che tutti quelli che diffondevano – certo in buona fede – quella voce erano contro Berlusconi?
Le leggende metropolitane sono quindi un modo di rendere realtà i propri desideri. Freud aveva detto che i sogni vanno tutti interpretati come soddisfazione immaginaria di desideri. Le leggende metropolitane – comprese quelle sui complotti – sono sogni collettivi. E tante nostre convinzioni politiche “are such stuff as dreams are made on, and our little life is rounded with a sleep.”.
Ma sorge la domanda cruciale. Come distinguere le becere leggende dal sospetto fondato? In effetti, quel che rende complicata la critica delle teorie complottiste, sia delle ingenue che di quelle più sofisticate, è il fatto che – come riconosceva Popper – davvero nella storia avvengono molti complotti; così come davvero il marketing per lo più è indispensabile per assicurare il successo a certe opere. Ci sono casi inquietanti, per i quali si è tentati di dar ragione ai complottisti più sempliciotti. “A pensar male degli altri è peccato, ma spesso ci si indovina”.
La cultura prezzolata
Ho quasi vergogna nell’aver scritto tutto questo. Mi sembra di essere un maestro elementare che spiega l’ABC a degli adulti. Ma d’altro canto so anche che quel che dico non sarà condiviso da molti. L’idea che gran parte di quel che avviene nel mondo sia effetto di manipolazioni e macchinazioni appare molto più convincente di tutto quello che posso dire qui. Il cospirativista di oggi non è molto diverso da certe popolazioni un tempo chiamate primitive, nelle quali, se qualche parente muore, anche a 80 anni, è perché è stato vittima di magia nera. Non è ammessa l’idea di morte naturale; bisognerà quindi mettersi alla ricerca dell’assassino. Del resto il termine greco antico aitión significava sia causa che colpa: la causa di una morte è sempre per colpa. E questa pulsione a trovare la causa colpevole anima sia le persone colte che quelle meno colte.
Tra gli intellettuali di sinistra la denuncia del “complotto” in senso ampio rientra in una generale critica della società attuale, o meglio, dei poteri che – secondo loro – controllano la nostra società. Inclusi i poteri culturali (grandi case editrici, produttori di spettacoli). In realtà, quando una casa editrice o produttrice decide di investire molto nella promozione di un’opera, per ché vorrebbe imporre il successo di quest’opera piuttosto che di un’altra? Per molti anni le grandi corporations cinematografiche hanno prodotto film guevaristi perché erano quelli a fare soldi. Un’azienda cultura decide di promuovere una certa opera proprio perché pensa che possa riscuotere successo. Il paradosso è che investo danaro su un’opera perché penso che rischi di avere successo anche senza i miei investimenti.
Ora, per tanti intellettuali critici tutto ciò che loro apprezzano non è mai effetto di marketing o di congiure. Ad esempio, in Occidente l’omosessualità oggi è molto più tollerata e accettata dalla gente, e questo grazie anche ai tantissimi film, romanzi, serials, ecc., che hanno promosso la causa gay. Per un certo periodo quasi ogni storia d’amore che si poteva vedere al cinema era amore tra gay o lesbiche. Le leggi sulle unioni civili – di cui di recente anche l’Italia si sta dotando – sono effetto di questa mutazione di mentalità. Allora, questa mastodontica produzione filo-omosessuali sarebbe frutto di una cospirazione della “lobby gay”? In effetti, è quello di cui è convinta parte dell’opinione conservatrice. In un certo senso è vero. C’è stata una mobilitazione culturale: per decenni, tanti artisti, intellettuali, registi, scrittori, ecc., gay o simpatizzanti della causa gay, hanno prodotto opere che avevano al centro gli omosessuali anche per cambiare l’atteggiamento popolare, e in gran parte ci sono riusciti. Possiamo pensare che ci sia stata della strategia, anche se l’intellettuale impegnato non lo ammetterà. Dirà che la genuina creatività artistica ha finito con il convertire la massa ai diritti civili. Il complotto, il marketing subdolo, il piano strategico riguardano sempre le cose che non ci piacciono, mai quelle che ci piacciono. Il complotto è sempre opera del nostro nemico, mai dei “nostri”.
Rischiare il nuovo
L’idea che le opere di intrattenimento o di arte, dal cinema alla televisione, siano imposte alle masse dall’industria cozza con la pratica quotidiana di chiunque lavori nella produzione culturale. La domanda ossessiva che ci si pone, quando si progetta un nuovo programma tv o un film, è “piacerà alla gente? e a chi?” Non a caso le grandi industrie dei media spendono fior di quattrini per ampie indagini, condotte da specialisti, prima di lanciare un prodotto. Se si tratta di un serial televisivo, ad esempio, si mostra una puntata “zero” a vari spettatori rappresentativi delle varie fasce di pubblico, si studiano attentamente le loro reazioni, i loro livelli di gradimento, ecc. Se c’è un’accusa che bisogna fare all’industria culturale di oggi è anzi il suo seguire troppo pedissequamente i gusti del pubblico, il fornire alla gente quello – anche il trash – che vuole consumare. Si fanno tanti remake di opere di successo per rischiare il meno possibile. L’intellettuale critico non vuol accettare l’evidenza per cui il gusto dei più premia i prodotti più volgari; che la moneta cattiva scaccia quella buona. In un rovesciamento spettacolare dei rapporti causali, il “pensiero critico” rende responsabile l’industria culturale di quel basso livello di qualità che in realtà è quel che il pubblico attende, e che l’industria benevolmente gli fornisce. La “critica culturale” è come sostenere che la causa colpevole della prostituzione nel mondo sia l’offrirsi delle prostitute stesse, e non le pulsioni sessuali maschili che certe donne non fanno altro che soddisfare a fini di lucro. La teoria persecutoria della cultura va rovesciata: quel che c’è di spregevole in certa industria culturale è il fatto che essa sia troppo democratica, che cioè la sua offerta soddisfi troppo la domanda.
L’industria culturale produce vere rivoluzioni quando cessa di dare al pubblico quel che esso chiede, quando propone prodotti inediti che nessuno desiderava.
Cino Del Duca era un “produttore buono” di cinema che produsse, tra gli altri, due film che sono rimasti nella storia: L’avventura di Antonioni (1960) e Accattone, il primo film di Pasolini (1961). Dopo che uscì L’avventura, molti si chiesero: “Ma chi è quel pazzo che ha finanziato questo film?” Sembrava assurdo che uno pensasse di fare soldi producendo un film così lento e astruso. Quando fu presentato al festival di Cannes, venne fischiato sonoramente dal pubblico. Evidentemente Cino Del Duca era non meno geniale di Antonioni: capì che quel tipo di cinema poteva avere a suo modo successo. E difatti, passati i fischi, quel film sancì la celebrità internazionale di Antonioni.
Ricordo che L’avventura fu molto pompato in Italia. Prima che il film uscisse, la televisione italiana dedicò un programma all’avventurosa produzione dell’Avventura. Monica Vitti descriveva la vita rude nell’isola di Lisca Bianca, dove si svolge parte del film. Insomma, il film godette di un intenso marketing in Italia. Forse senza quel marketing il film sarebbe passato inosservato, magari dopo quel flop Antonioni si sarebbe convinto a cambiare mestiere, e non avremmo goduto dei suoi film successivi. Ma allora, il successo di L’avventura è frutto solo del marketing di Cino Del Duca? O il marketing è solo un elemento di un processo culturale molto più ampio, che portò quel tipo di cinema a rappresentare lo spirito degli anni ’60?
La macchina della verità
Torniamo alla questione più rognosa. Esiste un metodo, un criterio, per distinguere la leggenda persecutoria del complotto dal legittimo dubbio che un atto sia effetto di un piano?
Gli intellettuali che disprezzano le teorie cospiratorie talvolta cercano di offrire a chi non è intellettuale come loro una sorta di vademecum per capire se un sospetto di complotto sia serio oppure no. Ma i criteri offerti per aiutare gli ingenui a orientarsi nella giungla delle supposizioni sono lungi dall’essere convincenti.
Eco proponeva un criterio semplice, che chiamò “prova del silenzio”. Per esempio, possiamo credere al fatto che davvero gli astronauti americani misero piede sulla luna nel luglio 1969 per la semplice ragione che i sovietici non hanno mai smentito la notizia. Analogamente, possiamo respingere le teorie che attribuiscono l’9/11 al presidente Bush e alla CIA perché tutti i leader politici ostili agli USA non hanno pubblicamente denunciato una macchinazione americana. I maggiori esperti mondiali di quel tipo di disastri non hanno pubblicato assieme un libro-bomba per denunciare l’inattendibilità della versione ufficiale.
Epperò questa prova del silenzio non sempre funziona. Talvolta “tutti” sanno di certi complotti riusciti, ma siccome non se ne hanno le prove non li si denuncia pubblicamente.
Argomenta Eco: i veri complotti prima o poi – più prima che poi – vengono alla luce. Questo perché chi partecipa al complotto a un certo punto parla. Per confidenze fatte all’amante o al marito, per soldi, per senso di colpa o semplicemente per leggerezza. Il vero complotto è sempre scoperto. Credo però che questo ottimismo cognitivo sia ampiamente confutato. Perché è vero che molti complotti vengono scoperti, ma come possiamo sapere quanti e quali non vengono scoperti? E poi, non è vero che le persone coinvolte in un complotto prima o poi divengano Gole Profonde; molte vengono uccise proprio perché non parlino mai. Eco dimentica inoltre che esistono complotti riusciti, quelli che non fanno scoprire un complotto.
Siamo certi del fatto che certi eventi siano effetto di un complotto, o che si è complottato per non farne conoscere gli autori. Non si è mai veramente scoperto il perché della “strage di Ustica” nel 1980, e chi ha mai saputo chi ha ucciso Roberto Calvi nel 1982 o Michele Sindona nel 1986? Forse non sapremo mai chi ha complottato. Non è vero che la verità viene sempre a galla. In fondo, non sappiamo nemmeno come sia morto Federico Barbarossa nel 1190 (qualcuno sospetta appunto un complotto).
Del resto, lo stesso Eco mostra di non essere nel fondo convinto del suo criterio. Il suo ultimo romanzo, Numero zero, mette in scena un giornalista complottista. Costui è convinto che Mussolini non sia morto nel 1945, ma si sia rifugiato in Vaticano, e che gran parte delle vicende politiche successive dell’Italia siano legate a questa segreta sopravvivenza. Per decine di pagine, seguiamo i noiosi deliri di questo giornalista di serie B che passa le giornate negli archivi. A un certo punto, questo giornalista viene misteriosamente ucciso. Non si sa da chi, ma è lecito sospettare che le sue ricerche per costruire leggende metropolitane avessero messo il dito su qualcosa che non doveva essere rivelato. D’un tratto, la nostra immagine del personaggio viene stravolta: e se quelle favole assurde a cui si dedicava non erano, poi, solo favole? Così anche il sarcastico illuminista Eco ci riavvolge nel dubbio. Les non dupes errent, diceva Lacan, “chi non è credulone erra”.
Comunque, bisogna ammettere che negli umani agisce un impulso ad affrontare enigmi che chiamerei edipico (da Edipo risolutore di enigmi, non Edipo parricida e incestuoso). Da chi ogni settimana compra La settimana enigmistica fino a chi cerca di sapere come e da chi è stato ucciso Pasolini, comunque questa pulsione a vedere la vita come thriller ci magnetizza. Ma allora, se si tratta di un impulso umano fondamentale, non dovrebbe agire anche tra le teste d’uovo che disprezzano il complottismo? Certamente, è la ragione per cui un intellettuale si impegna di fatto a risolvere thriller scientifici, filosofici, etico-politici… L’intellettuale piuttosto che vedere dappertutto complotti vede dappertutto rompicapo concettuali.
Capire non è dimostrabile
Allora, mi si dirà, come fai tu a decidere se una tesi cospiratoria è ridicola e paranoide, mentre un’altra va presa sul serio? So dare una risposta sola: io lo decido perché sento che cosa è serio e che cosa no. Perché mi attribuisco fiuto storico e politico. Questa capacità non è riassumibile in criteri semplici e trasmissibili direttamente. O si ha fiuto o non lo si ha. Così come si ha orecchio per la musica o non lo si ha. Ha mai qualcuno scritto un manuale che permetta di capire chi capisce la musica e chi no?
Ma non è così diverso per le scelte etiche e per le opzioni politiche. In tutti questi ambiti, non esiste un breviario che ci permetta di decidere quali autori, in tutti i campi artistici, siano “grandi” e quali invece no; o quali idee politiche abbracciare. Per ogni specifica preferenza estetica o politica abbiamo intellettuali di alto rango, esperti, premi Nobel Pulitzer o Strega, alti responsabili istituzionali, ecc. che si schiereranno per ciascuna opzione. Nessuno può dire: “La mia preferenza è sostenuta da persone prestigiose, mentre la tua è sostenuta solo da poveretti semi-analfabeti”, perché questo non è mai vero. Persino un’ideologia che oggi a quasi tutti appare aberrante come il nazismo ha avuto dalla sua parte il fior fiore dell’intellighentzja tedesca all’epoca.
Platone nel Menone fece dialogare Socrate, Menone e Anito sulla questione se la virtù (areté) sia trasmissibile o meno. Per virtù possiamo intendere ogni capacità positiva, anche quella di capire i problemi politici - e il poter capire se una teoria complottista è assurda o perspicua. Ora, il dialogo di Platone non giunge a nessuna soluzione positiva; lo stesso Socrate sembra oscillare tra una posizione per cui la virtù è insegnabile e un’altra no. In fondo anche io esito tra le due teorie. Per certi versi si può insegnare a qualcun altro a capire l’arte, la politica, la filosofia… ma non direttamente, non c’è alcuna formula per trasmettere quel che chiamerei il “saper capire”. Così, il becero complottismo resterà inconfutabile.