Lea Melandri. «Alfabeto d'origine» / Per scrivere bisogna andare «fuori tema»
Alfabeto d’origine. È il titolo che la teorica femminista Lea Melandri ha voluto per un piccolo e prezioso libro (Neri Pozza, 2017) in cui ha raccolto le sue riflessioni sul tema della «scrittura d’esperienza», uno dei punti nodali di una ricerca condotta con tenacia su testi propri e altrui. E uno dei vertici del pensiero politico che ha costruito nel tempo, agendo insieme ad altre donne, leggendo, insegnando (dai corsi delle 150 ore negli anni settanta e ottanta, alla scuola di Affori, alla Libera Università delle Donne di Milano), creando riviste (A Zig Zag, Lapis) e luoghi d’incontro dove scambiare pensieri, esperienze, ricordi, desideri e ripensare collettivamente le idee ricevute che bloccano il pensiero e dunque ogni ipotesi di espressione autentica.
Coesa come una monografia e tuttavia variegatissima, l’antologia di Melandri copre un arco temporale che va dal 1983 al 2017 e si articola in una serie diversificata di interventi liberi o d’occasione. I primi svariano da alcuni appunti estrapolati da un diario poetico tenuto con la fedeltà ossessiva di un cercatore d’oro a esegesi testuali che somigliano a dei veri corpo a corpo con gli scrittori e le scrittrici che Melandri sente più affini. «I fanciulli, poeti, sognatori» che, come lei, non hanno saputo, potuto, voluto scostarsi dalla materia d’origine sublimandola in ragionamento astratto o semplicemente negandola.
A partire, tra gli altri, dagli scritti di Sibilla Aleramo, Franco Matacotta, Franco Rella, Alberto Asor Rosa, ma anche dalle pagine di autrici ‘non professioniste’ che affidano alla pagina scritta il grumo della loro esperienza di vita (si pensi a Smarrirsi in pensieri lunari della fisica Agnese Seranis o a Pensieri vagabondi di Amelia Molinelli, un diario brut dall’impianto e dallo stile originalissimi), Melandri mette a fuoco una strategia critica e espressiva che si fonda sul rimosso o, se preferite, sull’abietto, su ciò che nella ‘cultura alta’ non ha cittadinanza e dunque è condannato a rimanere in ombra, anzi in una sorta di «sostrato fangoso».
Le pagine di diario, collocate non per caso a chiusura del volume, come ad esemplificare concretamente la forma assunta nel lessico dell’autrice dalla scrittura d’esperienza, sono una selezione distillatissima di pensieri-verso limpidi e penetranti, privati e al contempo universali. Vivere, ammalarsi, sentirsi soli, innamorarsi, sconfinare nell’altro, imparare a rimanere in sé riconoscendo all’altro il suo destino inevitabilmente individuale, godere del cielo, del mare, del dono provvisorio del proprio tempo di vita. Sono i temi che affiorano in queste pagine che invitano a praticare quella «mineralogia del pensiero» messa a tema da Asor Rosa, a ripercorrere non solo la propria storia sociale e di genere, ma la preistoria che la precede, quella penombra che tutte e tutti abbiamo attraversato e che spesso non lascia in noi che mute, indecifrabili e tuttavia indelebili tracce.
In una delle pagine introduttive del volume, ancorando la propria autorialità a una duplice, scomoda, identità di genere e classe – donna e figlia di contadini –, Lea Melandri ragiona sul «margine che trattiene le donne alla frontiera della ragione sociale…, sulla fantasia che ha costruito le differenze di genere…, sulla segreta volontà delle donne, reazionarie e ribelli, disobbedienti come Antigone, di appartenere a una preistoria mai raccontata». E, più avanti, interrogandosi sulle «radici della scrittura» all’interno di un ordine ‘scolastico’ che non prevede il corpo e le sue vicissitudini e tantomeno il colore e la temperatura reali delle emozioni e dei sentimenti, postula con disadorna schiettezza un teorema inconfutabile: per scrivere bisogna «uscire da sé o uscire dal mondo». La sola alternativa a questa scelta dolorosa, contrabbandata da secoli come la sola possibile, è saper costruire il «ponte di una trama immaginaria», «restituire alle pagine scritte l’odore di terra e di erba tagliata dopo un temporale», dire di sé per dire del mondo.
Quel «si può» liberatorio, che permette di «dare corso a pensieri più aderenti al pensiero di ognuno», si esprime in una scrittura che si inventa senza tuttavia partire da zero, che nasce da uno spostamento del baricentro, da un atto di consapevole posizionamento all’interno delle dualità conosciute, perché «è da lì che bisogna districarla per renderla a noi più propria, vicina, somigliante».
«Quando tento di descrivere il farsi della mia scrittura», afferma Melandri, «penso a una traiettoria che partecipa della chiarezza logica, di un lungo lavoro di concettualizzazione, ma che nel momento di divenire scrittura si lascia distrarre, affondare, intrigare da un altrove» (il corsivo è mio). Poiché quell’altrove sepolto in ognuna/o di noi rischia, se tacitato, di rendere esangue o totalmente asservito il pensiero e dunque la lingua, perché non dedurne che è proprio l’atto di distrazione o di affondamento a generare la parola che vale la pena di dire?
Concludo con uno dei punti più folgoranti dell’intero libro. In una lezione tenuta all’Università di Bologna il 27 settembre 2014 e qui raccolta sotto il titolo “Per un’educazione portata alle radici dell’umano”, l’autrice, consapevole della ‘femminilizzazione’ e della conseguente ‘devalorizzazione’ del sistema scolastico italiano, rivolge alle donne che insegnano una domanda cruciale: «come vivono questo ruolo di madri-maestre, di donne chiamate a trasmettere una cultura che le ha cancellate, di corpi in scena che devono disciplinare altri corpi, renderli invisibili»?
Al di là della querelle ideologica che da noi insiste a inchiodare gli individui a una presunta normalità di genere fondata su binarismi friabili quanto indimostrabili, bisognerebbe infatti chiedersi quanto pesi per «un bambino, un adolescente, maschio e femmina, avere sempre di fronte, negli anni più importanti per la sua formazione, una figura femminile ambigua, perché potente e svilita al medesimo tempo».