Pizzini di cinema
Andare al cinema è un diletto praticato da molti, che, non di rado, accompagna chi ama coltivarlo per tutta la vita: a vedere film si va da bambini con il papà o coi nonni e da vecchietti attempati con lo sconto all’ingresso, si va per impiegare un po’ di tempo in un giorno di buca, durante le feste comandate o ancora a prendere un po’ di fresco in una qualche arena estiva. In modo che a fare il conto delle volte e delle persone con cui si è andati, sia facile per chiunque rimanere imbrigliati nella nostalgia del tempo che tutto cancella. Ma, a pensarci bene, ogni qual volta si va al cinema, indipendentemente da quale film si vada a vedere, anzi forse proprio grazie al fatto che la scelta dipende spesso dal caso, se ne esce sempre con qualche nuova suggestione, da appuntare sul biglietto d’ingresso perché non si perda. Ed è così che oltre ai ricordi di vita si accumulano anche i “pizzini” su cui vengono registrati gli imprevisti puntellamenti al proprio modo di vivere, al proprio sistema di valori che le storie, con la scusa di dilettarci, puntualmente ci parano davanti.
Cinema e parole, di Nunzio La Fauci, appena uscito in una nuova collana dell’editore ETS dedicata all’espressione, nasce così, come collezione di suggestioni appuntate sul biglietto d’ingresso. Per questo arriva con una lista di film eterodossi per periodo storico, stile registico, genere cinematografico. Ognuno diverso dall’altro, questi film, incontrati più o meno casualmente in sala, vengono piuttosto selezionati sulla base delle loro capacità di rivelarsi attraverso la lente della riflessione linguistica, a un doppio livello, quello giocato dalle parole vere e proprie (titoli, sceneggiatura, dialoghi, slogan, stili recitativi, e quant’altro), e, d’altra parte, più audacemente quello che fa della lingua un sistema di modellizzazione, in grado di offrirsi come schema generale di funzionamento della cultura, in grado di rendere conto della varietà “dell’espressione” umana.
Insomma, i film della lista sono parole anche in senso saussuriano (così si spiega il corsivo del titolo), realizzazioni puntuali di virtualità sistematiche in qualche modo già previste dal grande ingranaggio della lingua. Ma c’è un terzo aspetto che non va trascurato. Guardare i film attraverso il filtro delle parole non di rado permette di gettarvi una nuova luce, facendo emergere aspetti problematici di regola ignorati dalla critica professionale, la cui valutazione viene regolarmente riportata a margine di ogni film analizzato, in un paragrafo di notizie: ritrovare queste note critiche (insieme alle informazioni fondamentali sul film come anno, regista, attori e sinossi) è indubbiamente utile a orientarsi nella lettura delle analisi ma ottiene l’effetto (non voluto?) di esibire la differenza di profondità e di esiti fra un approccio canonico (rappresentato dall’altrettanto canonico Merenghetti) e quello invece propugnato da una nuova possibile linguistica critica, delineata dal volume.
Ed è allora che nell’umorismo di Totò, Peppino e la… malafemmina, film del 1956 per la regia di Camillo Mastrocinque prescelto per aprire il volume, si può ritrovare il senso dell’itinerario proposto. Il film è pieno di giochi di parole che si fondano su una proprietà fondamentale del linguaggio: l’ambiguità. Le parole sono infatti la parte più superficiale della lingua, sono fenomeni; a loro volta costruiti da due facce, significante e significato. Il cui reciproco rimando è, attenzione, però, solo ciò che appare di un sistema molto più complesso. Perché possano, infatti, assumere una qualche valenza significativa, le parole devono venir articolate nelle mille espressioni che tutti noi quotidianamente adoperiamo per entrare in relazione col prossimo, rispondendo a un ingarbugliatissimo sistema di dipendenze, opposizioni e differenze. Ogni qual volta profferiamo parola rivolgendoci all’altro, articoliamo sottoforma di parole, un tale garbuglio. Una battuta di Totò appare a La Fauci perfetta per rendere l’idea di come questo sistema di regole possa lasciare spazio all’ambiguità.
A Milano “quando c’è la nebbia, non si vede”. Il senso di una tale frase, rivolta come ammonimento agli improvvidi Totò e Peppino in procinto di partire verso Nord, appare a prima vista lapalissiano. Si capisce, dunque, la protesta di Peppino, che, una volta arrivato a Milano, prende atto di come di nebbia non se ne trovasse affatto. È a questo punto che interviene Totò, rintuzzando il testone Peppino con la sua interpretazione, tanto aberrante quanto legittima dal punto di vista linguistico, che genera il riso: “quando c’è nebbia, non si vede”, “appunto la nebbia c’è e non si vede”. La lingua, e per questo tramite la cultura, funziona come la nebbia di Totò, intangibile ed estemporanea manifestazione di un brulichio di relazioni, che ci sono ma non si vedono.
Arriva il turno di C’eravamo tanto amati (1974) di Ettore Scola. Anche qui si trova un’ambiguità da rivelare di fronte alla pretesa univocità dell’espressione. “C’eravamo tanto amati” è stato pressoché inteso in senso reciproco, ovvero con l’idea che ad essersi tanto amati fossero i personaggi del film, lungo il lungo itinerario di vita raccontato nel film. Ma, suggerisce La Fauci, non c’è alcuna ragione per cui si debba escludere (ambiguità) una lettura diversa del titolo, come riflessivo. A essersi tanto amati, oltre ai personaggi del film, è perfettamente possibile ipotizzare siano stati anche gli spettatori, chiamati a specchiarsi nel ritratto che della loro identità – pregi e difetti – il regista, per il tramite della storia raccontata, fornisce. C’eravamo tanto amati finisce così per essere la spia di una certa auto-indulgenza e narcisismo che ha, nel bene e nel male, caratterizzato la classe culturalmente più consapevole del periodo postbellico. Adesso che l’incantesimo si è rotto, che non ci amiamo più (o almeno… non più come una volta), riflettere criticamente su questo narcisismo, nota La Fauci, si staglia come un’opportunità per chi voglia capire come siano andate davvero le cose.
Si continua con Moretti. In questo caso la riflessione si allarga a tutta la sua carriera. Anche qui, il filtro della lingua può essere utile per illuminare alcuni tratti fondamentali della sua poetica, per molti versi enigmatica. L’analisi di La Fauci identifica cinque dicotomie pertinenti. La prima: romano vs romanesco. Si può forse capire l’antipatia di Nanni verso Alberto Sordi proprio a partire dal fatto che i due possono essere considerati come portatori di concezioni della romanità in antitesi, anche linguisticamente.
Roma è allo stesso tempo il latino delle sue iscrizioni, la città eterna della permanenza e il gergo biascicato, borgataro, comune, di Alberto Sordi e del suo erede Carlo Verdone. Fra le due versioni, Moretti sceglie la prima: egli si sente erede della missione cosmopolita, letteralmente urbana della capitale. Seconda dicotomia: caos vs disordine. In questo caso, la differenza si dà innanzitutto con Fellini: se la Roma di Fellini è caotica, imprevedibile e sempre sorprendente, quella di Moretti permane placida, al limite distaccatamente ironica. Terza: centro vs periferia.
Qui Pasolini è il riferimento. La Roma di Moretti è fieramente borghese e perciò diversa da quella di Pasolini e dei suoi sottoproletari. Quarta: durevole vs effimero. Moretti, figlio di un eminente filologo, eredita dal papà l’amore per la solidità dei reperti che studia. Ed eredita anche un approccio orientato alla nettezza. Tenendo conto di queste quattro dicotomie si può, orsù, leggere la storia di Habemus Papam (2011) come un’autobiografia alla terza persona. Se è vero che per Moretti l’“io non è mai io” (vedi gli innumerevoli fraintendimenti a cui ha dato luogo il personaggio di Michele Apicella) in questo caso la posta viene raddoppiata: è nientepopodimeno che il papa a essere chiamato in causa per dar corpo ai dilemmi esistenziali di Moretti. I quali, messi in scena nella città eterna, vengono astratti dalla concretezza biografica da cui pure scaturiscono. In questo caso, Habemus papam si configura come un grande racconto sulla capacità liberatoria di rifiutare un incarico lusinghiero al costo di rinunciare alle proprie passioni: il papa del film, così come Nanni a un certo punto lusingato da proposte di cariche politiche, vuole essere un artista, è felice così e tanto gli basta.
Arrival (2016) tratto dal racconto “Stories of your life” di Ted Chiang, sceneggiato da Eric Heisserer e diretto da Denis Velleneuve solleva la grande questione del ruolo modellizzante del linguaggio e lo fa mettendo al centro delle sue trame l’inusuale personaggio di una linguista chiamata, in virtù della sua expertise professionale, a progettare le modalità di interazione e il primo contatto con gli alieni appena sbarcati sulla terra. La lingua è il terreno che inizialmente divide gli umani dai terrestri. Ma progressivamente grazie all’intenso lavoro della protagonista i due mondi diventano mutualmente intellegibili. Accade però l’impensato. La nostra linguista potrà sperimentare su di sé la forza della nota ipotesi Sapir-Whorf (in vero, nota La Fauci, banalizzata in mille modi, cfr. il famoso esempio dei nomi della neve) per cui la lingua struttura la percezione divenendo modello di ogni esperienza. Entrando nella lingua dell’altro, nella felice allegoria di Arrival, Louise Banks sarà costretta a fare i conti con il cambiamento di sé e del proprio rapporto con il mondo…
Ci sono ancora riflessioni intorno alla categoria dell’aspetto (la categoria linguistica che chiama in causa il punto di vista sul processo descritto) a proposito di Dunkirk (2017) di Christopher Nolan. In questo caso, i fatti narrati lavorano su tre diversi punti di vista: la storia di un soldato della Raf, per sineddoche, chiama in causa quella di tutti i soldati che in quel frangente si batterono sul campo, la storia di un proprietario inglese di una imbarcazione sta per quella di tutta la popolazione locale accorsa in aiuto alla celebre evacuazione, la storia di tre aviatori della Raf per tutti coloro che si batterono nei cieli. Ognuno di questi tre punti di vista è, inoltre, incardinato su diversi regimi di temporalità: le vicende narrate sul campo durano settimana, il salvataggio un giorno, lo scontro aereo un’ora. Il potere magico del cinema riesce a sincronizzare eventi dalla durata eterodossa all’interno di un’unica narrazione che si caratterizza per essere imperfettiva.
Arrivano insieme poi Old man & the gun (2018) e The mule (2018), rispettivamente di Robert Redford e Clint Eastwood. Chi meglio di loro e dei loro personaggi è in grado di evocare l’egemonia americana postbellica? Divisi dalla fede politica (Redford liberal, Clint super-individualista) si divertono, alla fine della loro carriera, a interpretare il ruolo degli irriducibili cattivi. L’immoralità dei personaggi che interpretano appare come uno schiaffo al presente e al suo moralismo politicamente corretto. Il tema del moralismo del presente e, a maggior ragione, del futuro viene affrontato a proposito di Tenet (2020) di Christopher Nolan. Sono molto belle le pagine in cui si parla del progressivo scollamento di presente e futuro che stiamo attraversando nella nostra epoca.
Se, per l’appunto, nel Novecento, il futuro era pensato come luogo di realizzazione delle speranze e dei progetti coltivati nel presente, al giorno d’oggi futuro e presente non fanno altro che litigare, in modo che a strepitare contro il presente – denigrandolo, condannandolo – sia proprio il futuro. Gli anatemi e le profezie di Greta sono un eloquente segno di una tale condizione. Il film di Nolan fa, allora, problema della peculiare condizione esistenziale di vivere bersagliati del futuro. La fantascienza finisce così per dare concretezza a un incubo di questo genere. Il protagonista del film, infatti, vive sotto tiro del futuro. Grazie all’invenzione di una diavoleria tecnologica che permette di invertire la linea temporale, l’umanità del futuro decide di tornare indietro nel tempo e fare piazza pulita del proprio passato, facendolo fuori, insieme al protagonista, una volta e per tutte.
Chiude la partita la lettura critica di Marx può aspettare (2021) di Marco Bellocchio, lungometraggio dedicato alla rievocazione della triste fine del fratello del regista. Si tratta di un dramma familiare, girato, come fosse un’opera teatrale, in soli interni, i cui protagonisti sono i “sopravvissuti”, cioè i fratelli e le sorelle di Marco e del povero Camillo. Ancora una volta gli aspetti linguistici emergono con forza, se è vero che l’organizzazione dei turni di parola delle rievocazioni si organizza secondo il criterio del genere e del numero. I fratelli, Alberto Marco e Piergiorgio, portano il fardello del dire individuale, mentre le sorelle parlano insieme.
Ognuno dei tre fratelli, nel racconto delle loro memorie, aderisce a una sorta di ruolo tematico pubblico: il loro statuto intellettuale, la loro militanza politica ne segna inevitabilmente l’identità. Le due sorelle, invece, svolgono un ruolo diverso, raccontando un universo intimo e sommamente privato. Soprattutto una delle due, Letizia, che, contro ogni evidenza, mette in dubbio l’ipotesi del suicidio del fratello ipotizzando un incidente, appare come una figura tragica, colma di pietas. Come Antigone, Letizia è dilaniata dal dovere di custodire la memoria del fratello e la sua reputazione, oltre ogni plausibilità richiesta dalle istituzioni mondane e dalle loro burocrazie.
Terminata la riflessione su Marx può aspettare, arriva una postilla, che propone un’inversione fondamentale. Verrebbe da dire la chiave dell’intero volume. Si possono scorrere le pagine dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni come un film. Del resto, a partire dal canonico Quel ramo del lago di Como, è un luogo comune sottolineare lo statuto visivo e l’organizzazione cinematografica ante litteram della prosa dello scrittore milanese. E allora, analizzare I Promessi sposi come un film, significa che il cinema è già nella lingua: è insomma nella lingua che se ne deve andare a cercare l’organizzazione. Vale la pena uscire dalla dimensione impressionistica all’interno della quale il paragone fra la scrittura manzoniana e il cinema è stato per lo più proposto, per addentrarsi sulle omologie tecniche e strutturali a fondamento di una tale affinità.
Innanzitutto, c’è, come si è visto nella rassegna dei saggi del libro, la preminenza della problematica dell’aspetto linguistico. Già Hitchcock e Truffaut, nelle loro conversazioni, avevano sottolineato come il controllo del tempo, da ottenersi dilatando scene troppo brevi o al contrario accelerando, fosse una fondamentale perizia di chi maneggia l’arte cinematografica. Un sapiente uso del tempo caratterizza la scrittura di Manzoni. Vengono proposte alcune analisi molto raffinate di brani del romanzo in cui una tale affinità emerge più chiaramente. La scena del passaggio dei reggimenti sul ponte di Lecco ha, per esempio, una strutturazione poetica che si imprime nella memoria dei lettori, ottenuta attraverso una distribuzione chirurgica dei tempi verbali e delle cadenze. Ancora fortemente visiva è la rappresentazione dello spettacolo macabro della peste, inquadrato nel dettaglio dell’incontro di Renzo con una bambina malauguratamente defunta.
Con il capitolo sulla perizia cinematografica di Manzoni, la sfida portata da La Fauci può, allora, davvero trovare il giusto compimento: avendo dimostrato come cinema e parole non possano che essere indissolubilmente relati.