Tintin semiologo

6 Settembre 2024

Non c’è bisogno di ricordare quanto la figura snella del reporter Tintin e del suo cagnolino Milù – protagonisti dei celebri racconti a fumetti firmati da Hergé – possano essere considerate fondamentali nella formazione di ogni ragazzino d’oltralpe. Le strisce delle loro avventure sono, infatti, tuttora, a quasi cento anni dalla loro prima apparizione, predilette da generazioni di belgi e di francesi, tenute a mente come veri e propri souvenir d’infanzia e riserve di senso per gli anni a venire, pungolo e ispirazione lungo tutta una vita. Sono, insomma, veri e propri miti d’oggi. 

Jean-Marie Floch le ha amate così: divorandone da piccolo ogni albo. E nemmeno, una volta cresciuto, le ha mai abbandonate. Se le è portate dietro proprio come ogni altro ragazzino d’oltralpe. I casi della vita lo portano, nel frattempo, a divenire semiologo e consulente d’azienda, fra i più capaci allievi di Algirdas Greimas, maestro indiscusso della semiotica novecentesca. Ed è così che alla prima occasione – che puntualmente arriva con la richiesta di tesi di una studentessa (dedicata alla rabbia, passione incarnata da uno dei personaggi più iconici della serie, il capitano Haddock) – si risolve a metterci mano, alla ricerca delle chiavi per penetrare il loro segreto: le ragioni per cui le strisce di Tintin potevano diventare significative per lui come per i tanti come lui, lettori-ragazzini desiderosi di confrontare la propria vita con quella del loro beniamino di carta. 

Ne viene fuori un originale volume, Une lecture de “Tintin au Tibet” uscito nel 1997 in francese e solo recentemente rimesso in circolo da Meltemi, grazie alla bella traduzione di Luigi Virgolin, con il titolo Tintin in Tibet. Un esercizio di semiotica del fumetto (2023, pp. 247, € 18, postfazione di Daniele Barbieri), in cui, per l’appunto, egli procede all’analisi di uno degli albi più belli e profondi della serie dedicata da Hergé al giovane reporter. È lo stesso Floch a riferirsi al proprio lavoro, però, come a una lettura fra altre possibili, ricordando come l’analisi semiotica non abbia come obiettivo quello di indicare il “vero” significato dell’opera, quanto quello di ricostruirne la struttura significante, il complesso meccanismo di relazioni e differenze che permetterà al lettore di (ri)trovare la propria posizione, la sua di lettura. 

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Tintin in Tibet si presenta, quindi, anche come un vero e proprio discorso sul metodo semiotico, dimensione rimarcata anche nel sottotitolo dell’edizione italiana “Un esercizio di semiotica del fumetto”, che fa il verso a un altro celebre “esercizio” di analisi semiotica. Una formula simile – “Esercizi di semiotica del testo” – si poteva, infatti, già riconoscere in un altro sottotitolo, quello della prima edizione italiana di Maupassant (1976) del già menzionato maestro di Floch, Greimas.

Viene da chiedersi quale possa essere la relazione fra i due esercizi, dunque. 

Maupassant, recentemente ripubblicato (2019) nella traduzione e cura di Gianfranco Marrone all’interno della collana “Campo aperto” diretta da Stefano Bartezzaghi per Bompiani, è uno dei volumi più importanti delle scienze umane novecentesche, attraverso cui Algirdas Greimas compie una mossa fondamentale, quella di mettere alla prova della recalcitranza di un testo letterario concreto il metodo semiotico di analisi strutturale del racconto che proprio in quegli anni egli stava definendo e mettendo a punto in sede teorica. La scelta cade sulla novella “Due amici”, caso esemplare selezionato anche per il fatto di essere breve, stilisticamente asciutto oltre che generalmente considerato non problematico dal punto di vista critico. L’analisi del testo compiuta da Greimas punterà a rivelarne la struttura di macchina significante complessiva, la cui articolazione poteva essere, finalmente, descritta dalla disciplina. Ma è manifestando la propria capacità di rendere conto di un singolo testo, che un tale “esercizio” avrebbe potuto procedere verso il suo vero obiettivo epistemologico, quello di offrirsi come modellino locale per il compito massimamente generale di descrivere il funzionamento dell’intera cultura umana: dalla narrazione alla narratività. 

In che cosa l’analisi di Floch uscita, lo si è detto, nel 1997, ovvero 21 anni dopo il testo greimasiano, avrebbe, dunque, potuto segnare un avanzamento in un tale cammino? 

Si può, a questo proposito, notare come, già a partire dal suo titolo, l’analisi di Greimas tenesse a sottolineare il fatto di concentrarsi su un racconto d’autore, stilato da uno scrittore riconosciuto e celebrato come, per l’appunto, Maupassant. Una tale scelta si rivelava tatticamente utile per controbattere all’idea abbastanza diffusa in quel periodo che il testo letterario fosse troppo complesso per essere “ridotto” alla sua struttura, consistendo il suo piacere, piuttosto, nel lasciarsi trascinare dai mille rivoli della narrazione (cfr. Il piacere del testo di Barthes, 1973). Lo studio della novella “realista” di Maupassant controbatte a una tale visione mostrando come anche nell’opera letteraria (e non soltanto quindi, nei testi semplificati della società di massa, come gli annunci a stampa della pubblicità) fosse possibile mettere ordine, riconducendo ogni eventuale fuga e diversione narrativa alla propria responsabilità nell’economia generale del testo. 

Il lavoro di Floch su Tintin in Tibet sceglie di applicare lo stesso sguardo rigoroso al fumetto, rivelando passo dopo passo in un’analisi più che puntuale, come l’albo in questione, né più né meno del racconto letterario studiato da Greimas, possa celare un’organizzazione molto complessa ed essere in grado di esprimere significati profondissimi, di altissimo valore pedagogico e culturale. Non c’è, insomma, uno specifico “mediale”, per così dire “fumettologico”, che definisca il fumetto una volta e per tutte, ed eventualmente gli impedisca di presentare contenuti alti al cospetto del proprio lettore. Al massimo possono esserci retoriche dominanti, cliché passibili di essere ribaltati alla prima occasione. Come li ribalta, per l’appunto, Hergé, con la sua opera. 

Un primo risultato dell’analisi svolta da Floch è, dunque, quello di segnare un’equivalenza di principio: il fumetto, così come i “Due amici”, può essere un’opera d’arte e può esserlo senza complessi di inferiorità, a tutti gli effetti. 

È solo segnata una tale equivalenza che si potrà procedere alla ricerca delle sfide ulteriori che l’analisi dell’albo di Hergé rivolge alla semiotica. Si può, infatti, notare come il fumetto ponga, in effetti, questioni metodologiche diverse rispetto a quelle sollevate dall’opera letteraria, sostanziandosi come testo “sincretico”, ovvero che incrocia più linguaggi, verbale e visivo. Come rendere conto della loro interazione nel testo? E come descrivere il ruolo da essi esercitato nella costruzione del senso complessivo dell’opera? L’analisi di Tintin in Tibet si presenta come un tentativo di rispondere a queste domande, prospettando nei fatti un allargamento della capacità analitica della disciplina. In ragione di ciò, spicca come prezioso modello e fonte di ispirazione – ancora al giorno d’oggi – per ogni analisi futura. 

Ma un tale “esercizio” scandisce l’itinerario semiotico – della costruzione di una teoria semiotica generale – agendo ancora su un altro versante. 

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Il volume si apre con una dedica ai due figli dell’autore e con un’epigrafe che riporta una notazione di Walter Bonatti, in cui si prefigura il ruolo che le grandi montagne possono avere nella vita di un alpinista: di misurare il valore della propria umanità. Già nell’introduzione, Floch torna su questa dedica, dicendo di come l’amore per le escursioni di alta quota e quello per la storia di Tintin in Tibet siano arrivati, nella sua vita, insieme. E informa il lettore che spera che i suoi due figli possano essere “segnati” dalla montagna, così come lui stesso lo fu da ragazzino. Che essi possano apprezzare il piacere di essere toccati dalla sua particolare aria, “viva, leggera, un po’ pungente” proprio così come la definisce lo stesso Tintin nell’albo. E poco importa che ciò possa avvenire per il fatto di continuare a frequentarla – al limite anche senza il papà, scomparso, lo ricordiamo, prematuramente – o per il fatto di leggerne in un qualche resoconto scritto dalle persone giuste, “da coloro che la amano”. Fra la montagna e il racconto della montagna non si dà una differenza abissale ma le due cose vanno insieme e si fanno da sponda vicendevolmente, traducendosi l’una nell’altra. Riflessione che contiene una lezione profonda: quando si fa analisi del testo, si mettono in continuità aspetti locali e specifici del particolare assetto mediale con cui si ha a che fare con aspetti più generali, relativi alla configurazione antropologica ed esistenziale che viene messa in scena. E le due cose non possono che essere inseparabili. Non si può amare Tintin in Tibet solo come fumetto, dimenticandosi che in ballo vi sia la singolare condizione di essere in montagna, quell’aria “viva, leggera, un po’ pungente” che il lettore è chiamato a sentire su di sé. 

È questa la via attraverso cui Floch fa entrare all’interno della teoria il problema della soggettività e delle sue ripercussioni sull’analisi: perché proprio Tintin in Tibet e non un altro fumetto? O un altro Tintin? Presto detto. Fare analisi di Tintin in Tibet significa fare analisi della montagna e procedere all’esplicitazione, in primis a sé stessi, del ruolo esistenziale che essa può svolgere nei confronti di chi vi appresti, contribuendo a tracciare forme di identità. Attenzione: forme, cioè non feticci individuali ma configurazioni collettive, forme di vita, suscettibili di essere assunte da ognuno. 

Nella storia in questione se ne riconoscono almeno due, in competizione fra loro, quella incarnata da Tintin, che una volta tanto dismette i panni dell’astuto reporter e si mette in gioco sentimentalmente e quella del Capitano Haddock. I due rivelano sé stessi attraverso la montagna. È il loro atteggiamento verso gli spazi siderali e sconfinati delle alte vette, che permetterà di riconoscere uno scontro mitico fra due forme di pensiero, l’una orientata al credere e l’altra al dubbio, l’una orientata al sacro e l’altra alla dissacrazione. Tintin in Tibet potrà rivelarsi, grazie all’analisi di Floch, come un racconto che mette in competizione questi due modi di essere, indicando nella montagna la possibilità di cimentarsi in un itinerario di ascesa verso una forma di conoscenza superiore, spirituale e sensibile allo stesso tempo, che si caratterizza per il fatto di presentarsi come allettante a dispetto di ogni calcolo e ragionevolezza. 

In nome del piacere garantito dall’aria di montagna, Tintin si mette alla prova nelle sue escursioni e attraverso il medesimo codice misterioso di suggestioni vivide, potrà scegliere di mettersi in moto verso le terribili vette himalayane per salvare il suo amico disperso, contro ogni cautela. 

È così che agli occhi di uno come Haddock, il suo comportamento non potrà che apparire inspiegabile, stupido, irragionevole. Ma Tintin è disponibile a lasciarsi impressionare da questo codice segreto e a esso si affida per farsi guidare fino in cima, avendo infine ragione sulla cautela e sulla ragionevolezza di chi gli consigliava di lasciar perdere. 

Descrivendo passo dopo passo il modo in cui Tintin procede verso la sua ascesa, Floch traccia un identikit delle sue passioni e del proprio modo di essere, che potrà essere riconosciuto in un’estetica più ampia, delineata lungo tutta la sua carriera di studioso e caratterizzata da una peculiare disposizione d’animo all’apertura sensibile. 

È questa la forma di vita del semiologo: non si può essere semiologi senza ancorare il senso della propria ricerca intellettuale a una qualche forma di affettività, senza lasciarsi prendere da quell’aria “viva, leggera, un po’ pungente” dell’alta montagna, senza apprezzare il piacere di una sorsata di birra, o di impugnare un coltellino dal manico consunto che tante volte si è già impugnato, non si può essere semiologi senza delicatezza, senza disponibilità a lasciarsi sorprendere dalla vita. 

Non si può essere semiologi senza rispetto, altruismo, condivisione, senza amicizia praticata oltre le cautele imposte dal calcolo. Senza mettersi in gioco, come fa Tintin, per salvare il proprio amico disperso. 

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