Ricette di un professore poco ordinario / Eggs Benedict a Manhattan
L’odore di bruciacchiato della strinatura – la procedura con cui il pollame si passa al fuoco per ripulirlo dai rimasugli di piume prima di procedere a cucinarlo – si imprime nella memoria del piccolo Gian Piero, inchiodandolo al ricordo di sé in cucina ad armeggiare fra i fornelli, insieme alla nonna. Sarà lei a iniziarlo ai piaceri della tavola, nelle lunghe mattinate trascorse in sua compagnia mentre la mamma, insegnante, è al lavoro. C’è poi lo zucchero, evocato nel momento sublime in cui la sua colata incandescente va a formare il croccante sulla lastra di marmo disseminata di nocciole. Anche questo frangente segnerà i ricordi di Gian Piero bambino, collegandoli inestricabilmente a fatti e personaggi specifici della propria vita ma anche a un quadro d’insieme, a un’atmosfera sperimentata da molti nella sonnolenta provincia langarola di Nizza Monferrato. Toccherà al lettore, se vorrà, mettersi ai fornelli e realizzare quello stesso croccante, per meglio farsene un’idea.
In queste due scenette d’apertura ci sono in nuce tutti gli “ingredienti” di Eggs Benedict a Manhattan. Ricette metropolitane di un professore poco ordinario di Gian Piero Piretto, appena uscito per i tipi Raffaello Cortina (€ 19). Che non è strettamente né un ricettario né una biografia quanto piuttosto qualcosa a metà fra questi due mondi: un foodoir, ovvero un libro di memorie con ricette. Quale possa essere il loro legame lo si capisce non appena si accetti la sfida del libro: i piatti proposti sono, infatti, enunciati, fanno parte della storia, dei fatti riferiti dall’autore ma, allo stesso tempo, chiamano in causa il lettore, che è invitato a prepararseli, per questa via immergendosi nel racconto. Sarà anche grazie al fatto di poter realizzare su di sé le sensazioni olfattive, tattili o ancora gustative veicolate dalle pietanze di cui via via si presentano le ricette che egli potrà, infatti, ritrovare la veridicità di quanto raccontato ed eventualmente decidere di mettersi in gioco, facendo propria la forma di vita dell’autore.
Si possono, pertanto, scorrere le pagine – riccamente corredate di foto e pizzini (attestati, locandine, fotografie) raccolti lungo tutta la vita – di un tale bizzarro prodotto editoriale alla ricerca di una vera e propria teoria della percezione. Per Piretto, il senso del proprio itinerario metropolitano, dei suoi viaggi e della sua attività culturale di professore universitario ha, infatti, a che fare con un modo fondamentale di essere in situazione, di gestire la propria presenza fisica in loco, abdicando al quale non si può che finire nel girone dei secchioni o peggio ancora dei turisti. Un modo per cui appare, per esempio, naturale, catalogare le città – non solo la sua Nizza Monferrato descritta grazie all’odore di bruciato – sulla base dei loro effluvi preminenti.
Ecco Torino:
Amavo Torino. La città mi avrebbe regalato molte altre serate, seducenti e profumate. L’odore di Torino, per me è stato e resta quello dei tigli in fiore. Sono tanti e ovunque. Quando verso fine giugno esplodono in tutto il loro profumo, l’effluvio si fa dominante su ogni altro e inebria, stordisce, incanta. (p.34)
Londra:
Ho già evocato il patchouli, ma l’odore dominante di Londra, per me è quello del Tube, la sua metropolitana. Sarò più preciso, forse maniacale, l’odore della Northern Line, High Barnet branch, via Charing Cross: acre, denso, come lo ricordo alcuni decenni fa quando il treno rosso sbucava sferragliando dal tunnel tondo in una stazione poco illuminata e un po’ cupa, nel pomeriggio di una domenica quando l’attesa si poteva fare anche molto lunga. (p.50)
Leningrado:
Il 1974 vide il mio primo soggiorno in Unione Sovietica. In piene notti bianche, all’inizio di un luglio straordinariamente caldo, verso sera, approdai a Leningrado, Viaggiai con la compagnia di bandiera sovietica, l’Aeroflot, e il primo impatto fu olfattivo. Appena salito in aereo percepii quello che per molti anni con amici e colleghi avremmo chiamato “l’odore di Russia”: un misto acuto e penetrante di disinfettante, eau de toilette dolcissima, mela fermentata, a cui si sarebbe aggiunta la dominante fragranza dell’ukrop (aneto), erba onnipresente nei piatti russi, e, in certe occasioni, l’ammorbante peregar, l’alito mefitico dei passeggeri di tram e bus testimone di bevute alcoliche e mangiate abbondantemente condite con aglio e cipolla. (p.62)
Parigi:
Secondo uno studio recente, affidato al naso di una profumiera, queste sarebbero le esalazioni dominanti nel metrò parigino, soufre, œufs pourris, chaussettes sales, pipi de chat, le tout enveloppé d’un parfum de muguet et de pamplemousse. Meno sofisticatamente io ricordo un calore pungente, dolciastro e aspro allo stesso tempo, talora nauseante ma spesso spazzato via dalle improvvise e feroci correnti d’aria che imperversano in certe gallerie e liberano il sottosuolo degli afrori più mefitici o sublimi per contaminarlo con altri analoghi o contrari che arrivano dalla superficie. Sensazioni sinestetiche che si combinavano ai toponimi e ai nomi delle stazioni capolinea, veri e propri mantra d’orientamento quotidiano: Porte-de-la-Chapelle-Marie-d’Issy, Balard-Créteil, Châtelet-Porte-des-Lilas. (p. 78)
E si potrebbe continuare, addirittura immaginando che tutto il libro si concretizzi come un tentativo di rispondere a un rompicapo fondamentale: come comunicare il fascino dell’orizzonte urbano, l’attrattiva della metropoli? Come spiegare il valore politico della scelta di essere in viaggio in un mondo iper-mediatizzato come quello contemporaneo, in cui tutto quel che c’è da sapere su qualsiasi argomento può essere ottenuto senza il minimo sforzo in rete, ovvero senza muoversi da casa? Il paradosso della turista – accompagnata dallo stesso Piretto – che, a bordo della mitica ferrovia transiberiana, si lamenta della monotonia del panorama fuori dal finestrino richiedendo agli organizzatori del viaggio uno schermo per guardare un qualche documentario sulla Siberia è indicativo di un tale atteggiamento, sempre più diffuso. Su cui Piretto ha molto da ridire.
A un certo punto, lo ritroviamo a San Francisco, fortunato visitatore della Glide Memorial Church, chiesa metodista diventata negli anni 60, grazie alla guida del reverendo Cecil Williams, un vero e proprio “crogiolo di controculture”. La chiesa si trova in uno dei quartieri più degradati della città, Tenderloin, ancora una volta descritto per il tramite dei suoi effluvi (“lì a dominare sono gli afrori della povertà […]”). Si tratta di una comunità viva che si distingue per l’imponente attività di volontariato sociale, portata avanti con dedizione e senza distinzioni etniche, religiose o di orientamento sessuale, oltre che per il ruolo di avanguardia dei diritti civili, essendo stata una delle prime istituzioni religiose occidentali a celebrare matrimoni gay.
La messa domenicale tenuta in quella chiesa diventa un vero e proprio evento grazie allo strabiliante coro che in quell’occasione vi si esibisce, conquistando in un battibaleno gli spalti pieni di fedeli (ma fedeli non è la parola giusta dato che a detta di Piretto la navata si riempie di “credenti, atei, miscredenti e infedeli”), in delirio. Ecco, l’autore descrive a parole la sensazione portentosa e avvolgente di trovarsi in un luogo del genere pur sapendo che la descrizione non basta, ragion per cui non manca di condurvi ogni ospite o compagno di viaggio con cui si fosse trovato nei suoi pressi. Dopo aver vissuto un’esperienza così straordinaria, allora, pensando di volerne in qualche modo serbare una traccia, si dota del CD con le registrazioni delle performance del coro:
Anche da lì avrei riportato a casa un CD che raccoglieva i canti del Glide Ensemble, ma dopo un primo ascolto lo avrei riposto sullo scaffale per non suonarlo mai più: nulla poteva eguagliare l’atmosfera, l’aura, la gente di quel luogo e provare a evocarle altrove sarebbe stato un gesto quasi blasfemo. (p. 191)
La selezione operata dalla traccia audio non può rendere l’idea della complessità sinestetica dell’esperienza vissuta. Non si può surrogare l’esperienza del viaggio, esserci è l’unica soluzione. Ma la frustrazione di ascoltare il CD senza ritrovarci l’essenziale vale anche come testimonianza di una ricerca, concretissima, di modi per rendere l’idea di quel medesimo essenziale. Ed è quindi, a partire da questo tentativo fallito che la cucina può rivelare la sua carta in più:
Nulla può equivalere a un Plov gustato seduti su un tappeto tra la folla di un mercato a Samarkand. Come molti altri piatti del mondo l’atmosfera in cui lo si assapora è parte integrante della ricetta, oltre alle materie prime esclusive e irripetibili. Consapevoli di questi limiti ci si può concentrare per far sì che, senza scendere in patetiche ricostruzioni di situazioni esotiche, la preparazione e il consumo di determinate ricette mantenga un che di rituale e non vada sprecata in affrettate soluzioni che la mortificherebbero. Per il Plov ci vogliono tempo, pazienza e concentrazione. Il risultato premierà chi non li lesinerà. (p.195)
Se è vero che nulla “equivale a un Plov gustato seduti su un tappeto tra la folla di un mercato a Samarkand” (e questo, si è detto, costituisce uno stimolo fondamentale a mettersi in moto eventualmente fino a Samarcanda), la cucina può aiutare a riappropriarsi di una condizione percettiva d'insieme, chiamando in causa il corpo nella sua dimensione tattile, aurorale, caratterizzata dall’enigmaticità e dall’imperfezione. Fra le arti, la cucina non può che apparire quella che più si attaglia a mettere in forma la complessità sfuggente di un’atmosfera e delle sue trame ancestrali, permettendo a chi si rendesse disponibile alle sue sollecitazioni di non disunirsi e, d’altra parte, di uscire fuori dalle proprie abitudini percettive in nome dell’incorporazione. Si capisce, allora, il ruolo profondo che le ricette svolgono in un libro di questo genere: parlano del piacere di incorporare l’alterità che si attraversa, alla ricerca dell’insostenibile leggerezza dell’essere in viaggio. Gustare i piatti “raccontati” nel testo, non prima di essersi sbattuti per recuperarne i bizzarri ingredienti (sono ricette cosmopolite provenienti da svariate tradizioni culinarie), diventa un modo di prefigurare l’esperienza del viaggio e delle sue infinitesimali suggestioni.
Ed è, ancora, per questa via, ovvero viaggiando, che si potranno riconoscere gli ingredienti atmosferici fondamentali della propria felicità. Piretto trova i suoi:
Le frequentazioni londinesi non si sarebbero mai fermate, soltanto diradate nel tempo, ma l’antico amore per la città continuava e ogni occasione era buona per ritornarci. Il museo del London Transport, situato in quello che era il settore dei fiori nell’oggi affollatissimo e turistico mercato di Covent Garden, in particolare la sua collezione di poster che nei decenni avevano reclamizzato metropolitana e bus, sarebbe diventato una tappa irrinunciabile. Uno, risalente, al 1998, avrebbe fatto per lungo tempo bella mostra di sé appeso a una delle mie pareti, e ha lasciato un’impronta determinante nei miei gusti e nelle mie frequentazioni. Promuoveva un’atmosfera più che una destinazione, un luogo mentale e ricorreva a un’espressione italiana ormai entrata a pieno diritto nella lingua inglese: “alfresco”. Ambiente forse più parigino che londinese, ma la connotazione geografica non era determinante. Ciò che contava era lo spirito del momento evocato, l’idea di piacevolezza suggerita da pochi ma fondamentali elementi: un tavolino belle époque, sedie contemporanee, vino bianco tenuto “al fresco”, un cesto con pezzi di baguette, il semplice mazzo di garofani sul ripiano di marmo e l’improbabile grata su cui rischiano di sprofondare le gambe delle seggiole. Mi ci riconobbi, vi identificai un mio stato ideale. Lo avrei ritrovato e rievocato in mezzo mondo: da San Francisco a Parigi, da Roma a Berlino, da Istanbul a New York. Resta in assoluto la realtà che più mi piace sperimentare in compagnia: un angolo riparato, in piena città o ai margini di un abitato, l’attesa che la comanda arrivi, il gusto del primo sorso (di birra, vino, cocktail, non sono amante del caffè) e la complicità di chi lo condivide. (p. 227).
Riconoscersi felici “al fresco” diventa possibile in qualsiasi città a patto di trovarvisi “in compagnia”, sperimentando la propria umanità nella relazione in presenza. Tirando le somme di una tale teoria della percezione e riportandola all’attualità da cui il libro nasce, Piretto nota come sia stata proprio la dimensione conviviale dell’alimentazione a essere venuta meno durante il lockdown. Se è, infatti, vero che la cucina, nei mesi difficili che abbiamo attraversato, si sia rivelata una “pratica salvifica” utile a mantenere desta la capacità percettiva negata dalle circostanze, d’altra parte, ha finito per negare il suo ruolo transitivo di mediatrice delle relazioni fra diversi, estrinsecandosi come attività forzatamente solitaria e, quindi, inutilmente solipsistica. Ed è allora, con l’auspicio di ritrovare il mondo così come lo si era lasciato – angolo riparato dove sorseggiare un drink “al fresco” compreso – che il libro può avviarsi verso una degna conclusione, chiedendo al suo lettore di farsi trovare pronto in vista di tempi migliori.