Politics is so overrated. Michael Dobbs e lo storytelling

2 Gennaio 2015

Guida – dice – una “purple Panda”. Perché nel traffico grigiofumo di Londra ama “poter uscire dalla House of Lords e individuarla in un lampo, senza possibilità di errore, tra le file di berline tutte identiche, nere e blu”. E lo ripete divertito, sottolineando sonoramente la casuale allitterazione, resa più gustosa dalla verve consonantica dell’accento “very british” e beandosi del vezzo, tipicamente aristocratico, di fare dell’understatement un assoluto segno di distinzione.

 

Ma l’aneddoto, raccolto insieme a questa intervista nel corso dell’ultimo International Communication Summit a Roma, non è una semplice trivialità. Michael Dobbs, il creatore di House of Cards, è un furbo, sveglissimo, gioviale lord inglese: a lungo braccio destro di Margaret Thatcher, alla fine degli anni Ottanta, insoddisfatto da letture troppo banali e sfidato dalla sua (ex) moglie a fare di meglio, si scola una bottiglia di vino e scrive il primo capitolo della saga di House of Cards, che diventerà prima una miniserie inglese, poi la serie cult di Netflix prodotta da David Fincher e interpretata da uno spietato Kevin Spacey.

 

Da bravo inglese di buone maniere e buona cultura, anche Sir Michaels Dobbs ama l’Italia – come molti, come tutti, purché si parli di bellezza, cibo e bon vivre – ma per ragioni tutte sue. Ad esempio perché qui la politica, da sempre, è materia letteraria pregiatissima. Anzi è già letteratura in partenza: nasce così, naturaliter, senza neppure bisogno che qualcuno si sforzi di romanzarla.

 

Perché se è vero, come diceva Juri Lotman, che l'arte è quel procedimento che prende il caos e ne fa struttura, la politica italiana è, a suo modo, una forma d'arte assai raffinata. Capace di rendere sistematica, regolata, in certi casi addirittura sensata la sua innata, costitutiva entropia. Che poi è proprio quello che a Dobbs (forse un po’ italiano, anche lui, a sua insaputa) riesce meglio e che lo ha reso famoso, prima come autore bestseller di una trilogia politica stillante cinismo e intrigo, poi come ideatore di una delle più celebrate serie televisive degli ultimi anni.

Ammettiamolo: di politici letterati, ormai, ce ne sono ben pochi, anche se Dobbs, più che un letterato è un narratore puro, uno storyteller d'istinto e di razza. Uno che ha capito benissimo che, a onta dei proclami apocalittici, siamo in un’epoca affamata di narrazioni. Certo, non più le “grandi narrazioni” bandite dal postmoderno, quanto piuttosto piccole storie, intime e minimali, ma comunque in grado di fornire quel minimo di saldatura tra un ambiente mediale sempre più frammentato e un orizzonte di senso collettivo certamente sfuggente, ma tutto sommato ancora vivo.

 

In fondo è questo che rende lo storytelling una risorsa preziosa e sfruttatissima per il politico medio. Oggi chiunque abbia un ruolo istituzionale e governativo sembra avere grandi storie da raccontare, o almeno fare finta di averle. Salvo dimenticarsi che raccontare storie non è così facile, ed è anzi pericolosamente vicino, almeno nella percezione diffidente del pubblico italiano, alla pratica tutta nazionale del “raccontarsela”.

Il racconto, al contrario, è merce che scotta e bisogna saperla maneggiare. Non a caso lo stesso Dobbs, un paio di mesi fa, durante l’edizione europea dello stesso summit, aveva sarcasticamente raccomandato a Matteo Renzi di non prendere il suo libro House of Cards come un manuale di istruzioni. Aggiungendo poi, più di recente, che la politica reale richiede mano ferma e scarponi chiodati. Come dire: va bene alleggerire il carico del potere con l'arte del racconto, se questo serve a scardinare certi significati profondi, ma non dimentichiamoci di che materia è fatta, davvero, la politica, che rimane un affare duro e spiacevole, a cui, in ultima analisi, bisogna solo sperare di saper sopravvivere. E dove il valore massimo, se davvero si vuole far bene, è guadagnarsi il rispetto dei cittadini, a costo di essere odiati. Perché l'amore invece – sacro graal del politico 2.0, tutto selfie e narcisismo da camera – “is so overrated”. Direbbe Frank.

 

Michael Dobbs

 

Da qualche tempo, tutti in politica parlano continuamente dell’importanza di “scrivere una storia collettiva”, come se lo storytelling fosse una sorta di bacchetta magica capace di dare senso a ciò che non ne ha. La vera questione però è: sono in grado, i politici, di dare senso al presente o tutto questo insistere sulla bellezza del racconto è solo l'ennesimo chiacchiericcio del potere?

 

Una delle grandi sfide che oggi i politici si trovano di fronte è quella di riuscire a parlare a tutti nello stesso momento. La verità, però, è che non ne sono per nulla capaci, anzi se la cavano davvero male. Quello che fanno, perlopiù, è rispolverare all'occorrenza una sorta di prontuario lessicale, un vocabolario testato e assestato, in larga parte preso in prestito dal passato. Penso al concetto di “unione sempre più stretta”, nato in occasione del Trattato di Roma, quasi sessant'anni fa: quando fu coniata, l'espressione indicava la volontà profonda di unire i popoli d'Europa attraverso comunanza di principi e valori: oggi, invece, questa unione è intesa come unione tra governi, dunque in termini essenzialmente burocratici e istituzionali. Una visione miope, perché mentre i politici e le istituzioni vanno e vengono, la cultura e i valori d'Europa diventano sempre più forti. Certo, è solo una frase, sono solo parole. Ma di fronte alle parole della politica, bisogna chiedersi sempre: cosa significa questo, davvero? Cosa si intende? Pensiamo a quanto spesso e facilmente in politica si parla di libertà come se fosse un prodotto da garantire e non, invece, un valore profondo, complesso. Dimentichiamo, ad esempio, che la libertà di un uomo, spesso, implica l’oppressione di qualcun altro. La libertà non è un pacchetto pronto all'uso, da distribuire così com'è, come un oggetto, ma il risultato di un bilanciamento delicato: un bilancio politico, appunto. Ecco: quando i politici smettono di farsi queste domande e invece prendono una frase e la trattano come un cliché o peggio ancora come un assioma, una formula immutabile presa da una specie di Bibbia, allora iniziano i problemi e il racconto del potere diventa un coacervo di frasi casuali, svuotate di senso e potenzialmente dannose.

 

Una delle funzioni più importanti della letteratura e delle arti in generale è di rendere comprensibili fenomeni che appaiono troppo ambigui, opachi o complessi rispetto al senso comune. A volte la letteratura riesce semplicemente a spiegare le cose meglio di altri tipi di discorso. Secondo la sua esperienza, quando la letteratura affronta la materia politica, quali sono gli aspetti più difficili da trattare?

 

Tutti noi abbiamo idee e aspettative molto diverse e spesso conflittuali sulla politica e sui politici. Quasi tutti i politici che ho conosciuto hanno voluto diventarlo perché volevano migliorare le cose, non per se stessi, ma per il proprio paese, per la società e la comunità. La politica, però, è un affare spinoso, difficile: la semplice volontà di fare del bene, in politica, non è abbastanza. Per fare qualcosa, per ottenere qualcosa, devi poter mettere le mani sulle leve del potere, e arrivare al potere è un percorso molto scivoloso, che richiede, a volte, di sporcarsi le mani. La politica, insomma, non è un’attività pulita e piacevole. È una faccenda di potere. Per questo i politici che desiderano solo essere amati, che vogliono sì fare cose buone, ma con l'obiettivo di essere approvati, si trovano in una posizione molto vulnerabile, perché sono incapaci di giocare il gioco essenziale del potere. I politici che invece vogliono fare del bene, ma senza preoccuparsi di come ne usciranno, quelli che dicono: “Ho un lavoro da fare e non mi interessa cosa la gente dirà, perché alla fine mi giudicheranno comunque, in un modo o nell’altro”, solitamente sono gli unici ad avere delle chance di successo. Perché in questo modo riescono a generare qualcosa che in politica è di gran lunga più importante dell'amore, ovvero il rispetto. Solo il politico che ha ottenuto rispetto ha qualche possibilità di restare al suo posto a lungo e durante i momenti più difficili, mentre il politico che si preoccupa solo di essere apprezzato è destinato con ogni probabilità a fallire.

 

Il suo stile di storytelling è stato da qualcuno paragonato a quello di Shakespeare, essenzialmente per la sua abilità di mostrare il lato umano del potere, nel bene e nel male. Se dovesse paragonare l'essenza politica dei principali paesi europei a diverse opere di Shakespeare, quali sceglierebbe?

 

Naturalmente è bellissimo essere paragonato a Shakespeare, per quanto io non mi senta neanche lontanamente vicino al suo genio. E tuttavia è vero che in qualche modo, come faceva Shakespeare in modo assolutamente sublime, anch'io quando scrivo cerco di andare dietro la superficie della politica e di guardare le persone, le emozioni che stanno dietro. Sono sempre stato fortemente persuaso che è impossibile capire cosa una persona fa sulla scena pubblica senza capire cosa accade nella sua vita privata, nel retroscena. Saper comprendere o immaginare questo aspetto è assolutamente cruciale. Quanto alle analogie letterarie: beh, devo dire che personalmente ho sempre amato moltissimo Romeo e Giulietta. Perché è così assolutamente italiano: pieno di passione, pieno di incoerenze ed errori. Tutti prendono le decisioni più sbagliate, ma per le giuste ragioni. L'unica cosa che non mi piace è proprio che finisce in tragedia: forse avrebbero meritato un finale più dolce... Ma anche gli altri “italian plays” di Shakespeare hanno molto da dire. Ad esempio il Giulio Cesare è davvero un racconto universale. Molto di quello che so della politica deriva da quando, ancora un ragazzo, leggevo il Giulio Cesare. È la storia dell'uomo più potente del mondo, il più grande, che al culmine del suo potere viene tradito, pugnalato, distrutto dai suoi stessi amici. Questo ne fa una meravigliosa storia politica: c'è l'ambizione, c'è la nobiltà, ci sono i principi, il tradimento, tutto in un'unica soluzione. E soprattutto c'è il fallimento, qualcosa che mi ha sempre affascinato della politica. Qualcuno una volta ha detto: tutte le carriere politiche sono destinate a finire nel fallimento. Ecco, io sono un politico e forse è per questo che me lo ripeto spesso: perché voglio avere una possibilità di sfuggire al fallimento, di sopravvivere.

 

Per concludere col gioco delle parti: Silvio Berlusconi è stato a lungo il “main character” della politica italiana. Oggi c'è un nuovo primo attore, Matteo Renzi. Personaggi molto diversi per visione politica, età, stile, ma che stanno trovando comunque uno spazio inaspettato di dialogo. Se fossimo in un romanzo, come andrebbe a finire?

 

Partiamo da un presupposto: scrivere romanzi politici in realtà è molto facile. Tutto quello che devi fare è prendere la realtà e ricostruirla in modo che resti credibile, perché quello che avviene davvero nella vita reale non potrebbe mai stare in un libro, è molto più incredibile! Per l'Italia e per la politica italiana – così ricca di spunti, così “colorita” – questo è vero al massimo grado. Eppure, se penso alla coppia Renzi-Berlusconi trovo difficile immaginare una conclusione chiara, per nessuno dei due. Nel caso del primo, perché non so abbastanza della sua vita privata. Nel caso del secondo, invece: beh, perché ne so fin troppo...

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