Prestigio e Rinascimento: il Made in Italy

19 Giugno 2019

Il tema del Made in Italy è particolarmente rilevante per le numerose implicazioni sociali che lo caratterizzano. Eppure, la letteratura scientifica su tale tema è estremamente limitata. E soprattutto è limitata quella prodotta dagli studiosi di tipo accademico. Sembra che il tema sia poco interessante per l’università italiana, forse perché è strettamente legato a un altro tema tradizionalmente poco praticato dai ricercatori universitari: quello della moda. Ora ci prova Carlo Marco Belfanti con il suo volume Storia culturale del Made in Italy (Il Mulino). Però Belfanti è ordinario di Storia economica all’Università di Brescia e quindi da storico si interessa poco del Made in Italy odierno. Va alla ricerca delle radici del Made in Italy e si ferma sostanzialmente agli anni Cinquanta del Novecento. Comincia la sua analisi chiedendosi che cosa rappresenti il concetto di “Made in” e la sua risposta è che l’immagine di una nazione solitamente è determinata dai fatti storici che riguardano tale nazione. Ma poi rinuncia ad approfondire tale questione sostenendo che si tratta di qualcosa di troppo complicato. Gli interessa infatti prima di tutto criticare la tesi, sostenuta in precedenza da molti autori, che alla base di quei caratteri di creatività e buon gusto tipici dei prodotti italiani odierni c’è l’influenza esercitata da una secolare storia di creazione di prodotti artigianali raffinati e soprattutto di eccellenze artistiche. Ci sono cioè il costante confronto e la familiarità con la grande ricchezza del patrimonio di bellezza del nostro Paese, che hanno fortemente stimolato lo sviluppo di un’elevata sensibilità estetica negli individui. 

 

Belfanti però non è d’accordo con questa tesi, anche se, come si diceva, è stata sostenuta da molti studiosi. Nicola Squicciarino, ad esempio, ha sottolineato tempo fa, nel volume Il vestito parla. Considerazioni psicosociologiche sull’abbigliamento (Armando), l’importanza rivestita a questo proposito dall’egemonia culturale esercitata in Italia nel corso dei secoli dal Cattolicesimo, il quale ha saputo dare valore a degli elementi apparentemente in contraddizione con la sua morale, ma centrali per il pieno manifestarsi del Made in Italy e della moda: la dimensione sensoriale del corpo, la ricerca della bellezza e del piacere. Si pensi, ad esempio, a come all’interno delle sue chiese abbia valorizzato l’arte o a come spesso gli abiti dei suoi rappresentanti spicchino per la loro eleganza. Al contrario, la religione protestante, dominata dall’idea di dovere e da una concezione profondamente austera e puritana della vita, non ha lasciato spazio a manifestazioni estetiche di questo tipo.

Altri autori hanno aggiunto a queste considerazioni il ruolo svolto dall’abitudine sviluppata dagli italiani nel corso della loro storia a essere in contatto con una grande varietà di climi e paesaggi, ma soprattutto di popoli e culture. È l’opinione, ad esempio, di Stefania Saviolo nel volume di Corbellini e Saviolo La scommessa del Made in Italy e il futuro della moda italiana (Etas). E, secondo lo storico francese Pascal Morand che ha scritto un saggio contenuto nel volume curato da Ampelio Bucci Moda a Milano. Stile e impresa nella città che cambia (Abitare Segesta), l’atteggiamento di grande apertura verso gli altri popoli che caratterizza da sempre la cultura italiana è influenzato da uno sviluppo storico basato su rapporti di costante relazione con il resto del mondo. Rapporti che vanno, ad esempio, da quelli di dominio dell’Impero Romano sino a quelli drammatici dell’ondata migratoria rivolta soprattutto verso l’America sviluppatasi nel periodo a cavallo tra l’Ottocento e il primo Novecento, passando per le intense attività di scambio dei commercianti rinascimentali e le grandi scoperte di navigatori come Vespucci e Colombo. Insomma, in generale, gli italiani si sono sempre sentiti “cittadini del mondo”. 

Morand ha affermato inoltre che l’Italia è un Paese estremamente disperso sul suo territorio e ciò ha stimolato, fin dall’epoca dell’affermazione delle città-stato nel Quattrocento, la creazione di un’intensa specializzazione industriale su base regionale. Da ciò probabilmente è derivato quel ruolo fondamentale che i distretti hanno saputo svolgere nella storia del Made in Italy. Gli oltre 200 distretti produttivi italiani hanno già da molto tempo infatti adottato un modello unico al mondo fatto di specializzazione, ma anche di collaborazione e di flessibilità. Un modello grazie al quale nel corso dei decenni le piccole aziende italiane hanno potuto unire i loro sforzi e affrontare così a testa alta la difficile sfida dell’internazionalizzazione. 

 

 

Morand ha individuato infine un altro fattore che può essere considerato particolarmente significativo per lo sviluppo del Made in Italy: «l’Italia è particolarmente sensibile a una certa arte del vivere – come lo è la Francia, ma in una forma diversa. È più disposta a condividerla con il resto del mondo» (p. 160). La società italiana cioè è stata in grado di creare nel tempo un proprio particolare stile di vita particolarmente orientato verso l’arte del ben vivere, verso la capacità di godere dei piccoli piaceri quotidiani, e non ha mai avuto dei problemi a condividere tale stile di vita con altri popoli, forse anche per quella notevole apertura culturale di cui si diceva in precedenza. Morand ha fatto derivare tutto ciò anche dall’orientamento degli italiani verso il gusto di socializzare e intrattenere rapporti cordiali. Il che, sempre secondo Morand, deriverebbe a sua volta dal ruolo centrale che la famiglia svolge nella cultura del Paese. È noto del resto come diversi studiosi abbiano messo in luce da tempo il ruolo essenziale ricoperto in Italia dalla famiglia, a cominciare dal politologo americano Edward C. Banfield, che ha parlato tempo fa di «familismo amorale»: la famiglia si concentra su se stessa e sul suo privato, trascurando il senso di fedeltà allo Stato e il senso di appartenenza al Paese inteso come comunità di individui.

Tutto ciò sembra essere poco significativo per Belfanti, il quale tenta inoltre di mettere in discussione l’idea molto condivisa oggi che le radici del Made in Italy contemporaneo possano essere rintracciate all’interno di quel rivoluzionario movimento estetico e culturale che è stato il Rinascimento italiano. Belfanti fa partire il suo libro Storia culturale del Made in Italy da un’approfondita analisi della natura del Rinascimento, ma la sua opinione è che su tale periodo storico sia stata creata una specie di “mitologia” e soprattutto che non sia possibile accettare che esista un percorso storico lineare che dal Quattrocento arriva sino ai prodotti del Made in Italy di oggi. I quali pertanto sarebbero stati indebitamente associati all’elevata qualità estetica delle opere d’arte del Rinascimento italiano. 

Ciò è avvenuto soprattutto negli anni Cinquanta del Novecento allo scopo di legittimare e valorizzare la prima forma di moda italiana. Infatti, le nostre case di alta moda hanno prodotto sino alla fine degli anni Quaranta i loro abiti copiandoli dai bozzetti “rubati” o acquistati a caro prezzo nei più celebri atelier parigini e dalle riviste femminili, le quali del resto proponevano alle loro lettrici solamente i modelli provenienti da Parigi. Ma poi è iniziato un processo di emancipazione progressiva dei sarti italiani di alta moda dal modello dominante parigino e tale processo ha potuto svilupparsi nel corso dei decenni successivi anche richiamandosi al mito dell’eccellenza rinascimentale, sinonimo di prestigio e di sapienza artistico-artigianale.

 

L’opinione di Belfanti è che quel periodo d’intenso declino dell’Italia sul piano economico e culturale che si è presentato tra il Seicento e il Settecento abbia pesantemente indebolito l’eredità del Rinascimento. Nell’Ottocento, si è progressivamente diffusa, soprattutto presso un’élite sociale e culturale presente negli Stati Uniti, un’immagine seducente del Rinascimento, la quale ha favorito il consumo in tutto il mondo di prodotti e opere d’arte provenienti dall’Italia, ma il fatto che, con la crisi del Seicento e del Settecento, si sia interrotta la continuità sul piano storico tra l’epoca del Rinascimento e i prodotti del Made in Italy di oggi determina, secondo Belfanti, uno scorretto collegamento di tali prodotti italiani al loro passato rinascimentale. 

Probabilmente, sul piano dell’evoluzione storica Belfanti ha ragione, ma ciò interessa pochissimo ai consumatori di prodotti italiani, soprattutto a quelli stranieri, che trovano invece da sempre estremamente affascinante l’idea di poter acquistare un capo d’abbigliamento che contenga al suo interno un po’ di quella genialità che esprimevano nelle loro opere i grandi artisti del Rinascimento. Va considerato inoltre che storicamente il Made in Italy non avrebbe raggiunto il successo che ha ottenuto se non avesse saputo essere anche estremamente competitivo sul piano del rapporto qualità-prezzo dei prodotti offerti sul mercato. L’alta moda italiana, ad esempio, negli anni Cinquanta, grazie ai costi ridotti della sua manodopera, poteva praticare dei prezzi finali che erano circa il 50% di quelli dei concorrenti francesi. Oggi il Made in Italy non può più vantare dei prodotti con un rapporto qualità-prezzo competitivo, perché le imprese delle economie più povere possono disporre di un costo del lavoro notevolmente più basso. La risposta del Made in Italy, allora, non può che muovere dalla costruzione di barriere simboliche basate sull’attribuzione di significati di prestigio ai prodotti, i quali vengono in tal modo tolti dal rischioso terreno della competizione basata sul prezzo. E per realizzare tali barriere il patrimonio artistico del Rinascimento italiano può essere ancora estremamente prezioso. 

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