Protester
14 Dicembre 2011
Person of the Year, secondo Times, è the Protester, l’indignato.
Il metodo fenomenologico
La filosofia ha un tratto barbarico. Per questo filosofi e intellettuali, filosofi e uomini di cultura, sono spesso in rotta di collisione. I secondi, infatti, sanno un sacco di cose e se ne fanno un vanto, i primi, se sono filosofi, non sanno – o sanno di non sapere – e di quello che sanno dubitano. Se, ad esempio, si vuole andare alla radice dell’esperienza, e provare a descrivere il mondo per come appare, il sapere acquisito non solo fa difetto ma è di ostacolo. Così la pensava Edmund Husserl, a proposito del metodo che aveva battezzato “fenomenologico”. L’uomo di cultura, lo psicologo, il sociologo, tutti costoro credono infatti di sapere benissimo cosa è una passione, l’indignazione, ad esempio. E ne discettano dottamente. L’indignazione è, appunto, per loro un sentimento, una passione, un oggetto psicologico ed un oggetto sociologico, qualcosa che, insomma, sta dentro la testa degli uomini, un loro vissuto soggettivo o intersoggettivo. Per lo sguardo barbaro del fenomenologo, invece, l’indignazione è, innanzitutto, una proprietà del mondo, una sua qualità primaria, non diversa da quelle che il senso comune attribuisce senza difficoltà alle cose reali, come il peso, il movimento, la lunghezza ecc.. È quanto egli intende con il termine, senz’altro equivoco, di “coscienza intenzionale”. Con questa espressione non vuol dire, come invece sembrerebbe, che l’indignazione è un fenomeno soggettivo, ma, all’opposto, che è massimamente oggettivo. Il mondo, proprio lui, si presenta con il tratto della non-dignità allo steso modo in cui un oggetto pesa o una faccia è simpatica o antipatica. “Fenomeno” per la fenomenologia è il farsi presente del mondo e solo in seconda battuta è ciò che è per l’uomo di cultura, vale a dire un vissuto psicologico individuale o collettivo.
Violenza
Dignum in latino ha lo stesso senso di axios in greco. Vuol dire meritevole di, avente diritto a, e, dunque, dotato di valore. Un mondo indegno è allora privo di questo tratto. Esso si presenta immediatamente con la qualità del non valido, del non meritevole di essere. Si noti il paradosso: un mondo indegno è un mondo che è non avendo titolo ad essere. La violenza lo caratterizza fin dalla sua prima apparizione, perché essere senza averne titolo significa usurpare, significa imposizione ed arbitrio. Il filosofo-fenomenologo mette subito in chiaro le cose: ogni discorso sulla indignazione implica necessariamente un riferimento preliminare alla violenza, nella sua duplice forma, come violenza subita a causa di un’imposizione e come violenza connessa al rigetto di questo arbitrio. La coscienza indignata, checché ne dicano i fautori ad ogni costo della pace sociale, è interamente immersa nell’elemento della violenza. È, per così dire, nutrita di violenza, è fatta di violenza.
La protesta e la rivoluzione
La coscienza indignata non è ancora un soggetto indignato. Anche di questa distinzione siamo debitori ai fenomenologi. La prima nomina un’apparizione di mondo, il suo (del mondo) presentarsi con il tratto della violenza, la seconda si riferisce ad un io individuale o collettivo che esprime un giudizio di valore sul mondo e segue una condotta determinata. Tecnicamente la differenza che intercorre fra le due è la differenza che passa tra il pre-riflessivo e il riflessivo. Per rendere sensibile il senso di tale differenza in modo non tecnico possiamo dire che l’indignazione, in prima battuta si presenta nella forma, per altro in Italia ben nota, di una protesta dai contorni generici e indeterminata nei contenuti. Al punto che gli osservatori esterni faticano a identificare movente e finalità della protesta. Il protester della copertina di Times è tale perché enuncia la sua protesta, perché dice “io protesto!” e basta. Inutile chiedergli perché. Si avranno da lui risposte confuse, che faranno riferimento ai più vaghi e contradditori moventi perché ciò che conta per lui è solo che il fuoco dell’indignazione sia alimentato. A questo livello l’indignazione si presta ai più svariati usi: dalle banche e dai finanzieri può slittare facilmente anche sugli zingari e sugli immigrati. Il secondo livello della indignazione, quello riflessivo, implica invece il costituirsi di un soggetto indignato, un soggetto che si indigna di questo a causa di quello e che agisce di conseguenza sulle cause materiali che sfigurano il mondo. La violenza, allora, da puramente verbale (“io protesto!”) si fa “metodo”, diviene principio della trasformazione dello stato di cose. Se la coscienza soltanto indignata è una coscienza reattiva, sostanzialmente risentita e, quindi, disponibile a qualsiasi uso, il soggetto indignato è invece un soggetto rivoluzionario. Così lo battezzava la teoria politica classica. Rivoluzionario non vuol dire altro che questo: quel soggetto lotta violentemente per la restituzione al mondo di quel tratto di valore, di dignità e di diritto ad essere, di cui il mondo è stato violentemente privato.