Speciale

Rappresentare il non-rappresentabile

10 Febbraio 2015

Mattia Cacciatori è un giovane fotoreporter che ha trascorso parte degli ultimi anni in Cisgiordania, a Ramallah, per documentare il conflitto israelo-palestinese. I suoi amici sono dunque abituati ad averlo lontano, a saperlo in giro per il mondo. L’8 luglio 2013 le prime pagine dei giornali accostarono, all’improvviso, le parole Mattia e Farnesina, io stesso mi ero quasi scordato che il mio amico fosse in Turchia per le rivolte di Gezi Park. Stavo seguendo, tra l’inerzia di Twitter, quelle giornate di Istanbul e quando la parola Mattia entrò nello schermo, in tutti gli schermi, mi trovai senza più nulla da dire e senza più nulla da pensare su quei giovani che vedevo manifestare e sulla questione turca in generale. D’un tratto l’unica immagine possibile di quella rivolta era formata da quell’insieme di parole che, lapidarie, su tutti i quotidiani italiani online e non, descrivevano l’arresto di Mattia da parte della polizia turca. Il flusso di notizie e immagini riguardanti le manifestazioni si era improvvisamente arrestato in una terza dimensione, la profondità della prossimità di Mattia alla mia vita: un evento sospeso come il fiato, che a differenza di tutte le altre notizie di quella rivolta, non aveva alcun prima e alcun dopo. Quell’evento inaspettato e senza tempo mi consegnò immediatamente qualcosa di più forte di tutto il flusso, organizzato e ben dispiegato cronologicamente di immagini che sapevo guardare, che sapevo riconoscere, mi consegnò qualcosa che non corrispondeva a quello statuto di rappresentabilità della rivolta che il mio sguardo abituato agli schermi della Tv e del computer maneggia ancora oggi con abilità. L’immaginario costruito attorno a Gezi Park era effettivamente perfetto, sapevo cosa aspettarmi, mi nutrivo di qualcosa di cui conoscevo già il gusto. Nel momento in cui non ho avuto più immagini possibili, ma solo il nero di quella lettera M seguita dalle altre, l’intensità di Gezi Park mi fece sudare le mani, mi lasciò interdetto.

 

Come è possibile, quindi, rimanere interdetti di fronte alle immagini che ogni giorno abbiamo, delle rivolte? Mentre parliamo Mattia mi mostra una serie di immagini impubblicabili: “Non la piazzerai mai in nessun servizio, un’immagine come questa non interessa a nessuno”, mi dice, senza distogliere gli occhi dallo schermo del computer. Gli ho raccontato quel che ho provato di fronte alla vista della cucina di sua madre durante le interviste dei telegiornali, a come quel legno e quelle mura avessero assorbito, come le lettere del suo nome sui quotidiani, tutta l’intensità e la profondità di Gezi Park; ho voluto chiedergli seccamente quale fosse il suo rapporto con le immagini che è riuscito a vendere alle agenzie, quelle pubblicabili, quelle che creano un frame adatto ad essere piazzato sui giornali: “ogni volta che scatto una foto che mi colpisce, diversa dalle mille altre, scatto subito una foto successiva con la mano sopra l’obiettivo. A casa poi, mentre le scorro al pc, il nero dello schermo mi ricorda di prestare attenzione alla foto precedente”. Anche per lui, la verità di un’immagine spendibile della rivolta – come quelle che vedevo di Gezi Park – ha in qualche modo a che fare con il nero, con il vuoto dell’immagine. Delle chiacchierate con Mattia è sempre memorabile il momento in cui tutta la mia teoria filosofica va ad incarnarsi in un suo gesto, corrispondendo perfettamente con una sua azione abituale, che scopro casualmente essere per lui naturale: “Mentre scatto un reportage non riguardo mai le foto, ho un pezzo di nastro adesivo sopra lo schermo digitale della macchina fotografica, per non farmi disturbare, per non dover io stesso riguardare quelle immagini e fermarmi”. Semplicemente, se volete, non c’è il tempo di farlo. Tuttavia questo gesto di Mattia ci dice che un racconto, per immagini, per cornici, per click o cliché di un flusso impersonale in divenire, come la rivolta, non è possibile per definizione.

 

Non era possibile, per me, giungere ad una verità di Gezi Park attraverso le immagini della televisione. Anzi, le uniche immagini che riconoscevo come immagini della rivolta erano immagini che avevo bisogno di vedere, assetato com’ero che qualche fumogeno o qualche scudo della polizia spuntasse in video – per questo, forse, non mi sono interessato a quel che accadeva ad Honk Kong alla fine dell’anno appena concluso: perché non c’erano fumogeni. Così, guardando le immagini di Istanbul riconoscevo un flusso che corrispondeva perfettamente ai predicati dell’immaginario sulla rivolta che porto con me, e ne provavo piacere, mi dicevo: “Sì, questa è una rivolta, sono d’accordo”. Ho cercato quindi di parlare con Mattia dei problemi del narrare una rivolta attraverso le immagini e nel nostro dialogo siamo giunti ad un punto problematico: l’impasse ha a che fare con la staticità e la dinamicità della rivolta e con la staticità e la dinamicità dell’immagine nella narrazione. È stato opportuno, nella nostra chiacchierata, capire quali fossero le caratteristiche di un’immagine che diviene spendibile come immagine sulla rivolta.

 

 

“Le immagini che guardavi di Gezi Park sono narrazioni, e sono narrazioni accomodanti”, mi dice Mattia, “guarda il giallo di questa pistola giocattolo, guarda gli occhialini, secondo te potrei mai vendere una foto simile? Non la accetterebbe mai nessuno”. È una foto inaccettabile, questa. Non ci sono i fumogeni, non ci sono manganelli e soprattutto non c’è violenza. “Il problema proposto da questa foto è che ci appartiene, si avvicina alla quotidianità di ogni nostra azione, più che al conflitto di una piazza”. Ciò che pensiamo della rivolta tende a rimanere invece lontano da noi, le immagini vendibili devono permetterci di osservare il fumo, le armi e le cariche dalla comodità della nostra quotidianità. L’immaginario della rivolta è qualcosa che abbiamo fagocitato nella sua esclusione dalla nostra esistenza, “le uniche immagini vendibili sono quelle di chi lotta per i diritti che l’occidente già possiede e condivide, e lo fa con modalità che devono sembrare il più lontano possibile da noi”, continua Mattia.

Qui sorge il primo problema fondamentale del rappresentare la rivolta, una narrazione per immagini crea una storia, una progettualità, una strategia della rivolta, ma la rivolta è senza strategia e senza cronologia. Pensiamo, noi che fruiamo di quelle immagini, di poter farci un idea del percorso che chi si rivolta sta seguendo, un percorso destinato a trionfare o fallire: le immagini che guardavo di Gezi Park riportano una temporalità progettuale da seguire e a cui appassionarsi, ma inesistente, costruita. Ci sono protagonisti, personaggi ben precisi e schierati, i manifestanti, la polizia, gli abitanti, ci sono trame e ci sono copioni. Ma cosa mi dice tutto questo dell’evento della rivolta?

 

 

Le immagini che siamo abituati a vedere della rivolta fondano qualcosa di stabile, istituzionalizzano e danno uno spazio, un luogo e una memoria a qualcosa di impersonale che spazio, luogo e memoria non ha, e che attraversa le vite dei rivoltanti in un divenire privo di oggettualità da raggiungere, pregno di tutta l’intensità di un presente eternamente pronto a riattualizzarsi ovunque, latente e senza un passato da fissare nel passato da commemorare: la rivolta. L’immagine è il permanere nel presente di qualcosa di passato, ma la rivolta non è e non ha un passato – se non nelle immagini stesse -, creare uno statuto d’immagine della rivolta significa dunque tradire la sua stessa natura di eterno presente impersonale, significa farne una lotta strategica per dei diritti, “questo funziona, questo vogliamo vedere e questo mi chiedono: una lotta per i diritti, black block che lanciano pietre, parte di una narrazione che siamo abituati a guardare. I black block è ovvio che stiano lì, è il loro ruolo, il loro posto. Persone che ballano, all’interno di una rivolta, hanno bisogno d’esser giustificate, il loro posto sarebbe qui con noi, in Italia. E invece sono a Gezi Park nel pieno delle manifestazioni”. Le immagini divengono spendibili nella rivolta quando raccontano qualcosa di lontano da noi, tradendo, ripeto, la verità ultima della rivolta: il suo poter essere già qui e già ora, nella nostra carne, il suo poter avvenire ovunque noi siamo.

 

Esasperare una narrazione della rivolta diviene quindi la presa a carico da parte di un potere simbolico, di senso, di qualcosa che a questo potere sfugge costitutivamente, con il risultato di allontanare la rivolta dalla sua verità e di perdere tutto l’intento di testimonianza di un reportage. Il problema della rappresentabilità della rivolta è un problema del non-rappresentabile, del non-testimoniabile perché la rivolta appartiene, ontologicamente, ad un luogo altro rispetto a quello della parola e della narrazione per immagini. Può soltanto essere uno strappo che in questo simbolico crea uno spostamento, indicibile, inenarrabile. Si possono trovare due giocolieri all’interno della narrazione, o dei poliziotti che chiacchierano senza scudi, nella pausa, con del caffè e delle sigarette su delle banalissime sedie di plastica. “Non pensare di saperne qualcosa, guardando alcune foto, in fondo io vendo ciò che vuoi vedere tu e quando lo vendo vuol dire che è fatto molto bene”, letteralmente, attraverso le parole di Mattia, la rivolta ci allontana più di qualsiasi altra esperienza dal binomio vedere-sapere. Della rivolta non ne sappiamo qualcosa perché la vediamo, ma vediamo di essa soltanto ciò che sappiamo, attraverso il nostro sguardo carico di immagini e di desiderio d’aver subito inteso la sua conformazione strategica. Ma intendere qualcosa che passa sotto all’intendibile e al descrivibile significa strapparlo dalla sua natura e ri-assemblarlo in una narrazione che non squarcia, come la cucina in legno della madre di Mattia, ma che asseconda il simbolico come un fumogeno.

 

 

Rimane da specificare, dunque, cosa possano invece raccontarci della rivolta queste immagini invendibili. Alla fine della conversazione con Mattia posso riguardare le tre foto che mi ha donato e scoprire che sono immagini che mai fermerebbero il mio sguardo, sono immagini che scorrerebbero trasparenti come lo scorrere del tempo della mia quotidianità. Questa è la loro forza: parlano della mia quotidianità, e la quotidianità ci è trasparente come l’acqua, quell’acqua, del famoso discorso di Wallace, che i pesci non vedono più. Sono immagini che mi sono comuni, che condivido, in cui ritrovo la mia esistenza in un’esistenza lontana. Sono immagini impersonali che raccontano qualcosa della mia vita, come scherzare con una pistola ad acqua o veder qualcuno danzare in uno spazio pubblico. “Quegli scatti sono stati fatti all’interno di manifestazioni enormi, in momenti di tensione costante e fortissima”, mi dice Mattia, e allora, se quelle sono immagini della rivolta, la rivolta può essere anche qui. Mi sono intime, quelle immagini, mi dicono che al di là della violenza anche io potrei essere sempre stato lì e che la rivolta potrebbe essere sempre stata qui, potrebbe essere sempre qui, latente, intima ed estremamente prossima alla mia esistenza. Non avrei nulla da dire di quelle immagini, scorrerebbero sotto il mio sguardo, esattamente come la rivolta, che, ontologicamente, scorre tra l’impersonale della nostra singolarità e nel tra tra le nostre vite, nascosta ma pronta ad esplodere in un evento scaturito dall’innocuo, dal comune, all’interno della normalità più banale di ogni giorno.

 

La rivolta è invece sempre rappresentata lontana dalla nostra quotidianità, le immagini che vediamo ogni giorno sono cariche di un senso che non ci appartiene, e, per questo costruito: il legno della cucina, che avevo visto nell’intervista alla madre di Mattia, è di per sé legno vuoto, è invisibile. È stato un pezzo di vita mia, Mattia, ad andare a portare la mia intimità in quegli spazi, in quei luoghi, e ad iniziare a farmi pensare a tutto questo, ha fatto sì che il legno vuoto assorbisse un immaginario intero rendendolo buio, ha iniziato a farmi pensare che qualcosa di lontano fosse invece incarnato qui, nell’oggetto apparentemente più neutro delle nostre vite: neutro, impersonale ma d’improvviso intimo e totalizzante, è l’evento della rivolta.  

 

Tutte le fotografie sono di Mattia Cacciatori.

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