Incontro con Jane Goodall / Reimparare dagli scimpanzé
Risponde al telefono con una voce leggera, quasi un sussurro, appena punteggiato dal ritmo inconfondibile del suo perfetto accento britannico. Da quel sussurro, però, traspare tutto di lei, della lady indiscussa dell'etologia mondiale: l'unicità della sua storia, la fermezza con cui l'ha costruita, passo dopo passo, e tutta la forza di 40 anni di studio e di passione. Per la scienza, per la natura e per le sue creature, che ogni giorno – dice – ci insegnano qualcosa di nuovo, a partire da nuovi modi di interagire e di concepire il linguaggio e le stesse facoltà intellettuali.
Così è nato l'incontro con Jane Goodall: con la voglia di guardare ai primati attraverso la lente della comunicazione. E per esplorare ipotesi molto ambiziose. Da sempre interessati a percorrere tutte le strade possibili per portare alla migliore comprensione del linguaggio, allo scopo di esplorare la comunicazione dei valori tra istituzioni e cittadino, abbiamo visto nel dialogo con la nota antropologa ed etologa inglese, fondatrice del Jane Goodall Institute e Messaggero di pace per l’ONU, la possibilità di allargare lo sguardo ben oltre il confronto tra diverse culture umane: l’uomo è il membro più intelligente dell’ordine dei primati. Guardando i più vicini tra i nostri parenti in vita, legati a noi da comuni antenati, potremo forse cogliere nuovi punti di vista, nuove frontiere della ricerca, verso un minimo comune denominatore nella comunicazione tra forme di vita intelligenti. Jane Goodall, da sempre abituata a rompere gli schemi della scienza, ha accettato di dialogare partendo da questa ipotesi, coerente con la sua visione degli scimpanzé come di nostri pari degni di attenzione e rispetto.
I suoi studi hanno portato a ridefinire il concetto di identità animale, rintracciando comportamenti umani negli scimpanzé e valutandone quindi “il grado di umanità”. Si potrebbe però ribaltare la prospettiva e chiedersi cosa gli uomini hanno ancora di primordiale, anche e soprattutto nella comunicazione. Detto altrimenti, crede che attraverso il comportamento dei primati possiamo comprendere modalità di linguaggio ancestrali, di cui abbiamo perso consapevolezza?
Personalmente la mia opinione è sempre stata questa: anche se le scimmie e gli scimpanzé sono cognitivamente capaci di comunicare in modalità simili a quelle del linguaggio umano, detto altrimenti possono usare il linguaggio dei segni o i lessigrammi (simbolo che rappresenta una parola, abitualmente usata per testare le capacità lingustiche dei primati ndr) e possono ovviamente comprendere simboli astratti, non hanno tuttavia sviluppato un linguaggio verbale propriamente detto, ovvero fatto di parole.
Questa, a mio parere, rimane la differenza più grande tra noi umani e gli animali. Perché è la capacità di comunicare a parole che ci ha reso capaci di imparare dal passato, grazie alla possibilità di tramandare storie, sia scritte che a voce, ma anche di fare progetti nel futuro lontano.
Soprattutto, ci ha reso capaci di discutere e ragionare, portare a confronto diversi punti di vista su un singolo problema, fino a trovare una soluzione condivisa. Non solo: grazie al linguaggio verbale possiamo insegnare ai nostri figli, far loro apprendere concetti e cose anche se non sono presenti. E tuttavia, io credo che gli scimpanzé siano capaci, in qualche maniera, di comunicare in questo modo; se non verbalmente, certamente sul piano intellettuale. Mi rendo conto, però, che non tutti sarebbero disposti a condividere questa idea.
La cultura digitale ha prodotto una sorta di salto evolutivo, rispetto al quale il linguaggio stesso sta ripensando le proprie radici: penso ad esempio la dematerializzazione dei rapporti tipica dell'era digitale, ma anche al “ritorno” di modalità spontanee e incontrollate come il passaparola. Cosa ci può insegnare il linguaggio dei primati in questo senso?
Certamente credo che qualcosa che possiamo imparare – o reimparare – da loro è l’importanza del contatto fisico, del tatto, dei gesti, perché dal punto di vista evolutivo è qualcosa che gli umani hanno sempre usato, che ci accomuna a loro e che costituisce un fondamentale elemento di regolazione della comunicazione interpersonale.
È vero: sotto questo aspetto l'era digitale ha certamente contribuito a separare le persone. Ed è chiaro che se si comunica senza il feedback del contatto diretto, qualcosa si perde. Se ad esempio capita di dire qualcosa di cattivo o di molto spiacevole a qualcuno, attraverso il contatto fisico si può subito fare ammenda, tendergli la mano e toccarlo, specialmente se si tratta di un bambino. Attraverso la comunicazione digitale tutto questo non è possibile.
Per almeno due secoli la scienza è stata per la società un’incredibile fonte e motore di immaginario e di visioni di futuro. Oggi questo ruolo sembra svolto dalla tecnologia, che però è per definizione scienza applicata, dunque molto meno visionaria e più ancorata al presente o a un futuro prossimo. Qual è oggi il ruolo della scienza e del discorso scientifico nella società? Affascina ancora o è diventato un argomento tra gli altri?
Penso che uno dei problemi della scienza, oggi, almeno dal mio punto di vista, sia l’idea che la ricerca debba escludere la soggettività. Vede, attraverso quello che faccio mi capita di avere molto a che fare con i giovani, e mi rendo conto di quanto molti di loro si sentano respinti dalla scienza, perché la percepiscono come una disciplina estremamente fredda. In altre parole, esiste il pregiudizio per cui il buon scienziato deve essere obbiettivo e non mostrare mai empatia con l’oggetto del suo studio. Per come la vedo io, è un modo sbagliato di pensare. Lo penso da sempre: quando iniziai a studiare gli scimpanzé, mi fu detto chiaramente che non dovevo dare loro dei nomi, che dovevo identificarli solo attraverso numeri, perché era, appunto, “più scientifico”.
Non era pensabile parlare di loro come di animali dotati di menti capaci di risolvere problemi o di provare sentimenti e neppure di avere una propria personalità. Ma io mi ero persuasa del contrario, fin da bambina – è stato il mio cane, in un certo senso, a insegnarmelo – e in seguito sono sempre rimasta fedele alla mia opinione. Al di là del mio caso personale, comunque, credo davvero che lo studio del comportamento dei primati abbia aiutato, all’epoca, ad aprire le menti degli scienziati.
Riguardo al rapporto con la tecnologia: dipende da come la si guarda. Certamente la scienza non può ridursi alla sola applicazione tecnologica. La tecnologia sta portando incredibili innovazioni, cose che, da bambina, avrei considerato pura fantascienza. Ma la scienza ha ancora un grande ruolo da giocare nella comprensione del comportamento sia umano che animale.
C’è ancora moltissimo da scoprire nel mondo naturale: pensiamo solo ai miliardi di minuscole creature che devono ancora essere scoperte nell’oceano e nel suolo, o tutto quello che c’è ancora da imparare sul cambiamento climatico.
Oggi siamo sommersi di informazioni, aumenta la condivisione di conoscenza sì, ma anche la dispersione e molte notizie scientifiche davvero importanti si perdono nel chiacchiericcio che ci circonda. Quali rischi e quali opportunità porta alla scienza questa situazione di ipercomunicazione? Penso ad esempio al concetto stesso di verifica, che ormai sembra ininfluente per il cittadino medio.
È difficile rispondere. Dipende molto da quello che viene detto agli studenti o ai singoli scienziati. Credo comunque che in effetti tutto il rumore e il brusio che circonda la nostra comunicazione, spetti a noi riempirlo di senso. Forse dovremo iniziare a prevedere a scuola corsi interamente dedicati a questo, per insegnare ai giovani, fin da tenera età, come muoversi in questo ambiente, in modo da non esserne completamente sopraffatti.
Parlando di futuro: uno dei suoi progetti attuali è quello di ottenere il riconoscimento di alcuni diritti fondamentali ai primati. In che modo la scienza può aiutare una battaglia politica di questo genere?
In realtà il riconoscimento dello status di persone alle scimmie non è un mio obiettivo personale, anche se mi è capitato di abbracciare e sostenere la causa. Il mio impegno, al momento, è più che altro per la responsabilità umana. Su una cosa non c’è dubbio: contrariamente a quanto si credeva in passato, oggi sappiamo che gli animali sono esseri senzienti e sapienti, sappiamo che sono capaci di una sorta di “dialogo intellettuale”. A lungo la scienza ha affermato che gli uccelli non sono capaci di grandi performance intellettuali perché il loro cervello è diverso da quello dei mammiferi.
Ora sappiamo che non è vero. Abbiamo capito che persino i polpi, che neppure hanno un cervello vero e proprio ma solo un sistema nervoso essenziale, sono capaci di incredibili atti di intelligenza.
Quanto agli scimpanzé, col tempo siamo stati in grado di individuare tutti i modi in cui questi esseri sono capaci di provare emozioni e ragionare, così come di essere responsabili l’uno per l’altro e mostrare altruismo o altri comportamenti sociali. Ma c’è ancora molto da imparare sul modo in cui la mente e l’intelligenza animale funzionano. Non c’è dubbio che la scienza, attraverso questa sfida, può contribuire a dare un impulso decisivo al dibattito politico su questi temi.
Nelle scienze umane come l’etologia il modo di osservare influenza ciò che si osserva: quanto la sua capacità di “vedere diversamente” è stata determinante?
Nel mio caso, sono convinta che la capacità di provare empatia con gli scimpanzé e di usare l’intuito siano stati fondamentali. Esattamente quello che mi era stato prospettato fermamente come inappropriato! Ad ogni modo, in particolare quando ci si trova a studiare qualcosa di così vicino a noi come i primati, credo che l’intuito e l’empatia siano davvero importanti, perché quello che si osserva è una sequenza molto complessa di comportamenti. E ti ritrovi a pensare: “Caspita, questo è incredibilmente umano”, oppure “Ecco, si stanno comportando così perché...” e così via. E questo modo di vedere ti permette di ritagliare una sorta di spazio dal quale puoi osservare e rispondere alle giuste domande. Ma se non lo fai, se non ti è permesso di pensare in termini antropomorfi – per usare il termine tecnico – se non ti concedi la possibilità di pensare che quell’animale potrebbe comportarsi in un certo modo perché è quello che faresti anche tu al suo posto, rischi di perdere intere direzioni di ricerca. Per me, è stato questo a rendermi differente dagli altri scienziati del tempo: anche se non ho mai voluto essere una scienziata! Volevo essere una naturalista. Fu Louis Leakey a insistere per farmi ottenere un dottorato. Ma in fin dei conti sono felice che l’abbia fatto perché altrimenti non avrei imparato così tanto e non avrei saputo dare il mio contributo a questa ricerca, ancora aperta.
Jane Goodall Institute
«Avrei continuato volentieri a vivere in mezzo ai miei scimpanzé, ma ho capito che dovevo tornare nel mio mondo e raccontare i danni che la nostra specie stava facendo all’intero ecosistema». Dopo 40 anni di impegno in Africa, in mezzo ai primati, e di grandi progressi nello studio e nella comprensione della specie (che le sono valsi importanti premi e riconoscenze), Jane Goodall ha deciso che era arrivato il momento di cambiare vita, ma non il senso della sua missione. Così ha preso per mano la sua organizzazione non-profit – il Jane Goodall Institute, attivo dal 1977 a San Francisco – e lo ha portato in giro per il mondo, per sensibilizzare l’opinione pubblica sui problemi ambientali e animali e dimostrare l’importanza della ricerca sul campo. Oggi l’Istituto promuove i suoi progetti di sviluppo, di tutela ambientale, di educazione ambientale e interculturale in tutto il mondo grazie a un’ampia e solida rete di collaboratori distribuita in 21 Paesi, tra cui l’Italia, dove è presente dal 1998 per iniziativa della biologa Daniela De Donno Mannini, attuale presidente. In perfetta sintonia con i principi e la filosofia promossi dall’etologa e dal suo Istituto, JGI Italia è impegnato in progetti di cooperazione allo sviluppo in Tanzania, a sostegno di orfani e ragazzi di strada attraverso la scolarizzazione e la formazione professionale, nella diffusione di una cultura scientifica ed ecologista in Italia, rivolta in particolare ai giovani, attraverso il programma didattico e formativo Roots&Shoots, nel miglioramento delle condizioni di vita dei primati in cattività, nell’educazione ambientale e protezione animale.
Già pubblicato su ICS Magzine 1/2016