Remix, di Vito Campanelli

10 Dicembre 2015

Il libro di Campanelli arriva in un momento storico in cui chi studia la cultura digitale, le sue proprietà estetiche e le sue conseguenze sociali ha ormai maturato un forte scetticismo e una buona dose di disincanto, dopo la grande sbornia degli entusiasmi generati dalla popolarità del web 2.0 e dei social media. Dagli scandali della NSA in poi, passando per gli editoriali critici di Evgeny Morozov, Internet si è rivelato essere non più soltanto uno strumento dall’enorme potenziale emancipatorio e liberatorio, bensì (soprattutto, secondo alcuni) uno strumento di propaganda, controllo e censura. Il basso profondo che si ode sullo sfondo della lettura di tutto il libro di Campanelli (anche autore di Info War) è in sintonia con questa lettura critica della cultura digitale e troverà oggi molti più lettori di quando uscì, in altre forme, la sua versione originale, cinque anni fa. Remix è infatti la ri-scrittura e il re-mix di un libro – Web aesthetics. How Digital media affect culture and society – pubblicato dall’Institute of Network Cultures di Lovink, che forniva, in anticipo, una chiave di lettura critica per capire le conseguenze sociali della cultura digitale.

 

Leggere oggi Remix in realtà è come leggere un libro di storia che passa in rassegna le caratteristiche principali del liquido amniotico in cui siamo stati immersi negli ultimi dieci anni (da quando il web è anche social). “Remix”, “Meme”, “amatori vs. professionisti”, “bricoleur digitale” sono le parole chiave tramite le quali potremmo riassumere cosa è successo negli ultimi dieci anni di storia di Internet. Campanelli disegna una dettagliata e raffinata genealogia di queste parole chiave, che solo oggi, a distanza di qualche anno dal loro affermarsi, riusciamo a guardare con un po’ di lucidità e distanza. È un libro utile per riemergere dall’acqua in cui abbiamo nuotato per anni, sedersi a riva e guardare l’oceano con una prospettiva più ampia, per sollevarsi con lo sguardo oltre il livello di galleggiamento.

 

Campanelli discute con intelligenza ed eleganza teorica tutti quegli studiosi di media che prima di lui hanno aperto il solco della riflessione sul remix come nuovo paradigma compositivo popolare, da Bourriaud a Manovich, da Navas a Lessig, distruggendo, se ce ne fosse ancora bisogno, il mito dell’autorialità e dell’originalità. Lev Manovich, in particolare, è chiamato in causa più volte, nel corso di tutto il libro, essendo stato tra i primi a cogliere le linee di frizione dell’estetica del web che si andava affermando. Un libro che riletto oggi è molto più utile di cinque anni fa, oggi che quelle pratiche di remix collaborativo di cui parlava Manovich sono ancora più diffuse e più radicate nel quotidiano di quanto non lo fossero allora. Nel 2007, sull’onda del fascino per gli articoli di Manovich e Navas sul remix, scrissi un articolo sull’estetica del remix nelle opere collettive di Wu Ming, che terminava così:

 

“La cultura del remix è entrata a far parte del quotidiano, metabolizzando e neutralizzando le avanguardie. Se nel novecento le avanguardie artistiche arrivavano dalle élite, oggi, se ancora è lecito parlarne, vanno cercate tra il popolo ignoto dei blogger, remixer, dj, musicisti che ogni giorno si incontrano e si scambiano contenuti sui siti di social networking. Un rumore bianco continuo attraversa costantemente la Rete, è il buzz, il ruminare costante di milioni di utenti su materiale altrui, un processo di digestione infinito che si moltiplica di giorno in giorno. In questo momento milioni di testi, immagini, video, narrazioni sotto forma di dati vengono campionate, taglincollate, replicate, manipolate, remixate e salvate in file diversi da quelli di partenza. La Rete è una enorme macchina narrativa che agisce seguendo le tecniche del remix. Parafrasando Gertrude Stein, ogni

narrazione è sempre più un remix di un remix di un remix di un remix.”

 

Non immaginavo quanto questa estetica si sarebbe espansa negli anni a venire e non avevo ancora sviluppato quegli anticorpi che, come invece avviene nel libro di Campanelli, mi avrebbero permesso di coglierne anche gli aspetti più critici, il fatto cioè, che questo flusso costante di remix di oggetti digitali produca anche una messe di dati che rappresentano il petrolio delle nuove corporation dei media globali. Eppure, nonostante ora quegli anticorpi siano molto più diffusi e anche io abbia imparato a svilupparli, c’è ancora qualcosa che mi divide dal sintonizzarmi completamente con la tesi del libro. Campanelli appartiene pienamente a una tradizione di filosofia critica che discende da Adorno passando per Debord e Baudrillard, una tradizione in cui i media sono soltanto manipolatori produttori di false coscienze e in cui gli spettatori (oggi utenti) credono di divertirsi con i prodotti dei media mentre invece ne vengono sfruttati. Questo distacco dalle frequenze del libro per me avviene al capitolo 3 – “Amatorialità in polvere”, quando Campanelli, anche a ragione, mette in discussione i miti della creatività e dell’interattività che hanno pervaso la retorica intorno alla rete negli ultimi anni:

 

“Meno comprensibile è l’elogio, ricorrente in una certa letteratura, delle esistenze creative che sarebbero rese possibili dall’avvento del digitale. Ciò che sfugge in tali panegirici è che, in questi anni, più che a una liberazione di energie creative si è assistito all’espropriazione del tempo libero di masse sempre più numerose di individui. Si è ben lontani dall’ideale marxiano del superamento della dicotomia lavoro-tempo libero, ovvero se superamento vi è stato esso è avvenuto nella  direzione di inglobare il tempo libero nello spazio del lavoro: al lavoro in fabbrica o in ufficio, l’individuo – soggiogato dal mito della creatività – ha aggiunto un nuovo tipo di lavoro, quasi

mai retribuito” (p. 101).

 

Se è vero, come sostiene Jonathan Crary, che il capitalismo contemporaneo sta sottraendo l’ultima risorsa del tempo libero, il sonno, per metterlo a valore, è anche vero che c’è molta differenza tra chi è costretto a lavorare, malpagato, e chi invece, come un utente di internet, si diverte a passare il proprio tempo libero su Facebook, generando indirettamente del valore per questa azienda. Io non credo che gli utenti della rete si siano fatti “espropriare” il proprio tempo libero da Facebook. Espropriare significa sottrarre qualcosa contro la volontà di qualcuno. Ecco, nel caso degli utenti dei social media, non credo che nessuno si senta espropriato del proprio tempo libero dedicato al mantenimento di relazioni sociali su Facebook. Mi riconosco invece di più nella tradizione di pensiero che discende da Henry Jenkins, che vede in questa “perdita di tempo” una forma di coinvolgimento emotivo, e non un semplice sfruttamento. Che questo coinvolgimento venga poi trasformato in valore e commercializzato, non c’è più alcun dubbio e fa bene Campanelli a sottolinearlo. Ma, come Adam Arvidsson sostiene da un po’ per confutare le ipotesi del sociologo critico Christian Fuchs, l’appropriazione di valore non sta nello sfruttamento del lavoro degli utenti, quanto nella messa a valore dell’affettività e delle passioni degli utenti. C’è una differenza, sottile ma c’è, tra chi crede che gli utenti si facciano prendere per il naso dalla furbizia dei media commerciali senza ottenere niente in cambio e chi crede che invece gli utenti sanno impiegare forme di resistenza e trarre anche dei benefici dalle loro attività di remix dentro il recinto dei media commerciali.

 

Adorno credeva che gli ascoltatori della radio fossero degli idioti intontiti dalla musica popolare che serviva per attrarre la loro preziosa attenzione e rivenderla alla pubblicità; Smythe (un altro sociologo dei media della tradizione critica) credeva che chi guardava la tv lavorasse gratuitamente per gli investitori pubblicitari e Fuchs e i teorici del “digital labor” credono, sulla stessa lunghezza d’onda dei loro predecessori, che gli utenti della rete lavorino gratis per Zuckerberg. Se da un lato hanno tutti ragione, la loro teoria svela soltanto una parte del processo, sminuendo il ruolo di chi guarda, ascolta, remixa, dentro e fuori i confini delle industrie culturali (un tempo) e creative (oggi).

 

La creatività e l’interattività che Campanelli cerca di smontare sono due proprietà dell’attuale cultura digitale molto più complesse e sfuggenti di quanto vorremmo credere ed è troppo facile ridurle alla categoria di “falsi miti”. Personalmente, nonostante il disincanto sopraggiunto alla sbornia delle potenzialità del web 2.0, mi interessa di più soffermarmi su come le persone usano i media e perché lo fanno, su quella porzione della cultura digitale che il pensiero critico mette in secondo piano. Quando le persone, loro malgrado costrette dentro strumenti digitali non conviviali come Facebook, pubblicano un meme che si prende gioco di un politico e lo fanno girare all’interno delle loro reti sociali, oltre che generare del profitto per Facebook stanno anche affermando le proprie identità politiche di cittadini, stanno compiendo azioni politiche, come dimostrano Jenkins, Ford e Green in Spreadable media e queste azioni, spesso, non si limitano ai recinti digitali di Facebook, ma tracimano (o più spesso, iniziano) nel mondo reale. Anche quando pubblichiamo il video (terribilmente montato) del compleanno di nostro nipote su You Tube, oltre a generare profitti per Google, stiamo compiendo un atto, che secondo il sociologo inglese David Gauntlett, è in sé creativo: “la creatività quotidiana si riferisce a un processo che mette in relazione almeno una mente umana attiva con il mondo materiale o digitale, allo scopo di realizzare qualcosa. Tale attività non è mai stata svolta prima in questo modo dalla persona. Il processo può suscitare varie emozioni, tra cui l’eccitazione e la frustrazione, ma specialmente gioia. Quando ci troviamo di fronte al risultato e lo apprezziamo, possiamo percepire la presenza del realizzatore e riconoscere tali sentimenti” (Gauntlett, La società dei makers, p. 106). Sfido chiunque, ad esempio, a non riconoscere come un atto creativo e gioioso il remix fatto dai fan di Star Wars in “Star Wars Uncut”. Eppure secondo la lente del pensiero critico dovremmo intendere quest’opera come un’appropriazione da parte del Capitale (la casa produttrice di Star Wars) del lavoro gratuito degli appassionati della saga. Se lo avesse visto Adorno lo avrebbe liquidato come una perdita di tempo, lui che considerava, per esempio, il juke box come una macchina per attirare i babbei nei bar con la promessa della gioia e della felicità. Forse, come ha scritto David Byrne, “Adorno non si era mai divertito in una sala da ballo”. Non si può eliminare la gioia dall’analisi dei media. “Sfruttati e felici”, direbbe Carlo Formenti, un altro esponente del pensiero critico intorno ai media. Può darsi, ma è solo una parte del discorso. Il problema è che la cultura digitale corrente ha molte facce, inestricabili e irriducibili. La gioia della creatività quotidiana e del mantenimento delle relazioni sociali sui social media è inestricabilmente connessa alla sua messa a valore (qualcuno parla di “digital enclosures”) da parte delle piattaforme, ma esiste e va riconosciuta, senza essere liquidata come semplice “falsa coscienza”. L’analisi “socio-estetica” della cultura digitale fatta da Campanelli, illumina, molto bene, soltanto una facciata delle nostre pratiche digitali quotidiane.

 

Il libro di Campanelli non parla solo di questo, anzi, forse io mi sono soffermato fin troppo su questo aspetto a me molto caro. È un libro che vale la pena leggere, per essere più consapevoli delle nostre azioni quotidiane, mentre ruminiamo costantemente immagini, notizie e soprattutto… notifiche.

 

 

Il libro: Vito Campanelli, Remix, Analisi socio-estetica delle forme comunicative del Web, doppiozero books 2015, e-book, € 8,00

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