La vita delle piante / Requiem per tre alberi
I giardinieri sono arrivati. Devono tagliare a pezzi due querce e un cedro lunghi trenta metri che, all’alba disgraziata del 31 luglio scorso, una bufera ha abbattuto al suolo come birilli.
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Altri giorni di sofferenza al rumore rabbioso, snervante, delle motoseghe. Poi verrà la ruspa a ribaltare ceppi e radici per coprire le voragini. Si dovranno sezionare e sistemate i ciocchi, trinciare i rami più fini e le fronde. Nulla andrà buttato: ne verrà legna buona per il camino e pacciame di qualità per le aiuole. Ma il giardino non sarà più lo stesso.
So bene che i giardini non sono mai gli stessi, cambiano in continuazione, sempre mutevoli e diversi: il tasso barbasso, nuovo ospite, s’è allogato di sua iniziativa nei pressi della peonia rossa e ora la sovrasta con il suo candeliere; chissà quale compagnia sceglierà per la prossima stagione. Il Cornus kousa ha agonizzato tutta la torrida scorsa estate e in primavera ho dovuto registrarne la morte. Eventi lieti e no, che si mettono nel conto dell’ordinaria amministrazione. Ma questo schianto, benché nella natura delle cose, è devastante.
Di recente, un amico spagnolo in visita al giardino mi lusingò: in fin dei conti – disse – avevo trovato uno sfondo su cui dipingere. Metà del mio sfondo arboreo è stato cancellato, tutto è da ripensare, da rifare. Lo scoiattolo non verrà più sul ramo basso della quercia a mostrarmi il bianco dell’addome, le cornacchie non si poseranno di vedetta in alto sull’ultimo pennacchio del cedro, le gazze non bisticceranno sui suoi palchi inferiori. Anche a terra, tutto un mondo travolto: formiche e serpi e topi senza tana, e io, desolata, con le mie ortensie senza l’ombra degli alberi grandi.
Per consolarmi, cedo ancor più alla deriva del patetico e rileggo la Quercia caduta del Giovannino nazionale:
Dov’era l’ombra, or sé la quercia spande
morta, né più coi turbini tenzona.
La gente dice: Or vedo: era pur grande!
Pendono qua e là dalla corona
I nidïetti della primavera.
Dice la gente: Or vedo: era pur buona!
Ognuno loda, ognuno taglia. A sera
ognuno col suo grave fascio va.
Nell’aria, un pianto… d’una capinera
che cerca il nido che non troverà.
(Giovanni Pascoli, Primi poemetti, a cura di Nadia Ebani, Guanda 1997)
Erano belli laggiù sul fondo, quei giovanotti di appena sessant’anni: il paziente e frondoso cedro dell’Himalaya (Cedrus deodara) e le querce americane (Quercus rubra), impettite e sdegnose, eppure generose d’ombra e ancor più di foglie rossi autunnali tramonti.
Ma è necessario, dopo il crollo, saper trovare il lato buono delle cose: nessun rimpianto per le faticose raccolte di foglie e ghiande per evitare d’aver un bosco di querciole al posto del prato. S’insinua, invece, la frenesia progettuale per il restauro dello sfondo scippato dal vento: faggi? o ilex e allori di spontanea produzione autoctona? Fors’anche un Cornus mas.
E poi, un paio di lezioni da tenere a mente: mai piantare alberi dalla crescita poderosa troppo vicini e in fila come soldati: hanno bisogno di spazio per stendere radici e rami. Il vento ama fare i suoi giri senza barriere che s’innalzino a provocarlo.
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