Rivoluzione macrobiotica

26 Novembre 2014

Più il capitalismo si sviluppa, più costruisce la fame. Di questo era sicuro Amedeo Bordiga, primo e disconosciuto padre del comunismo italiano. In una serie di articoli sulla questione agraria pubblicati tra il 1953 e il 1954, Bordiga sostiene con chiarezza lapidaria una tesi semplice, benché sconfortante: “mai la merce sfamerà l’uomo”. Sembra quasi paradossale, ma a distanza di sessant’anni, la sua proverbiale rigidità ideologica parla al nostro presente con più chiarezza di molti sofisticati strumenti teorici.

 

Basta scorrere il documento che ogni anno la FAO pubblica sullo stato dell’insicurezza alimentare nel pianeta per trovare, in quella sequenza implacabile di numeri e grafici, più di una conferma a quest’antica tesi; che poi è marxiana. Stando solo ai dati pubblicati quest’anno, nel pianeta un abitante su otto soffre la fame; si stimano, più o meno, 870 milioni di persone, la maggior parte in Africa. E tuttavia questo dato macroscopico rivela solo la contraddizione primaria della logica produttiva che ci governa. Perché un’analisi comparata anche solo di pochi fattori eterogenei, ma determinanti per la produzione alimentare – stato dell’humus dei terreni agricoli, qualità dei semi coltivati, inquinamento delle falde, deforestazione, consumo di acqua e di energia fossile, sfruttamento del lavoro – ci mette immediatamente di fronte a un groviglio inestricabile di problemi gravissimi che questo modo di produzione ha causato, continua a moltiplicare, e a cui non sa dare soluzione alcuna.

 

Per questa ragione serve a poco – lo sostiene perfino la FAO – aumentare la quantità prodotta di cibo, mantenendo l’attuale struttura produttiva mondiale. Perché è il modo e la qualità della sua produzione che va radicalmente ripensata; senza perdere altro tempo. Può sembrare incredibile, ma una parte importante di questi immani dilemmi planetari sono stati sciolti con una serie di proposte pratiche, sperimentate in oltre quarant’anni di lavoro, da un “piccolo” movimento italiano: il movimento dei centri UPM (Un punto macrobiotico) di Mario Pianesi. La storia di questa associazione, organizzata in una rete di piccole realtà (ristoranti, negozi, cooperative, forni, piccole imprese, centri culturali) disseminate a macchia di leopardo un po’ in tutt’Italia e coordinate da una segreteria centrale a Tolentino, in provincia di Macerata, è la storia di un movimento autonomo che è stato capace di costruire – senza aiuti dallo Stato e pubblicità alcuna – un intero ciclo produttivo protetto in una sorta di mercato autoregolato e una rete internazionale di cooperazione scientifica di primissimo livello.

 

Da anni, infatti, scienziati e medici provenienti da paesi come Cina, Tailandia, Mongolia, Pakistan, Tunisia, Palestina, Libia, Costa d’Avorio, Guinea, Cuba, Haiti, senza contare delegati ONU, FAO e UNESCO, cooperano continuativamente con Pianesi e il suo movimento. Ma per quale ragione medici e ricercatori di mezzo mondo si sono messi a seguire le sperimentazioni agricole, alimentari e mediche ideate e realizzate da Mario Pianesi? Anzitutto per una constatazione evidente: rifacendosi ad alcuni principi base dell’antica sapienza cinese (il monismo dinamico Yin e Yang e la teoria delle cinque trasformazioni) Pianesi sembra aver trovato il punto archimedico attraverso cui risolvere una serie di problemi eterogenei in modo efficace, definitivo ed economico. Partiamo dall’ambiente.

 

L’agricoltura proposta dal suo movimento è la Policoltura Ma-Pi. Questo metodo presuppone: esclusione assoluta di prodotti chimici di sintesi, consociazione di colture (cereali, verdure, legumi, alberi da frutto) sullo stesso terreno, recupero di antiche varietà di semi e loro auto-riproduzione spontanea e infine piantumazione di alberi da frutto ogni 5 metri. Proviamo a fare un calcolo. Secondo la FAO la superficie agricola utilizzata nel mondo è di circa 45 milioni di km quadrati. Se tutti fossero trasformati seguendo questo modello ci troveremmo di colpo con miliardi, miliardi e ancora miliardi, di alberi in più. Non è dunque un caso se l’Accademia delle Scienze della Mongolia collabora ormai da anni con Pianesi per il suo programma di riforestazione nazionale.

 

Nelle Marche, che è la regione dove la rete dei punti UPM è particolarmente fitta, più del 10% del territorio è ormai coltivato seguendo questo metodo. Numerosi i vantaggi: i contadini diventano autonomi economicamente grazie alla pratica dell’autoriproduzione delle sementi e alla vendita diretta dei prodotti nella rete UPM, con cui scavalcano la grande distribuzione; l’habitat naturale così coltivato ritrova rapidamente un equilibrio, e lo testimonia il fatto che già dopo pochi anni si ripopola di animali selvatici; la qualità organolettica dei prodotti coltivati è eccezionale; l’uso dell’acqua per l’irrigazione, grazie alla piantumazione di alberi da frutto ogni 5 metri, si riduce moltissimo. Quindi: agricoltura, ambiente, economia.

 

La Macrobiotica (dal greco classico: “grande” “vita”) però non si era mai occupata, prima di Pianesi, di agricoltura e mercato, essendo una disciplina filosofica interessata soprattutto alla dietetica come medicina. La sua conoscenza in Occidente è stata mediata dagli insegnamenti di un Maestro giapponese, vissuto nella prima metà del secolo scorso: George Ohsawa. Insegnamenti che Pianesi approfondisce e rielabora, avendoli però prima sperimentati su di sé in maniera del tutto autonoma, ancor prima di conoscerli.

 

Prova storica vivente di una tesi che ha sempre persuaso Theodor Adorno: ciò che è stato pensato compiutamente deve poter essere pensato anche in altri luoghi e da altre persone. Rielaborando personalmente gli insegnamenti di Ohsawa e del suo discepolo Muramoto (del cui libro più importante – Il medico di se stesso – Pianesi ha da poco curato la nuova versione italiana per le edizioni Feltrinelli) la macrobiotica pianesiana orienta una parte del sistema di produzione che ha inventato verso un uso sapiente della dietetica come medicina. E così il cerchio si chiude: gli alimenti naturali prodotti con la Policoltura Ma-Pi diventano la base di efficaci diete curative.

 

Fra le moltissime sperimentazioni in corso soprattutto in Asia, in Africa e in Sudamerica – ma stanno iniziando anche in Italia – va ricordata almeno quella che da dieci anni coinvolge l’Istituto Finlay di Cuba dove si stanno testando, sotto la supervisione della dottoressa Carmen Porrata, le diete Ma-Pi soprattutto nella cura di malattie metaboliche degenerative come il diabete mellito di tipo 2. Facciamo di nuovo un rapido calcolo. L’Italia spende ogni anno, solo per la cura clinica del diabete, più di 9 miliardi di euro.

 

Visti i risultati ottenuti nelle varie sperimentazioni internazionali, e visto che queste diete sono davvero molto economiche, se venissero testate in modo diffuso anche in Italia, il nostro Stato potrebbe risparmiare una quota consistente di questi investimenti, anche se questo non renderà particolarmente felice la lobby delle case farmaceutiche. Insomma, come si può capire quello che più sorprende dell’attività di questo movimento è l’efficacia con cui è stato in grado di ricostruire una vera e propria totalità politica: ambiente, agricoltura, alimentazione, medicina ed economia.

 

E soprattutto il fatto che questa prefigurazione di un habitat umano più equilibrato e meno distruttivo esista già, sia operativa, si stia espandendo, sia esportabile. È come se Pianesi e la rete dei centri UPM fossero riusciti a ricostruire dal basso e in assoluta autonomia un vero e proprio modo di produzione reticolare – marxianamente orientato al valore d’uso – e, contemporaneamente, una rete di mutuo soccorso mondiale orientata a difendere le forme di vita dal deserto che avanza.

 

Apparso in precedenza su il manifesto

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