Il bene della pubblicità

24 Febbraio 2014

Potrà disturbare molto Il bene nelle cose. La pubblicità come discorso morale di Emanuele Coccia (Il Mulino, 2014), ma anche suscitare uno schietto entusiasmo in chi non ne può più di sentir parlare con toni apocalittici o da crociata moralizzatrice del mondo in cui viviamo. Come se in questo mondo, l’unico che ci è dato, non ci fosse niente di buono e non vi trovassero casa né il godimento né l’inventiva, materia prima di cui sono fatti il desiderio e l’immaginazione che annunciano il nuovo. Come se fossimo approdati a una tappa troppo avanzata nella degenerazione della specie umana per concepirne la reversibilità o la correggibilità.

Ebbene, a chi scambia la fase attuale – una delle tante, e neppure la più sinistra – per un capolinea storico e si diletta a elencarne (e dunque ad alimentarne) quotidianamente i punti di non ritorno, Coccia contrappone una sapiente visione ‘dal basso’ o ‘di strada’ che stimola e rincuora, proponendosi come antidoto metodologico ai depressivi menù che ci vengono imbanditi senza sosta dagli chef dell’economia, della politica, dell’informazione e della morale contemporanee. La sua è una realistica operazione di ridimensionamento, che riesce a riallineare il presente e le sue apparenti aporie al passato e alle tradizioni da cui discende, senza schiacciarlo al paradigma cadaverico del progresso né tantomeno a quello di un’impellente entropia.

Il qui e ora analizzato da Coccia non è, nel suo bene e nel suo male, né meglio né peggio del plurimo passato che abbiamo alle spalle e non coincide certo con l’arresto del tempo. Si tratta semplicemente di guardarlo e viverlo sospendendo il giudizio e abbandonandosi senza fare resistenza ideologica (un’arma del passato, ormai spuntata e patetica) alle forme che nel corso del tempo è andato assumendo il discorso morale.

Maître de conférence all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi e ricercatore presso l’università di Düsseldorf, specialista di Averroè e dell’averroismo medievale e moderno, Coccia è uno di quei trentenni che hanno saputo fare un uso imprevisto e ‘irrispettoso’ dei saperi classici. Autore di La trasparenza delle immagini. Averroè e l’Averroismo (Bruno Mondadori, 2005) e di La vita sensibile (Il Mulino, 2011), e curatore, insieme a Giorgio Agamben, dell’antologia Angeli. Ebraismo, Cristianesimo, Islam (Neri Pozza, 2009), con questo sulfureo libretto – che non piacerà a chi vuole salvare il mondo condannandolo a un savonaroliano rogo purificatore – fa lo sgambetto ai fautori della correttezza politica spostando vari discorsi dal loro consolidato e arrugginito asse teorico.

Innanzitutto, sabotando gli schemi operativi e interpretativi ai quali siamo abituati, l’autore ci propone di guardare l’esistente non come dovrebbe essere, ma come è. Il suo non è un appello teorico, bensì un invito ad accompagnarlo nella sua flânerie, intellettuale e materiale, nel corpo della metropoli occidentale. Il suo territorio d’elezione è quello urbano, un testo (le cose che lo costituiscono possono forse esistere sganciate da ciò di cui sono voce e simbolo?) che si è sedimentato nei secoli offrendosi come luogo d’incontro e di scambio, di possibilità e di sogno. La città – fatta di strade, piazze, architetture funzionali, nodi e snodi,– è una mappa da leggere, decifrare, tradurre. Per capire chi siamo, dobbiamo imparare a guardarne e ascoltarne i muri, giacché è lì, sul limine tra pubblico e privato, che si forma la coscienza di sé come abitanti di uno spazio comune. Non è sulla pietra dei muri, ci ricorda Coccia, che furono incise le prime tavole della legge, intagliati i miti su cui si fonda la nostra civiltà, affrescati gli storyboard delle narrazioni religiose?

Ebbene, oggi, la diretta e legittima discendente dei bassorilievi imperiali e dei polittici religiosi è la pubblicità. Essa racconta, associa, proponendo una morale, vale a dire un’idea di felicità, una teleologia, una visione mitica del futuro. “La metropoli attuale è”, come ha scritto Marshall McLuhan, “simile a una classe scolastica: gli annunci pubblicitari sono i maestri”.
Lungi dall’accodarsi a chi demonizza i pubblicitari, vedendo in essi solo la longa manu del mercato e della sua egemonia culturale, Coccia suggerisce un approccio laico capace di riportare la pubblicità alle sue origini epigrafiche, riconoscendole lo statuto di un sapere. Essa è infatti una sorta di antropologia indigena delle metropoli contemporanee, attraverso la quale la società intera esprime e canta i propri oggetti-totem.

Duttile, porosa, nemica di categorie rigide come stato-nazione, confine, disciplina, la pubblicità migra, muta, passa da un medium all’altro restando fondamentalmente fedele alla sua funzione, che è, sì, di far vendere le merci, ma anche di ricordarci la nostra ineliminabile simbiosi con le cose, con la loro stupefacente capacità di farci umani, di identificarci con noi stessi, di avvicinarci alla felicità ‘perfezionandoci’. E, parlando di perfezione possibile, la pubblicità non può che declinarsi al futuro, il tempo che più sembra esserci negato nella realtà.

“Dalla rivoluzione industriale”, ci ricorda Coccia, “ci stiamo abituando a pensare che lo spazio metafisico nel cui medio possiamo entrare in relazione con il bene in tutte le sue forme è la sfera delle infinite relazioni possibili con le cose che produciamo, scambiamo, immaginiamo e desideriamo. È nella relazione alle merci – ai beni per eccellenza, alle cose buone, dotate di valore – che si dà la relazione ad una perfezione possibile. È questo, in fondo, quanto la pubblicità non smette di gridare in tutte le città dell’Occidente. Questo messaggio può infastidire, ma ha qualcosa di necessario, e di innegabilmente positivo”. E ancora, “La sua universalità cosmologica, la capacità di legare i sentimenti alle cose, le emozioni o i costumi agli oggetti più banali dell’esperienza, rende la pubblicità estremamente più dettagliata ed efficace di quasi tutte le altre forme di discorso morale”.

Una provocazione importante, scomoda e volutamente ‘ambigua’, quella di Emanuele Coccia, che ci obbliga a guardare senza inutili sensi di superiorità quell’“immenso atlante a cielo aperto” che è la pubblicità, “un repertorio di tutte le figure possibili della memoria collettiva e dell’immaginazione pubblica”. Capace di trasformare l’uomo in un cyborg morale, attivato e agito dal bene nelle cose, essa produce una sorta di smottamento tra reale e immaginario. Per Hannah Arendt era il terreno di coltura ideale di un tipo umano pronto a sottomettersi ai regimi totalitari, per Coccia è il carnevalesco banco di prova di un’umanità che non può che reinventarsi in un volontario vuoto di Valori, Principi superiori, Padri, Partiti, Chiese, Ideologie, Rivoluzioni…

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