Speciale

Sospetto o curiosità? 

30 Aprile 2023

“Se tutto fosse trasparente, allora non si darebbe alcuna ideologia né dominio: con tutta evidenza, non è questo il nostro caso” (F. Jameson, The Political Unconscious. Narrative as a Socially Symbolic Act, Routledge 1983, p. 45). Per certo, le parole di Frederic Jameson riflettono un convincimento personale, oltreché un metodo di provato rigore scientifico. Ma ben più che questo, segnano il tenore umorale di un intero secolo, votato all’idea fissa del sospetto. Il principio-manifesto, che per tutto il Novecento ha chiamato a raccolta intere genie di teoric* e critic*, è che interpretare un testo vuol dire sottrarlo a un meccanismo di mistificazione o di freudiana rimozione: la lampara accorta dell’esegesi spande i propri raggi, stentorei e implacabili, sul significato latente che il significato manifesto copre come adamitica foglia di fico.

Il legame con l’ermeneutica del sospetto è congenito, come già indicava Paul Ricoeur nel celeberrimo saggio dedicato a Freud. Sui passi di Marx e Nietzsche, illustri predecessori, il padre della psicoanalisi sottopone a inclemente vaglio la coscienza e le sue illusioni per portare in superficie quanto all’occhio indolente del sapere ordinario risulta perfettamente illeggibile. Essì che a tale scopo serve un sapere diverso, di tipo speciale, una sorta di magnetometro che vada oltre la scabra meccanica dei fatti per misurare l’intero campo sepolcrale, spazio abitato dall’io infelice, servo di troppi padroni. Quel sapere è appannaggio della teoria critica, che riversa poi con generosa prodigalità il proprio eccesso di luce su quant* vivono tra le ombre.

Sul fatto che l’io sia un servo, e neppure troppo solerte, dubbi non ce ne sono. Quello di cui qui si dubita – per mutuare un verbo topico del gergo sospettoso – è che l’interpretazione di un testo possa funzionare come si fosse nei pressi di una chaise-longue in attesa di sogni inquieti e confessioni perverse. L’ipotesi che muove un affetto a così alto dispendio energetico, qual è l’animo sospettoso, è che la letteratura sia preposta a una funzione tanto onerosa quanto l’assoluzione dell’esistente: un ruolo di conservazione del reale per come esso si dà, teso alla piena conciliazione del soggetto col complesso reticolare di mali morali e civili che lo rende dominato e infelice, talora a sua insaputa. Le schiere di accoliti sensibili alle disposizioni di Adorno, Benjamin, Lukács, Goldmann, Jameson e altr* hanno poi irrorato i campi lustri degli studi culturali, postcoloniali e queer, spandendo il seme sacro del sospetto e l’attitudine paranoide che l’accompagna. 

Ma il costo più ingente cui si deve far fronte, quando si aderisce al regime del sospetto, è una dichiarazione di sottintesa inimicizia, più spesso di aperta ostilità, nei confronti di qualcosa con cui la relazione si fa giocoforza complicata. Questo perché si aderisce in modo sottaciuto alla premessa secondo cui un testo non è che il frammetto di una costruzione unitaria, collocata in una zona oscura ma dominante della nostra vita sociale: è il riflesso dei meccanismi crudi e vili con cui la struttura sistemicamente si ripete, delle dinamiche di potere e sfruttamento che cambiano sì di pelle ma si preservano nella sostanza. Un libro, come uno smartphone o un sito d’incontri, è il vettore di qualcosa che ci prende alle spalle per divorare da dentro la nostra spontanea tendenza all’innovazione e piegarci così all’adattamento imbelle, alla piena introiezione delle regole di una società che vuol mantenere le distanze di sicurezza tra chi domina e chi è dominat*. Alberto Mario Banti sintetizza con efficacia quest’invito permanente alla resa: “E così, supereroe dopo supereroe; film mainstream dopo film mainstream; sitcom dopo sitcom; soap dopo soap; meme dopo meme: le resistenze critiche di un numero crescente di persone si polverizzano con la massima facilità, ogni giorno, davanti allo schermo di un computer, di uno smartphone, o della classica televisione. Tenacemente, gran parte del pubblico preferisce essere rassicurato, dal punto di vista etico e dal punto di vista cognitivo. Preferisce guardare il video che ha il massimo di visualizzazioni (‘se ce l’ha, sarà buono per forza’, a prescindere)” (A. M. Banti, La fragile democrazia dei follower). Così, a dispetto dei troppi tramonti ideologici, le scienze sociali, storiche e letterarie, assieme alla filosofia critica di ogni risma, si fregiano ancora degli attributi iconografici di Asclepio quando chiacchierano di patologie sociali e intonano l’epicedio di una società che non ha più neppure lo stetoscopio per auscultarsi i sussulti terminali. 

Se è vero che una conclusione tanto impietosa non pecca d’irrealismo, il problema di fondo è che l’apparato diagnostico, quantunque aguzzo e illuminato, finisce per svolgere la funzione dell’intellettuale organico. Una diagnosi triste e spenta che intristisce e spegne e per paradosso rischia di propiziare il futuro angusto che paventa come il peggiore dei mali. In questo c’è colpa, e non dolo, per carità – ma la colpa tocca proprio chi predica coscienza vigile, scrupolosa, capace di sondare il profondo e scrostare il grasso idrogenato della coscienza più insincera.

b

La critica sospettosa si preoccupa della salvezza nostra facendoci però carico di tutti i sensi di colpa rimuginati nelle verbose glosse che appone ai libri. Una risposta ideologica all’ideologia, che trascolora in rimorso, maculato di tinte paranoidi, e svilisce poi nell’autocommiserazione. Il tutto confezionato come prodotto d’accademia per gente d’accademia – che si fa poi movimentismo perbenista e giaculatorio quando pensa di chiudere la partita con la storia eliminando parole scomode dai libri del passato. 

Se questa è l’opinione informata di una messe di Gianburrasca (di cui Bruno Latour si fece portavoce alla fine del secolo scorso) pronti a disertare la levée en masse impetrata dalla critica militante, voci che hanno preceduto di molti decenni il recente conflitto tra critica e postcritica hanno fatto il punto con stile senz’altro superiore. Ad esempio, a Franco Fortini, che della lirica faceva strumento diretto di critica dell’ideologia, già nel 1959 Alfredo Giuliani rispondeva che “la poesia non ha soltanto lo scopo autobiografico di piangere sull’infelicità storica”. Quella di Fortini è una “poetica della diffidenza”, che “sa di provincia depressa e ostile” ed è incapace di “un grido, un discorso veramente vitale”, carica com’è di “troppa cautela e niente dono”. Proprio nel famigerato Sessantotto, Giorgio Manganelli con sete iconocida spargeva divertito biasimo su chi voleva “selezionare i drammi” per quella che proprio i selettori trattavano come “una classe di sottosviluppati”, ossia la classe operaia (G. Manganelli, Discorso sulla cultura, in Riga 44. Giorgio Manganelli, a cura di A. Cortellessa e M. Belpoliti, Quodlibet 2022, p. 150). Da sponde assai meno novavanguardiste, sempre nel 1959, Pietro Citati lamentava che “la critica alla civiltà di massa è la forma più velenosa che la civiltà di massa possa assumere, giacché il peccatore riesce, in questo modo, a peccare e insieme a soddisfare immediatamente gli assilli della coscienza”. E commentava costernato il gioco paradossale e infido per cui chi regge il vessillo della critica si ritrova al fianco di chi crede di star puntando con dito fiero e ritto: “Ossessionati, logorati, limitati dalla lotta che stavano conducendo, questi scrittori e intellettuali sono divenuti prigionieri del loro amato nemico, presi nei suoi ingranaggi, dominati e svuotati dall’unico assillo che li ha tenuti in piedi tutta la vita” (P. Citati, Il tè del Cappellaio matto, Adelphi 2012, p. 351).

Da che la critica è la critica, quindi, il problema rimane quello di una smania inquisitiva che allerta, strepita e ammonisce, disegna costellazioni di virtù morali e cognitive, s’incorona della luna per calpestare la serpe del dominio che ci asservisce, eppure alfine nulla stringe: se siamo finit* dove siamo finit*, la polizia pedagogica novecentesca è servita a poco. Salito sul sicomoro per meglio vedere, questo novello Zaccheo ha atteso invano l’ingresso in città del Salvatore, e della sua bassa statura non ha saputo trarre i vantaggi che avrebbe potuto insinuandosi negli interstizi in cui pur qualcosa accadeva. La critica ha voluto guardare dall’alto, dalla distanza che si crede capace di scorgere dietro a ogni differenza l’eguale tinta dell’ideologia – o del neoliberalismo, se di ideologie serie si è a corto. L’invito protocollare al sospetto ha fatto sì che la critica divenisse davvero del tutto ininfluente, come si può evincere, a mo’ di esempio, dalla recente polemica tra tre dei nostri migliori critici letterari, Andrea Cortellessa, Emanuele Zinato e Gianluigi Simonetti, che s’accapigliano sul da farsi per mondare le miserie della letteratura circostante. 

Ma proprio quando sembra che l’effetto dei veleni abbia raggiunto le radici nel tessuto parenchimatico, quella sospettosa è la più disutile delle posture. C’è forse bisogno di un tenore affettivo diverso, meno incline a vedere tutto quanto si fa e accade come corroso dal reflusso gastrico di una società che si svilisce in clip virali e serie tv. Vale davvero la pena tornare a una critica che non vuole salvarci né consolarci, che non mira né all’innocenza né al Vero, che non si aspetta l’investitura a flamen maior di un culto per pochissim*. Se siamo finit* dove siamo finit*, è perché questi sono i tempi, e prendersela con Twitter o Netflix serve a poco. Meglio accorciare le distanze e rimanere curios* di quanto accade, là dove accade. La curiosità è l’affetto che invita a non occuparsi di quanto annoia, né condannarla alla dannazione laica, e farsi capac*, con spirito spinoziano, di propiziare i giusti incontri – ognun* per sé, ognun* con le compagnie che meglio crede.   

Sicché, in parte ritoccherei le parole di Ugo Morelli quando scrive che la curiosità è la spinta “a rivelare […], levare il velo” (U. Morelli, Il fallimento della curiosità). Levare il velo, sì, ma per riporlo poi su quanto non è d’interesse e che merita silenzio più che riprovazione. È vero: curiosità è impulso a “scostare una tenda, scrutare attraverso”, che rimane “gesto oltremodo pericoloso, inaudito, carico di rischi”, ma proprio perché la curiosità ha la pretesa di “descrivere quel che accade ogni giorno”. Una coazione al catalogare che non assolve né castiga, ma seleziona amicizie e letture, come raccomandava Cristina Campo quale solo antidoto ai veleni della cultura bassimperiale. Ha ragione piena e solare quindi Morelli quando della curiosità fa nume tutelare Georges Perec, che, come Francis Ponge (ma dice bene Zanzotto che Guido Piovene è il più lucido di questi “catalogatori”), passa dalla parte delle cose per fare di poesia e letteratura, ma in fondo di ogni scienza dura e molle, un modo della scelta, senza alcuna passione per i giudizi universali. 

La curiosità si scopre così l’opposto del sospetto. Là dove questo riduce il tutto all’uno del meccanismo crudo di dominanza, la curiosità scevera per “meravigliarsi delle stranezze del mondo e meravigliarsene in modo progressivo e sistematico” (A. M. Iacono, Donna dietro le persiane). La curiosità come processo di individuazione nel paesaggio delle singolarità che rivela i dettagli, sempre inventati “dal desiderio di chi guarda” (D. Arasse, Il dettaglio. La pittura vista da vicino, Il Saggiatore 2007, p. 209). Il dettaglio che la curiosità cerca e trova, o meglio crea, sfugge al controllo di ogni norma e istituisce quei legami affettivi che dell’opera fanno opera. Attività sin da principio “destinata al fallimento” (Morelli, Il fallimento della curiosità) perché programmaticamente inoperosa: il legame istitutito dalla curiosità non esegue un programma né soddisfa un intento, men che meno collettivo. È il prodotto di quel movimento che impone all’opera una configurazione singolare e così la fa manganelliana “macchina inutile”: inutile certo alla storia dell’umanità, ma scaturigine di universi al singolare – gli unici universi che la curiosità contempli come dotati della dubbia virtù dell’esistere. La curiosità così intesa è “la forma stessa dell’agire”, secondo la formula di Fausto Curi. La scoperta dell’inatteso, che la curiosità promette, si rivela opera massima di inventiva. Il che, se si vuole, un po’ consola, perché consente di pensare che persino oggi, nel deserto più vieto dello stile, ci si potrà comunque imbattere in un buon romanzo.  

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