Parentele illecite

12 Luglio 2023

Le recenti polemiche sulla trascrizione degli atti di nascita di bambin* venut* alla luce con le tecniche di procreazione assistita, in Paesi in cui questa è ammessa e regolata, hanno riportato al centro del dibattito pubblico una domanda che da centocinquant’anni divide scuole di pensiero e correnti ideologiche: che cos’è la famiglia? Da una parte, c’è chi ritiene che si tratti di una pratica vecchia come il mondo, fondata sull’unione generativa di un uomo e una donna, per tramite della quale l’umanità può perpetuarsi. Costoro credono che la legge debba tutelare una pratica tanto risalente, anche a costo di limitare forme alternative di costruire legami. Dall’altra, c’è invece chi ritiene che la procreazione c’entri poco, perché chi si ama si sceglie e costruisce la propria famiglia senza passare per l’unione tra persone di sesso opposto. La legge, dicono costoro, dovrebbe assicurare diritti e doveri ben saldi quando quelle persone morranno o avranno bisogno di assistenza, o quando la loro prole, comunque sia divenuta loro prole, dovrà ricevere l’educazione o ereditare dei beni. 

Tra le file di questa seconda schiera, c’è chi oggi parla di famiglie queer come modo alternativo di organizzare gli affetti nella piena condivisione di diritti e responsabilità. Si tratta di famiglie non necessariamente fondate sull’unione sessuale di due coniugi e/o non limitate nel numero di partner o figure genitoriali e/o distribuite in spazi non (o non sempre) contigui. Ben più radicalmente che le famiglie omogenitoriali, queste configurazioni meno convenzionali lanciano una sfida più che simbolica al modello dominante della famiglia tradizionale: organizzano la loro esistenza collettiva secondo regole che non seguono le linee della coppia diadica unita dall’amore esclusivo e romantico, mentre, nei riguardi de* bambin*, qualora presenti, gli adulti decidono di ripartirsi specifiche funzioni, come ad esempio la generazione, l’educazione, la cura quotidiana. Non dovrebbe sorprendere che, per chi ha a cuore la famiglia tradizionale, tutto questo sappia molto di esotismo chic, con venature di forzata ideologia anti-naturalista. 

Eppure, scrivevo sopra “centocinquant’anni” perché l’ossessione per la famiglia monogamica e per i legami di sangue è molto più recente di quanto si creda e per giunta tutta confinata nella cultura euro-americana. Negli ultimi decenni, ricerche molto solide nei campi della storia culturale e dell’antropologia sociale hanno rintracciato le origini di questa nostra ossessione per il sangue e la genetica. Non senza inevitabili approssimazioni, l’argomento centrale di tali ricerche può sintetizzarsi come segue: una portentosa intuizione di quattro eminenti studiosi cambiò radicalmente il modo di concepire la famiglia e il suo ruolo nella società. In pieno diciannovesimo secolo, per vie parallele e per larghi tratti diverse, Johann Bachofen, Henry Sumner Maine, John Ferguson McLennan e Lewis Henry Morgan avanzarono una tesi rivoluzionaria, che oggi è divenuta nozione comune: le società umane, in ogni spazio e tempo, si fondano sulla cellula primaria della famiglia nucleare, costituita da un padre, una madre e la loro prole. Il loro comune intento era ricostruire le origini ancestrali di questo nucleo primario al fine di spiegare l’evoluzione storica delle varie società umane e la loro differenziazione a partire da un lontano passato comune. Ma l’effetto di questa intuizione superò di gran lunga tale ambizione teorica, al punto che oggi è difficile per noi immaginare compagini umane che non abbiano al centro la famiglia – fatta eccezione per le esigue utopie sperimentali del recente passato, che non hanno resistito alla prova del tempo e non hanno certo offerto un’alternativa credibile.  

Com’è ovvio, le ricerche cui sopra faccio riferimento non intendono asserire che la famiglia nucleare sia stata creata verso metà Ottocento da quei quattro studiosi e che prima non esistesse nulla di simile. Di famiglie ce n’erano, benché un poco diverse dalle nostre. Piuttosto, quelle ricerche negano che essa fosse il perno della società, il suo nucleo fondativo. Meglio: negano che i legami di sangue fossero l’asse portante del vivere associato, attorno a cui si snodava, come invece accade oggi, una dettagliata serie di obblighi, diritti e responsabilità. Detto altrimenti, la tesi che le accomuna è che la procreazione in passato non fosse che uno dei molti modi di costruire famiglie, che si univa ad altri, come l’adozione, l’allattamento, l’ospitalità, la condivisione del cibo, la co-abitazione per un dato periodo di tempo. La tesi potrà risultare un poco delirante agli orecchi di chi ritiene che la famiglia nucleare sia inscritta nell’ordine naturale delle cose, come persino asserisce l’art. 29 della Costituzione italiana: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”. Se è vero che la Costituzione non specifica da nessuna parte che tale società di base debba esser formata da persone di opposto orientamento sessuale, è pure vero che colloca la famiglia nel campo della natura, come se appunto si trattasse di un fenomeno riscontrabile in ogni manifestazione della vita sociale umana. 

Eppure, nell’interessantissimo campo di ricerca cui quei grandi pensatori ottocenteschi hanno dato vita – noto come “studi sulla parentela” – il dibattito sulla presunta naturalità della famiglia nucleare è più che consumato (benché, come dirò poi, non per questo ad oggi meno vivace e divisivo). Sin dal primo Novecento, in Europa e Stati Uniti, un nutrito gruppo di antropolog* volle mettere alla prova le tesi degli iniziatori degli studi sulla parentela. Costoro si recavano per periodi più o meno lunghi presso quelle popolazioni un tempo incautamente chiamate “primitive”, e oggi meglio definite “indigene”, per studiare il modo in cui esse costruivano e regolavano le proprie famiglie. Si accorsero però piuttosto presto che in molte di quelle popolazioni la famiglia nucleare, semplicemente, non esisteva.

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Presso quelle terre si procreava certo come l’essere umano sa fare, ma poi bambine e bambini venivano cresciut* e assegnat* ai diversi gruppi sociali con modalità che non ricordavano neppure lontanamente quelle della famiglia nucleare euro-americana. I modi per entrare a far parte delle diverse cellule di base, a seconda della popolazione esaminata, andavano dalla raccolta del cibo alla sua condivisione, dal rapporto con la terra lavorata allo scambio di beni, sino a pratiche rituali e simboliche tese a istituire ex novo legami relazionali tra congiunti. 

Beninteso: si documentava in tal modo l’esistenza di forme particolarmente forti di interdipendenza e mutualità, che si lasciavano ben distinguere da altri legami, come l’amicizia, la solidarietà e l’alleanza politica. Il punto, però, è che queste forme di interdipendenza e mutualità erano raramente fondate sull’unione sessuale tra un maschio e una femmina e, del pari, la loro regolazione sociale non poneva al centro quei legami biologici che pure avevano parte nella generazione di nuovi membri della popolazione. Negli anni Settanta del Novecento, la conclusione piuttosto risoluta di David M. Schneider, antropologo statunitense che seppe imprimere una svolta senza precedenti su questo ambito di ricerca, fu che la famiglia fondata sul sangue è una caratteristica per molti versi unica della cultura euro-americana, che trova pochi paralleli nelle altre culture del pianeta. Una sfida tanto estrema venne presto raccolta da una messe di studios* che sul finire del secolo avanzarono una tesi per certi versi più radicale: persino nella cultura euro-americana, la copulazione e il sangue rappresentano uno dei tanti modi di costruire legami di “relazionalità” – come presto si prese a dire in luogo di “parentela”. Celebre in tal senso è lo studio di Kath Weston sulle famiglie gay e lesbiche, che privilegiano la “scelta” anziché il sangue e danno vita a forme di alleanza in cui la genetica figura come una tra le molte tecniche. 

Insomma, un giro ancorché rapido per la vasta letteratura prodotta nel campo dell’antropologia sociale indica come l’esotismo sia piuttosto il nostro recente invaghimento per la famiglia fondata sullo scambio di fluidi biologici e come, all’opposto di quanto crediamo, le strategie sociali per costruire la parentela, in tempi e spazi diversi dal nostro, includano forme non sessuate, modi di compartecipazione al lavoro, condivisione di tratti salienti dell’esistenza, assieme a tecniche giuridiche ben note come l’adozione e l’affidamento. Certo, corre qui l’obbligo teorico, oltreché deontologico, di segnalare che nello stesso ambito esistono voci discordi, che lanciano strali persino un poco sboccati contro la svolta impressa da Schneider ed eredi. C’è chi vuol dimostrare, con il ricorso a studi empirici su vasta scala, che in ogni società umana esiste un gruppo detto “focale”, costituito da coloro che un dato soggetto individua come madre e padre biologici. Detto in termini molto semplici, questi studi “controrivoluzionari” vorrebbero dimostrare che le modalità alternative di costruire la parentela siano derivative, cioè si ispirino a quello che rimane e rimarrà il modello primario e atavico della coppia monogamica. 

Val la pena menzionare come talora si raggiungano punte rimarchevoli di avanspettacolo. Su tutti, stille di pittoresco buonumore possono trarsi dal caso di Warren Shapiro, antropologo di stanza a Rutgers, Università del New Jersey, che nel proprio profilo, a riguardo di Schneider e discendenza teorica, dichiara quanto segue: “Con tutta evidenza [costoro] si sbagliano nel sostenere che criteri come la commensalità, la co-residenza e il primo accudimento abbiano lo stesso status semantico dei criteri procreativi. [Ritengo piuttosto] che questi ultimi forniscano un modello per altre modalità di stabilire la parentela e che, in ogni dove, questa si fondi sulla famiglia nucleare. Inoltre, m’inquieta la sciatteria delle [loro] analisi, le loro aspirazioni egemoniche nel mondo accademico e la loro adesione ad antidiluviani modelli della socialità umana d’ispirazione durkheimiana e marxista – tutti elementi che, a mio avviso, sono dannosi per il futuro dell’istruzione superiore. Credo che questi modelli offrano una critica della civiltà occidentale per larghi tratti ingiustificata, che si presta a un pensiero autoritario e utopico, nemico di una società libera”. 

Stupisce un poco che le tanto deprecate dispute fatte di strepiti e urla, che prendono corpo sugli schermi delle tivù e su social d’ogni tipo, trovino indebita controparte nei siti web di rispettatissime istituzioni universitarie e in prestigiose riviste scientifiche. Con tutta evidenza, quello della famiglia tradizionale rimane un tema su cui ci si scontra con ancor più tradizionali accuse di ideologismo, male morale e corruzione dei costumi. Ma se è vero, com’è vero, che la contrapposizione sulla famiglia (cosiddetta) tradizionale ha da sempre rappresentato un terreno tanto scivoloso, varrà la pena tener vivo il dubbio che la sua naturalità non sia crismata da una qualità rara come l’auto-evidenza. Varrà la pena, per nutrire tale dubbio, consultare l’abbondanza di studi che descrivono i molti modi che nelle società umane si sono adottati per riprodursi e organizzare gli affetti primari.

Con questo non voglio certo asserire – peccato che sarebbe mortale per chi fa il mestiere di filosofo – che la semplice esistenza di modelli alternativi alla famiglia (cosiddetta) tradizionale, in Paesi che a questa si vincolano per legge, debba giocoforza condurre al pieno riconoscimento giuridico di quei modelli. Come ha di recente stabilito la Corte europea dei diritti umani a proposito delle trascrizioni, lo Stato dispone di un’ampia discrezionalità rispetto ai mezzi per stabilire o riconoscere la filiazione. Il mio argomento, se si vuole, è meno ambizioso e più radicale: sul piano dei fatti, hanno ragione Weston & Co. quando si peritano di documentare le molte forme di costruzione degli affetti, al di là del sangue e della procreazione, che vanno moltiplicandosi negli interstizi del nostro tradizionalissimo occidente. Negarne l’esistenza e rifiutarsi di proporne una regolazione giuridica non è tanto un atto di violenza fascista, quanto piuttosto una studiata diserzione dal principio di realtà.

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