Storie Transgender

18 Marzo 2023

In Laurence Anyways, film di Xavier Dolan, la sensazione è che si parli innanzitutto di come riorganizzare un amore prima e più di come resistere alla pressione sociale che impone l’imperativo del buoncostume. Insomma, un problema che interessa chiunque, prima e più che il problema particolare del protagonista, un uomo che mal si adatta alle aspettative dei suoi consimili. Sembra quasi che quello di Laurence, insegnante maschio a disagio con gli abiti e i modi propri del suo genere d’attribuzione, e della sua compagna, Frédérique, che gestisce la metamorfosi con neghittosa complicità, sia innanzitutto un problema relativo a come una relazione amorosa sappia sopravvivere alle contingenze e come, persino dinanzi al torvo prevalere di una sorte che l* separa, l’amore non sappia esaurirsi.

E per tutto il film, come in una sua scena iconica e a ragione celebrata, ci si sente avvolt* dalla sensazione che dà quella policroma pioggia di indumenti sulla strada innevata, mentre l’atmosfera in fa lidio di A New Error dei Moderat simula il piacere della pelle lambita dalla seta profumata di bucato steso al sole. Se ne trae un senso euforico di liberazione, perché, con una grazia carica del giusto grado di indulgenza, non ci parla del nomadismo identitario di un individuo ma di una sofferenza collettiva: l’asperità delle contingenze avverse, qualunque sia la loro natura.

E qui le parole “euforia” e “natura” sono convocate pour cause. Il film tratta del malessere, o disforia, che provoca l’ordine in apparenza imperituro della divisione binaria dei generi – e varrà qui la pena rammentare la distinzione, oggi crismata da esperti di ogni sorta, tra sesso, come dotazione biologica dell’individuo, e genere, come la credenza ben sedimentata che a un sesso corrisponda, appunto per natura, una specifica serie di condotte e una precisa forma del desiderare. Insomma, secondo una concezione ancora molto diffusa, il sesso, cioè la legge della biologia che scrive il corpo e lo conforma, sarebbe in grado di produrre nel soggetto sessuato la condotta socialmente opportuna: come una sorta di adamitica relazione causale per cui il pene e la vagina, assieme alla relativa dotazione cromosomica, istruirebbero già sempre il soggetto su come comportarsi e cosa desiderare. È da un paio di decenni che in quel campo eteroclito di studi detto teorie queer (si raccomanda la lettura di L. Bernini, Le teorie queer, Mimesis 2017) s’è dimostrata la fragilità di questa cosmologia naturalista. In gergo tecnico, poco interessante in questo contesto eppure indicativo, si dice che il nesso tra sesso e genere è non già causale ma socialmente costruito

Judith Butler, garbatissima star del firmamento accademico internazionale, spesso dipinta dalla propaganda anti-gender come un Mefistofele ingentilito che fa strame delle rette tradizioni, lo spiega con facilità di parola tipica della conferenziera esperta che unisce speculazione e divulgazione: “Come in altre messe in scena sociali rituali, l’azione del genere richiede una performance che è ripetuta. Questa ripetizione è allo stesso tempo un riattuare e un rifare esperienza di una serie di significati già istituiti socialmente; è la forma corrente e ritualizzata della loro legittimazione” (J. Butler, Questione di genere, Laterza 2013; sui movimenti anti-gender, si consiglia M. Prearo, L’ipotesi neocattolica. Politologia dei movimenti anti-gender, Mimesis 2020). Insomma, il fatto che a un insieme di caratteri fisici e biologici, diversamente preposti alla funzione riproduttiva, si faccia corrispondere un certo modo di comportarsi, vestirsi, parlare, gesticolare, soffrire, e molto altro, dipende dal fatto che un rituale collettivo, ossia la ripetizione stilizzata di atti specifici, impone a bambine e bambini, già prima di venire al mondo, una panoplia di gesti del corpo, desideri e stili. 

La recente traduzione di un classico degli studi sulla sessualità ribadisce il punto con forza ed eleganza. Si tratta di Storia transgender. Radici di una rivoluzione, di Susan Stryker, tradotto da Laura Fontanella e Marta Palvarini per i tipi di Luiss University Press. Il libro ripercorre la storia dell’attivismo trans negli Stati Uniti, raccontata però in modo così vivido e persuasivo da distillare energie teoriche, morali e politiche, che del saggio fanno un pezzo vitale e operoso dell’attivismo di cui parla – col pregio, sia detto, di stemperare molti dei tratti più respingenti di certi attivismi sanfedisti, che si racchiudono nel perimetro angusto e inospitale di battaglie troppo gergali. Storia transgender ha il merito, tipico solo dei migliori romanzi, di raccontare una storia che parlando di alcun* parla di tutt*. E lo fa in modo tale da predisporre chiunque alla comprensione, senza presupporre alcuna familiarità col tema e senza richiedere una presa di partito. Il primo capitolo, in effetti, vale un compendio di teoria della sessualità quando compita e dettaglia con mirabile chiarezza i termini e i concetti necessari per muovere i primi passi nelle molte spire del tema con la guida sicura del sapere prodotto nell’ultimo mezzo secolo di studi. E troviamo così una sintesi, cristallina e mai sfacciatamente orientata, di termini tanto utilizzati e poco conosciuti come cisgender, identità di genere, sessualità e molti altri. 

Circa la storia del movimento trans, è interessante apprendere che, solo a metà degli anni Cinquanta del Novecento, i temi del travestitismo e del transgenderismo si sono diversificati con nettezza da quello dell’orientamento sessuale: “Per tutta la metà del Diciannovesimo secolo e per la prima metà del Ventesimo, il desiderio omosessuale e la varianza di genere furono spesso associati. […] un uomo attratto da un altro uomo si sarebbe comportato come una donna” e viceversa (p. 70).  Furono l’interessamento della medicina ufficiale, silente strumento di governo delle vite, e le prime forme di attivismo trans che permisero una migliore determinazione della questione e una più specifica identificazione della popolazione interessata. Figure come il medico e sessuologo tedesco Magnus Hirschfeld (1868-1935), che fondò il notissimo Institut für Sexualwissenschaft (tra i primi centri oggetto della sciagura nazista) di Berlino e che per primo trattò del fenomeno transgender; l’endocrinologo e sessuologo tedesco Harry Benjamin (1885-1986), che diede impulso allo studio delle terapie ormonali; o l’attivista statunitense Virginia Prince (1912-2009), animatrice del magazine Transvestia e ideatrice della Foundation for Personality Expression. 

Ma proprio quando parla di queste figure del pionierismo trans, Stryker fa intravvedere la decisa vena critica di una studiosa che s’impegna per un attivismo più efficace. A suo avviso, infatti, le prime forme di organizzazione transgender nascevano col vizietto tipico di tutti i contesti che riescono a ottenere e dispiegare una qualche forma di potere, vale a dire la chiusura su sé e la limitatezza di veduta politica. Le strategie messe in atto dalla Foundation for Personality Expression, composta da individui prevalentemente bianchi appartenenti alle classi più agiate, perseguivano “un’unica causa d’oppressione che interferi[va] con il loro privilegio o complica[va] loro la vita”, e così commise l’errore tipico di tutte le organizzazioni che “tendono a riprodurre i loro stessi privilegi. […] Prince seminò zizzania tra le comunità dei travestiti, delle persone transessuali, gay, lesbiche e femministe, e non voleva immaginare un movimento transgender inclusivo, espansivo, progressista, e poliedrico” (pp. 94-95).

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In tal senso, quello di Stryker è un saggio indiretto su come e perché le forme di attivismo, non solo statunitensi, abbiano fallito in quella strategia di orchestrazione che avrebbe potuto, e forse ancor oggi potrebbe, conferire loro un potenziale ben più significativo; su come e perché le rivendicazioni puntiformi dei diversi movimenti non riescano ad intersecarsi le une con altre per creare una perturbazione di ben più vasta scala. Stryker racconta di sollevazioni della popolazione transgender che seppero anticipare i ben più celebri moti di Stonewall, 27 e 28 giugno 1969, ritenuti il ventre simbolico del movimento di liberazione gay e che non a caso furono innescati dall’attivista trans Sylvia Rivera col suo mitopoietico lancio di bottiglia contro un poliziotto. Ad esempio, il mal documentato scontro del maggio 1959 alla caffetteria Cooper Do-Nut nella Main Street di Los Angeles; i disordini del 1965 presso Dewey’s, tavola calda e caffetteria di Philadelphia, “primo atto di disobbedienza civile contro la discriminazione anti-transgender” (p. 100); o i ben più imponenti scontri del 1966 alla caffetteria Compton’s di San Francisco, che segnarono uno spartiacque glorioso nell’attivismo trans perché riuscì a determinare una sinergia virtuosa tra organizzazioni impegnate in battaglie contro la povertà, il razzismo, il sessismo e l’eterosessismo. 

Storia transgender spiega con sintesi felici e circostanziate come e perché i moti della caffetteria Compton’s seppero procurarsi maggiore visibilità e integrarsi assai meglio con le altre forme di lotta sociale: i progressi della conoscenza medica, il crescente sostegno agli strati più poveri della società, il mutamento della percezione sociale circa le condotte e la pubblicistica considerate oscene, il successo delle battaglie legali per i diritti delle minoranze. La chiave, insiste l’autrice, fu la rottura del monadismo che guarda al pur degnissimo interesse di bottega per dedicarsi alla intersezione delle voci di protesta. I successi di quelle forme di nerboruta rivendicazione trans tra gli anni Sessanta e Settanta furono l’esito di un doppio movimento, che mai avrebbe potuto rinunciare alla sua duplicità: un movimento orientato verso l’interno, per cui i membri di una minoranza discriminata diventano consapevoli del loro esser gruppo, e uno orientato verso l’esterno, per cui il gruppo inventa linguaggi e tecniche per innestare le proprie rivendicazioni nelle rivendicazioni di altre minoranze. 

Ma il libro spegne presto gli entusiasmi per seguire le tracce di un sorprendente fallimento. Proprio mentre la morale pubblica allargava le proprie maglie, si assistette a una recrudescenza delle pastoie imposte alla libera espressione del sé delle persone trans. Una maggiore, perlopiù superficiale, liberalità dei costumi non produsse affatto l’attesa liberazione sessuale, né della comunità trans né di altre minoranze sessuali – come esempio, valga su tutti per forza icastica la figurazione dell’AIDS come “infezione gay”. Con un ragionamento ben argomentato, che qui sarebbe complicato ripercorrere, Stryker attribuisce questa involuzione alla fine della gioiosa macchina da guerra che i movimenti di liberazione avevano creato in virtù di inattese alleanze. E, senza alcuna clemenza per il presente, la sua conclusione è che l“attuale ‘omonormatività’ della cultura gay dominante (in cui l’enfasi è cioè posta sul ‘sembrare etero’ e sull’‘agire etero’) e la mancanza di una significativa connessione tra comunità gay e lesbiche con le comunità transgender trova il proprio fondamento nel cambiamento di paradigma” che ebbe luogo nei primi anni Settanta (p. 132). In particolare, secondo Stryker, il separatismo femminista e lesbico, che presentava vistosi tratti di transfobia – la femminista e lesbica radicale Janice Raymond, ad esempio, sosteneva che la questione trans avesse a che fare col nazismo e che dovesse esser risolta mediante “eliminazione morale” – produsse uno strappo che non avrebbe trovato rammendo. 

Solo a partire dal 1990, la lotta trans riacquisì quel respiro ampio che intendeva farsi spazio di aggregazione per tutte le forme non convenzionali dell’espressione di sé e dell’identità di genere. Nel 1991, in The Transgender Alternative, l’attivista trans Holly Boswell attribuisce alla parola “transgender” l’aspirazione unificante di significare qualunque senso di diversione dalle aspettative di genere, non importa quali né come. Su questa scia, la saggista e attivista Leslie Feinberg carica il termine di intensità politica per farne vettore di qualsiasi forma di resistenza all’imposizione di un rigido binarismo dei sessi. Un tale ecumenismo “degenere” poté unirsi ai nuovi fermenti delle imberbi teorie lesbiche e queer, che prendevano le distanze dal femminismo separatista delle generazioni precedenti. La nuova sinergia tra pensiero trans e queer intendeva rimuovere l’idea troppo rudimentale per cui un genere, quello maschile, fosse un puro sito di potere, mentre l’altro, quello femminile, l’esito di un’atavica oppressione. Occorreva piuttosto guardare ai generi come categorizzazioni approssimative di fenomeni reali, che non ricalcano quei fenomeni se non con ampi margini d’errore. L’invito è all’esplorazione, senza furie divisioniste, della varietà dei cromatismi di genere diffusi in ogni società. Il pensiero transgender e queer si fece così viatico per “una ‘eteroglossia’, una profusione di lingue, una Babele di idiomi, riguardo tutti i possibili e immaginabili tipi di genere esistenti” (p. 166). 

La storia è ancora molto, troppo lunga perché possa raccontarsi qui con il rispetto che merita – e per certo dovrebbe comprendere un’indispensabile appendice sulla nozione di disforia di genere, codificata nella quinta edizione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders. La nozione clinica, oggi tanto dibattuta, intende rilevare quei segni di ansietà e disagio che alcune persone trans provano a causa della discrepanza tra il genere assegnato alla nascita e l’immagine di sé da esse nutrite. Ma il problema ancestrale del rapporto con la medicalizzazione è dietro l’angolo, perché la disforia di genere rischia così di favorire un quadro di patologizzazione che non sempre trova fondamento nell’esperienza reale delle persone trans (si veda Zowie Davy and Michael Toze, What Is Gender Dysphoria?). 

Ma qui s’è detto già troppo e bisogna chiudere. Chi scrive, secondo alcun*, e forse non a torto, non dovrebbe farsi carico della forza rivoluzionaria delle lotte dolorose di minoranze cui non appartiene. La questione è complicata e ha un suo senso teorico. Ma qui si scrive per raccomandare un libro, e farlo sentitamente. Sicché chiamo a consulenza peritale di parte proprio Stryker, che in conclusione asserisce: “Questo libro [..] avrà raggiunto il suo modesto obiettivo solo se avrà aiutato proprio voi che state leggendo a sviluppare una coscienza critica della storia”. E come raccomanda la nota attivista e scrittrice Porpora Marcasciano, figura chiave del movimento trans italiano, la cui intervista impreziosisce la conclusione della versione italiana di Storia transgender (pp. 243-251), la vicenda dell’attivismo trans non è (solo) la storia di una minoranza, bensì in primo luogo l’esempio fulgido di una riuscita estroflessione dei linguaggi di rivendicazione, spesso strozzati per il troppo ripiegamento su sé. La virtù di Stryker, come quella di Laurence Anyways, è mostrare come quello che potrebbe sembrare un esotismo sia invero un’esperienza drammaticamente comune (sebbene spesso meno dolorosa): nell’asfissia di una grammatica sociale che satura ogni nostra condotta e ogni nostro desiderio, ciascun* di noi, a un certo punto, avrà bisogno di un po’ d’aria, di allontanarsi un poco dal canone per riprendere fiato. Ma ahimè, da che mondo è mondo, l’essere umano è un disadattato cronico, che spesso, per pusillanime nevrosi, s’incarognisce con chi, come le persone trans, hanno l’insolenza di misurarsi con questa palese inettitudine.

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