Quale giustizia per la violenza di genere?
Da qualche settimana in qua, a leggere certi giornali, vien voglia di rimanere in casa. Le strade sono zeppe di mascalzoni pronti a ogni sorta di malefatta, persino fine a sé stessa, pur di non deflettere da un’indurita natura delittuosa. Proprio con l’avvicinarsi della primavera, quando la mezz’ora di cammino al giorno non è più un odioso martirio per il benessere dell’apparato cardiocircolatorio, si diffonde una rinnovata paura del borseggiatore dietro l’angolo. La risposta di uno Stato che sa fare lo Stato è pressoché la solita: aumentare le pene e tonificare i bicipiti della forza pubblica. Come in una scala escheriana, si estende la lista dei crimini sino a coglierne le sfumature più impercettibili all’occhio del normale cittadino e si intima ai tutori dell’ordine di non indulgere neppure dinanzi alle puerpere. Da più parti, nondimeno, si nota che questa soluzione s’è quasi sempre dimostrata inefficace, non perché esistano troppe falle nel sistema penale o perché le forze di polizia siano sempre in numero drasticamente inferiore a quello di chi delinque, ma perché la punizione inflitta dallo Stato non di rado si rivela un male peggiore del delitto commesso.
Com’è noto, questo è il succo della critica anarchica al sistema penale dello Stato. L’ordinamento giuridico definisce la fattispecie criminosa, e dichiara di voler reprimere quella, ma alla fin fine reprime e opprime i criminali e li rende sempre più criminali. Si dice di voler colpire la condotta, ma si insiste sulla persona. Con l’asciuttezza metodica di chi è renitente al fronzolo ma è devoto all’ipotassi, Andrea Salvatore di questa intuizione anarchica fa sintesi in poche efficacissime righe: “Per quanto infatti si sostenga di punire gli atti e non la persona (l’errore e non l’errante, per richiamare ancora una volta la felicissima sintesi di Giovanni XXIII), la sostanza della pena inflitta coinvolge sempre un essere umano, ovvero un corpo e una mente, cui non fa gran differenza sapere che la condizione di minorità in cui si trova – che sarebbe esattamente la medesima se anche si mirasse a punire la persona – è dettata esclusivamente dalla volontà di punire il solo atto (un po’ come, ovviamente mutatis mutandis, assicurare all’eretico al salire del fumo che il fuoco mirava a eliminare esclusivamente l’eresia e non la persona non doveva cambiare di molto la situazione, almeno dalla prospettiva di chi si trovava sul rogo)” (A. Salvatore, L’anarchismo. Teoria, pratica, storia, DeriveApprodi 2020, p. 110).
Insomma, starebbe nel genoma del sistema penale statale l’ombra funerea del rito sacrificale: non tanto colpire certe condotte per prevenirne di simili, quanto sbozzare la fisionomia di una morale pubblica sanguinaria, tutelata da un potere centrale che sembra volersi guadagnare il favore della dea Giustizia con il sacrificio di vite umane. In una endiadi, punizione e vendetta – torve gemelle, che com’è noto non fanno un granché per ripristinare la pace sociale e garantire un ambiente nel quale chi compie reati voglia compierne meno. Bisognerebbe ripensare da capo a piedi quella che Pëtr Kropotkin definisce “l’università del crimine”, cioè il sistema penitenziario, là dove esso drena tutte le attitudini e le qualità che rendono una persona abile alla vita in società e, a fine pena, l’ha resa un innesto pronto a un continuo rigetto – vale a dire, da criminale per avventura l’ha reso criminale per sorte. L’invito anarchico è a figurarsi un’idea meno onnipotente del diritto penale, da riservarsi ai casi più estremi e rari, e immaginare un sistema di riparazione del danno e recupero del reo, che ne permetta un autentico reinserimento nel tessuto sociale.
Inevitabile, quando si tocca la sacralità della pena, è l’obiezione che, per quanto si voglia vagheggiare un’intera, misericordiosa teoria di pene alternative, a reati come l’associazione mafiosa e la violenza di genere deve comunque negarsi ogni spazio di negoziazione. Insomma, si sogni quanto si vuole, ma la giustizia penale serve eccome in quei casi in cui al criminale non è possibile accordare un perdono. In La trama alternativa. Sogni e pratiche di giustizia trasformativa contro la violenza di genere (Minimum Fax 2023), Giusi Palomba prova a smontare questa reazione quasi istintiva di chi ripone troppa fiducia nel pennacchio del carabiniere. Il libro ha un’anima doppia: etnografia partecipata, nella prima parte; teoria puntellata di riferimenti alla vita culturale e sociale, nella seconda. Ma il caso che l’autrice riporta a inizio del libro è troppo invitante perché si possa riparare con troppa fretta nella teoria.
Palomba racconta che, durante un lungo soggiorno catalano, un suo amico e compagno di iniziative a sfondo culturale e attivista commette una violenza sessuale: dopo una festa, sotto l’effetto di sostanze, raggiunge con una donna un albergo e lì ne abusa. Ho poche righe sopra usato il termine “etnografia partecipata” perché chi legge percorre la storia attraverso il filtro razionale ed emotivo dell’autrice, la quale è sì sotto choc, eppure cerca un orientamento per muoversi senza produrre ulteriori strappi. Ella esplora così i passaggi tramite cui si trova via via coinvolta in una dinamica “trasformativa”, nella quale, senza ricorso alla pubblica sicurezza, le persone coinvolte (amiche e amici, conoscenti, facilitatori, leader di comunità, attiviste e attivisti) si distribuiscono compiti. Interessante è il grado di studiata formalizzazione di questa giustizia informale “dal basso”. Ci sono tre gruppi di base, che interagiscono tra loro secondo protocolli piuttosto rigidi: un gruppo di collegamento fa da ponte d’intermediazione tra l’uomo e la donna; un gruppo di alleati accompagna l’uomo nel percorso; un gruppo di supporto organizza con lui incontri, discussioni e momenti di autocoscienza. L’identità della denunciante non gli è nota, né (questo è l’unico elemento che desta più di qualche perplessità) i fatti rilevano: non si è alla ricerca della verità, ma in un processo di riparazione che incancrenisca le ferite già inferte. L’uomo dirà poi all’autrice: “Non importa quello che io credo sia successo, vale la sua percezione di quello che è successo” (p. 70).
La donna, attraverso il gruppo di collegamento, avanza delle richieste (nello specifico, di non farsi vedere nelle zone frequentate da lei e di rinunciare agli incarichi di natura pubblica), e mediante un percorso congiunto, sempre mediato, riesce in un’impresa duplice: né procurare inutili danni all’uomo, considerate le prevedibili conseguenze di una eventuale condanna penale, né prestarsi a quella degradante commedia degli equivoci per cui, nel processo penale, si cerca di raffigurare la donna come una dissoluta e l’uomo come un ingenuo.
Insomma, si tratta di un caso di abuso sessuale nel quale la “sopravvivente” (non già la “vittima”) decide di non denunciare la “persona che ha inferto il danno” (non già il “perpetratore”) e, in luogo della corsa in questura, innesca un processo alternativo di riconoscimento e riparazione del danno. Sin dalla ricostruzione dell’evento nei suoi minimi termini, si coglie il senso di uno sforzo d’immaginazione lessicale per dismettere i termini classici del gergo penale e quindi del suo immaginario troppo angusto. La donna ha sì subito, ma è sopravvissuta, e la sua fisionomia non risponde affatto alla consueta figura della vittima debole, indifesa, inabile all’azione, questuante il braccio forte di papà Stato e mamma galera. La sopravvivente piuttosto agisce, e lo fa con una certa qual determinazione. Del pari, l’abusatore non è il carnefice, nella cui definizione è già sempre inscritta una condanna in primo luogo morale, da scontarsi poi tra le mura di una cella o di altre reclusioni mentali. Neppure la persona che ha inferto il danno è consegnata, in caso, all’inazione di una vita in nove metri quadrati, ma deve darsi a una dinamica che vede coinvolte molte altre persone. E qui sta un’ulteriore chiave del libro, che va ben oltre la pur necessaria rivisitazione semantica: in un evento come un abuso sessuale, i protagonisti non sono mai solo due, ma una sequela di persone, coinvolte in gruppi diversi che fanno cose diverse.
Val la pena sottolineare che, nelle intenzioni dell’autrice, quello della violenza di genere è perlopiù un caso di studio, certo uno dei casi più delicati, per avvalorare una tesi più generale e onerosa: anche per reati di ferale gravità esiste una giustizia riparativa libera dalla coazione a punire, un processo trasformativo volto ad aprire una feritoia da cui guardare all’accaduto in modo condiviso ed elaborarlo attraverso una sorta di liturgia collettiva. Una dinamica al plurale, in cui la responsabilità sia scientemente ripartita – o, meglio ancora di responsabilità, quella che in inglese si dice accountability, il dover rispondere di un qualcosa dinanzi a qualcuno. Ad avviso di Palomba, bisogna resistere alla pulsione mortifera del preconscio collettivo secondo cui c’è sempre bisogno di un capro espiatorio – quel vizietto per cui il pubblico, quantunque votato all’icona di una giustizia millimetrica, si accontenta poi di facili transazioni che portano qualcuno a pagare per colpe magari anche sue ma mai solo sue. Secondo l’autrice, da questa sete di colpevoli a basso costo non sono esenti certe recenti propaggini del femminismo, che del corpo della donna fanno la scena virginale di un perpetuo reato, con l’uomo che è servo di una mascolinità furiosa avita e senza sbocco. Tutte vittime e tutti colpevoli, al di là delle azioni davvero commesse e di ogni possibile orizzonte di cambiamento.
La seconda e più ampia parte del libro esplora questo orizzonte possibile, compitando con ordine e circospezione le occasioni effettive in cui da fantasticheria si fa pratica. Palomba si rifà al lavoro di studios*, attivist*, artist* che accordano priorità all’attenzione per la “persona aggredita e il rispetto delle sue decisioni, e ‘non la persecuzione del delitto o dell’aggressore’” (p. 118). In sintesi, persone che ripudiano la compulsione alla vendetta perché dannosa in primo luogo per chi la nutre. La giustizia trasformativa descritta dal libro è redolente dell’ideale anarchico – non una morale alternativa con una nuova costellazione di buon* e di cattiv*, ma una logica dell’efficienza: “L’idea che se una persona commette un errore, allontanarla dalla comunità sia l’unica opzione possibile, vuol dire che quell’errore molto probabilmente si ripeterà in altri luoghi e in altre situazioni, e toccherà ad altri risolvere il problema, altri che magari non godono di grandi tutele e protezione” (p. 131).
Il libro al contempo è un inno a quella che potremmo definire co(i)mplicazione, ossia il duplice movimento per cui occorre astenersi da ogni semplificazione e al contempo rammentarsi che, in ogni singola circostanza, persone ed eventi apparentemente irrelati si implicano vicendevolmente. Troppo facile per chi commette un crimine negare l’accaduto, ricorrere ad avvocati o dichiararsi pentiti. Troppo facile per chi osserva da fuori intronarsi pubblici ministeri e ricalcare lo slang di chi siede già sempre nei banchi dei giusti. Troppo facile ritenere che lo Stato risolva i casi con efficacia e sollecitudine nell’ingenua e risaputa miopia per i travagli e le lungaggini del rituale della giustizia pubblica. Bisogna piuttosto avvedersi che ogni singola infrazione della legge porta con sé una storia collettiva fatta di emarginazione, esclusioni, giudizi sommari, pubbliche esecuzioni, che precipitano poi in un atto la cui puntiformità inganna e strania. All’opposto, la piena riparazione del danno chiede che ci si trascini dentro, assieme a chi reca danno e a chi è offeso, anche qualora apparisse controintuitivo o comunque sembrasse di star pagando un prezzo cui non è corrisposta prestazione o servizio.
È per questa ragione che, a ben vedere, la protagonista di La trama alternativa è proprio l’autrice: i suoi vissuti di inquietudine morale, i suoi scarti emotivi nella conflittualità delle pulsioni (la nostalgia per un’amicizia tradita vs. lo sdegno per un abusatore vs. una chiamata un poco inspiegabile a farsi carico della croce per un tratto di strada come Simone di Cirene), i fatui baluginii di una giustizia a venire che irradia energia trasformativa. Sembra quasi un romanzo di formazione in cui la protagonista matura un senso della complessità che le apre nuove prospettive su come si rammenda uno strappo che eccede i due lembi. Proprio questa elegia del comunitario, forse, sollecita un dubbio, al netto del consenso quasi pieno di chi scrive: nel caso discusso, è sin troppo evidente la pregnanza di un’azione collettiva entro i confini di una comunità già strutturata. Cerchie di persone distinte eppure unite da interessi sociali e/o culturali, o al peggio dalla mera prossimità di tempi e spazi in una condizione di socialità dinamica e coinvolta. Insomma, una comunità che sa di villaggio, puntinata di volti noti, stretta in legami di solidarietà vitali e circoli di cura attivi. Se tutto questo, come credo, è condizione necessaria per avviare processi collegiali di risoluzione alternativa delle dispute, forse il tema urgente è quello di una prodromica trama sociale, sfibrata da un’esistenza che da qualche decennio promuove relazioni meno dipendenti dal territorio e dalla prossimità. Insomma, magari ad averne di comunità nutrite di persone pronte a far gruppi e distribuirsi compiti per raddrizzare torti. Ma non sarà certo questa venatura di utopia a dissipare la forza immaginativa di un libro che descrive le condizioni possibili e quelle reali di una collettività che non vive in perenne debito di sangue.