The Square, oltre la rivoluzione
The square viene presentato al pubblico milanese nella popolare "sala di comunità" del Beltrade: un cinema dell'oratorio, dall'autunno casa del cinema indipendente. Il film racconta la rivolta egiziana attraverso le storie delle persone che l'hanno vissuta, narrando la vita e la morte di e in Piazza Tahrir: la regista Jehane Noujaim individua sei protagonisti nella moltitudine della Piazza e li segue quotidianamente per due anni, tracciando così un filo rosso in grado di legare la Storia alle storie.
Tra i sei è Ahmed Hassan a prenderci per mano e a guidarci, lungo tutto il film, nelle strade del Cairo fino a Piazza Tahrir. Ahmed ci trascina con forza negli scontri a lanciare sassi, la vista oscurata dai lacrimogeni, la testa protetta solo con un braccio, facendoci sentire come lui indifesi e indignati. Non è difficile immedesimarsi nel suo viso pulito, dolce, nel suo abbigliamento occidentale, le sneakers, il cappuccio della felpa tirato su, la camera sempre al collo. Ahmed è il narratore instancabile della rivoluzione egiziana.
Iniziata nel gennaio del 2011 con le prime proteste in piazza Tahrir e le dimissioni di Mubarak e continuata con le proteste contro la dittatura militare. A questa, non senza conflitti, sono seguite le elezioni nel giugno del 2012, dove Morsi, leader dei Fratelli Musulmani, è stato eletto. Anche il presidente faraone però dopo solo un anno, è stato costretto dalla sollevazione della piazza a rassegnare le dimissioni: è il giugno 2013, qui il film si conclude.
Se Ahmed è il protagonista, Magdy Ashur – barba lunga e abiti tradizionali, i segni delle torture sul corpo, a casa sei figli ed una moglie completamente velata – veste i panni dell'antagonista e porta nel film lo sguardo dei fratelli musulmani. Questi ci racconta una parte non trascurabile dell'Egitto, quella islamica, mostrandocene i paradossi, i conflitti e la fatica della conciliazione politica. È Khalid Abdalla, invece, a portare in scena l'anima laica e progressista, un'ulteriore personalità di un Egitto multiforme. Attore famoso, cresciuto nel Regno Unito durante l'esilio del padre, torna al Cairo per contribuire alla causa del suo Paese. Khalid, straniero in patria, mostra la necessità di comunicare e raccontare, dentro e fuori l'Egitto, quello che sta succedendo in PiazzaTahrir. Khalid ha il ruolo del tramite: tra Europa e Medio Oriente, nelle conversazioni via skype col padre esiliato, e tra il reale e il virtuale, insegnando alle persone a diventare testimoni e narratori delle rivolte.
Oltre alle storie degli uomini, c'è quella delle donne. Il femminile nel film è incarnato da Aida El Kashef, videomaker e militante e da Ragia Omran, impegnata nella difesa dei diritti umani, ma è un femminile la cui parola resta celata: la regista si racconta per voce maschile e fa sentire il femminile e le sue questioni solo sottovoce attraverso le parole di altre donne. Una di queste, che ha subito violenze durante gli scontri, chiede a un portavoce dell'esercito: "Come si può affidare una nazione ad un esercito che non sa proteggere una donna?". L'altra, la figlia di Maddy, indignata e sconfortata chiede al padre: "A cosa mai è servita questa rivoluzione se ancora non ho accesso alla sanità?". Una riflessione solo accennata che apre un interrogativo sulla condizione della donna, fuori e dentro Piazza Tahir.
Tutto l'andirivieni di storie, vicende ed avvenimenti narrati, conducono lo spettatore a scoprire la vera grande protagonista del film: the square, Piazza Tahrir. Tutte le storie fanno capo a questa piazza, un crocevia di incontri, di idee e di prassi; la piazza è abitata, tende per dormire, un cinema per narrarsi, tavole imbandite, un sistema di sicurezza e uno di comunicazione, la bandiera egiziana che sventola: siamo nello Stato di Tahir. Ciò che unisce gli abitanti di Tahrir è un'idea di cambiamento, ben esplicitato dalla frase che, come un mantra, ritorna nel film: "The people demand the downfall of the regime", il regime di Mubarak, dei militari, di Morsi."Non abbiamo bisogno di leader, in piazza Tahrir sono tutti leader, abbiamo bisogno di una nuova coscienza", ci dice Ahmed, e Tahrir è il luogo dove questa coscienza può germinare.
The square è di una ricchezza straordinaria: ha la capacità di dare informazioni storiche e di contesto, di raccontarci l' esperienza egiziana da diverse angolazioni e di suscitare interrogativi. Abbiamo avuto modo di parlarne con Mitra Azar, media activist and artist, impegnato in Egitto e in Medio Oriente durante la "primavera araba". Il ruolo delle donne è poco presente nel film. Quale è la tua esperienza rispetto al ruolo delle donne nell’Egitto in rivolta?
Sono d’accordo con te, in effetti la presenza femminile è un po’ sottovalutata nel film, soprattutto se si pensa che la regista è una donna. Durante la mia permanenza al Cairo sono entrato in contatto con una rete estremamente fitta di giovani donne che hanno dato un contributo sostanziale agli sviluppi della rivoluzione. Per esempio Selly Toma, fondatrice dei Kazeboon, gruppo che si è occupato di rendere pubbliche molte delle menzogne generate dalla macchina di propaganda dei militari.
Samira Ibrahim, che nel giorno della detenzione al museo egizio, menzionato anche nel film, viene sottoposta al test della verginità: in sostanza uno stupro atto a verificare la verginità della ragazza e di conseguenza la sua integrità morale, dopo il quale, con coraggio e contro i tabù della società egiziana, ha intrapreso pubblicamente una battaglia legale di respiro internazionale.
Mona Seif, fondatrice dei No military trials for civilians, collettivo che si è occupato di difendere legalmente e alle volte di aiutare le famiglie di egiziani che non erano più in grado di rintracciare i propri figli, arrestati durante le manifestazioni e fatti letteralmente sparire. Per non parlare del gesto estremamente criticato anche dagli attivisti locali di Aliaa Elmahdi, che agli inizi della rivoluzione decise di posare nuda sul proprio blog – e che ha dovuto lasciare successivamente il Paese per ovvie ragioni e ora collabora con Femen.
Il tema dei nuovi media è ben presente nel film della Noujaim. Che ruolo hanno i nuovi media nella rivoluzione egiziana e nella primavera araba in generale, anche rispetto alla tua esperienza?
A mio giudizio il ruolo dei nuovi media nel corso della primavera araba è stato sopravvalutato, e sin dai tempi della "rivoluzione verde" iraniana (durante la quale ho girato un film e successivamente pubblicato un libro) risponde ad una visione californiana della rete e del suo intrinseco potere pseudo-rivoluzionario.
Già in Iran, i mass-media occidentali parlarono di Twitter revolution senza rendersi conto che Twitter era uno strumento di trasmissione delle informazioni all’esterno del paese, ma che al suo interno il tentativo di rivolta si svolgeva nell’empatia del passaparola, durante manifestazioni nelle quali i cecchini sparavano sulle persone e i manifestanti si accordavano nel frattempo sulle future insorgenze.
In Egitto – al contrario della vulgata mass-mediatica diffusa – si potrebbe dire che la rivoluzione è accaduta proprio quando internet è venuto a mancare. L’errore più grande di Mubarak nel gennaio del 2011 è stato, infatti, quello di chiudere completamente il flusso di informazioni virtuale (in rete, ma anche telefonico) spingendo la popolazione egiziana ad occupare le strade semplicemente nel tentativo di incontrarsi nei luoghi tradizionali di ritrovo e discussione (la moschea, la chiesa, la teteria, la piazza) per cercare di capire assieme che cosa stesse succedendo al paese.
Ciò non vuol dire che la diffusione dei nuovi media non abbia comunque avuto un ruolo importante, in particolare quando l’attività di upload delle informazioni accadeva di pari passo con quella di download – vale a dire con un ritorno ad una pratica sulla strada.
I Mosireen sono un collettivo di video-attivisti egiziani che senza dubbio è stato in grado di mettere in atto questo circolo virtuoso. Sin dagli inizi della rivoluzione Mosireen ha creato una struttura poco lontana da Tahrir nella quale giovani egiziani di qualsiasi estrazione sociale e religione venivano introdotti all’attività filmica tout-court, e in particolare a quella in condizioni di tensione sociale – ricordo ancora il workshop segretissimo tenuto da un esperto di dinamiche insurrezionali per insegnare agli apprendisti video-maker l’arte di muoversi e proteggersi negli spazi della rivolta.
Così facendo, i Mosireen sono diventati un hub per molti di quei giovani armati di telefonino e di piccole camere che si dirigevano in piazza, e poi consegnavano il materiale a degli editor del collettivo che quasi in tempo reale montavano piccoli video sugli accadimenti appena successi. Alcuni di loro venivano istruiti per caricare online in tempo reale le proprie immagini attraverso strumenti quali Bambuser.
Khaled, uno dei protagonisti del film, è uno dei fondatori del gruppo, e l’appartamento che si vede nel film e dal quale Tahrir viene ripresa dall’alto è un altro dei luoghi segreti dai quali alcune delle immagini più terrificanti della rivoluzione sono state filmate – tra cui quella del corpo senza vita trascinato ai margini della strada in mezzo all’immondizia.
I Mosireen sono anche i promotori del Tahrir Cinema, dove questo rapporto tra il mondo in rete e quello fuori dalla rete risuona ancora una volta in modo estremamente efficace, non solo dal punto di vista del coinvolgimento di eventuali netizen globali ma anche di chi gli eventi li sta vivendo sulla propria pelle, e a volte non ha tempo di capirli. L’operazione consiste nella creazione di proiezioni pubbliche in cui i film montati dai membri del collettivo, oltre ad essere caricati online venivano proiettati nella piazza dove quegli stessi eventi erano accaduti.
Bisogna ricordare, per comprendere il valore di questa operazione, che la piazza non è solo quella dei protagonisti del film, giovani egiziani più o meno occidentalizzati come Ahmed o Khaled, o fratelli musulmani più o meno moderati come Magdi, ma soprattutto lo è stata di grosse fasce di emarginati senza niente da perdere e che per lo più sono stati la prima linea della rivoluzione, e che in gran numero sono morti per essa. È ad essi che il Tahrir cinema si indirizza, cercando di sviluppare una coscienza rivoluzionaria più consapevole al di là della rabbia e delle esigenze contingenti.
Mi è sembrato un limite che nel film questa grossa fetta della popolazione non abbia trovato spazio, ma ricordo io stesso come da un certo momento in avanti a Tahrir fosse diventato difficile filmare o approcciare questo strato sociale, perché la sicurezza della piazza cercava di nascondere questo lato di sé, in particolare per tutelarsi da alcuni report di giornalisti occidentali che cominciavano a descrivere Tahrir come luogo di molestie sessuali e degrado. Una censura che mi ha infastidito, ma che va anche contestualizzata, e che ora, a distanza di tempo, mi sento di capire.
Per concludere, e per smorzare ulteriormente la new-media-mythology di stampo zuckembergiano, uno dei media più sottovalutati della rivoluzione egiziana sono stati i muri della città. In particolare un muro, quello dell’AUC (American University Cairo), lungo Mohammed Mahmoud, luogo nel quale molti martiri sono caduti, mentre altri hanno perso la vista – nel momento i cui i militari hanno cominciato a puntare i fucili sugli occhi della gente, punizione medioevale e contrappasso simbolico legato all’uso estremamente consapevole della vista che il popolo egiziano stava compiendo attraverso la video-ripresa e la fotografia –.
Su questo muro, il caro amico Ammar ed altri hanno raccontato la rivoluzione quasi giornalmente, dipingendo battaglie e martiri, coprendo i vecchi graffiti con nuovi fregandosene del valore artistico del proprio lavoro, fregandosene dell’intervento dei militari che nottetempo li cancellavano. Il muro si è così animato, diventando il riferimento informativo di molti egiziani che si dirigevano alla parete proprio per visualizzare lo stato della rivoluzione, in particolare di quelli che non sapevano né leggere né scrivere.
Devo dire che la mancanza del muro nel film mi è dispiaciuta, nonostante il tentativo di integrarla attraverso l’apparizione di alcuni stencil che scandiscono le fasi del racconto e della rivoluzione, opera dello stesso Ammar.
Il film ci racconta in modo chiaro dei "tre poteri forti" presenti nell’arena egiziana: i militari, i fratelli musulmani e il popolo laico. Tu che hai avuto una esperienza diretta degli eventi del Cairo come li hai percepiti? Pensi che ci possa essere una strada per una loro conciliazione?
Non sono per niente ottimista. I militari in Egitto si sono rivelati, purtroppo, la forza politica più lungimirante del paese. Dopo la caduta di Mubarak sono riusciti, attraverso la propaganda, ad imporre Shafik (uomo di Mubarak) come unica alternativa a Morsi, leader della fratellanza musulmana. In seguito, hanno permesso che Morsi vincesse le elezioni sul filo del rasoio, proprio per evitare di entrare in uno stato di rivoluzione perenne e di conflitto con gli islamisti, che dopo sessant’anni di repressione non avrebbero accettato di perdere per poche migliaia di voti, ed avrebbero accusato i militari – che hanno gestito il processo elettorale – di brogli. Dopodiché, hanno permesso che la sete di potere di Morsi e parte del fondamentalismo derivato anche da anni di oppressione cominciassero ad infastidire le altre realtà sociali e politiche del paese (i cristiani ortodossi, prima dei laici e degli intellettuali) per veicolare poi la nuova ondata di protesta ed occuparsi infine di spodestare il presidente per riprendere il controllo del paese.
Ora la situazione è piuttosto drammatica. La guerra in Siria contribuisce all’instabilità del paese, forze fondamentaliste islamiche hanno cominciato ad attaccare anche località turistiche, come di recente è accaduto in Sinai, per delegittimare i militari al potere. Ed io sono stato nuovamente arrestato per nove ore, bendato, interrogato, minacciato di essere sottoposto al test della verità, perché stavo filmando un obelisco per un videoclip, poco lontano dall’esplosione di una bomba nel nord della capitale.
In questo momento mi sembra che non ci sia possibilità di mediazione, e solo l’emergere di una nuova coscienza rivoluzionaria e di una nuova Tahrir potrebbero ridestabilizzare in modo positivo il paese.
Di seguito A square un video girato da Mitra Azar e parte del Disobedience Archive, mostra itinerante curata da Marco Scotini, esposta presso diversi spazi espositivi tra i quali Castello di Rivoli Torino, MIT Boston, Raven Row London, Sala de Arte Publico Siqueiros Mexico DF, Bildmuseet Umea, Bureau Public Copenaghen.