Storia naturale dell’Inferno

24 Settembre 2024

In uno degli innumerevoli corridoi del Louvre, di quelli che i turisti in genere percorrono a grandi passi per raggiungere le sale più famose, da sotto una teca spunta una tavoletta dorata, piena di figurine nere in caduta libera. Alla sommità della tavola si vede Dio nell’Empireo, affiancato alla propria destra dagli angeli rimasti a lui fedeli; alla sua sinistra, invece, non c’è più nessuno: i cherubini ribelli, i disobbedienti, i traditori, scacciati dal Regno dei Cieli, precipitano verso il basso. Così li raffigura l’ignoto autore dell’opera, un pittore senese attivo intorno alla metà del XIV secolo e conosciuto semplicemente come il Maestro degli Angeli Ribelli. Nella parte inferiore della tavola, è dipinta una sagoma semisferica, scura: è la terra, che attende di inghiottire gli ex angeli, ora demoni, nelle proprie viscere. 

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Maestro degli Angeli Ribelli, Redentore con i cori angelici e la Caduta degli angeli ribelli, 1340-45 ca.

L’Inferno: tutti (forse) sappiamo cos’è, tutti sappiamo immaginarlo – anche grazie a un “atlante” d’eccezione come la Commedia dantesca – eppure non è facile precisarne i confini, le strutture, gli abitanti, gli accessi. In Fuoco e fiamme. Storia e geografia dell’Inferno (Einaudi, 2024, pp. XX-276), Matteo Al Kalak fornisce una dettagliata mappatura di un casus teologico che, nel vasto panorama del Cristianesimo occidentale, ha scaldato i cuori e le penne di filosofi e artisti, teologi e letterati, credenti e non. 

Tralasciando la mistica e il valore religioso che l’Inferno è andato conquistandosi nei secoli, Al Kalak si concentra prima di tutto sulla sua concretezza di luogo fisico (la Geènna dei Vangeli) e sul suo rapporto di immanenza nei confronti di chi lo popola, di chi vi transita e di chi ne definisce i limiti. Riprendendo Jacques Le Goff, l’autore ricorda l’indispensabile legame tra mondo dei vivi e mondo dei morti, dell’esperienziale e del non-esperienziale, in quanto “elemento fondamentale nella costruzione delle società e delle loro culture”. Difatti, se è vero che in principio era l’azione, la nascita dell’erebo cristiano deriva da una conseguenza: l’originaria opposizione tra Bene e Male, tra il Signore e il suo angelo più bello, il primo e incancellabile peccato di tracotanza che Satana rivolge al Padre. Prima che il Verbo diventasse carne, la colpa si fece luogo; da allora, una buona fetta d’umanità ha cercato di ricostruire questo delitto tramite la pittura e la scrittura: “L’Inferno”, scrive Al Kalak, “nato nella notte dei tempi, era una realtà viva e presente, e sotto i piedi degli uomini continuava a ribollire il mondo in cui il principe delle tenebre esercitava il suo dominio”.

In quanto luogo di punizione irrevocabile, l’Inferno deve essere senz’altro fatto di materia ostile e invivibile. Impossibilitato a discostarsi dalla propria natura instabile e passeggera, l’uomo non può fare altro che ricrearlo e immaginarlo in ogni luogo ignoto o pericoloso. “Senza aria, sozzo sito, informe loco | giace in mezzo il terreno cupo baratro: | lume alcuno non v’è, se non di fuoco | ch’eternamente come ombroso et atro: | mormora un vento spaventoso, et roco | per tutto il campo del mortal theatro, | che l’humido antro esshala, umida suda | tenace gelo la parete ignuda”: così lo descrive Erasmo di Valvasone nella sua Angeleida (1590); e queste sono le caratteristiche che l’hanno accompagnato nel corso del tempo. 

Pur non essendo mai stato chiaro cosa e dove sia l’Infernus – a parte la limpidezza della sua etimologia, riferita a “tutto quel che si trova sotto” – condizione necessaria per il suo accesso è ancora una volta l’azione: il peccato. “La tentazione genera diletto, dal diletto nasce il consenso, il consenso partorisce l’opera, et l’opera conduce consuetudine, la quale si fa poi madre della durezza et dell’ostinatione, onde ne viene l’uomo a terminare li giorni suoi impenitente, pertinace et ostinato, et per consequenza ad essere sepolto nel baratro dell’inferno”: così, in pieno spirito seicentesco, il Trattato delle tentazioni (1605) di Silingardi descrive il meccanismo a cerchi concentrici che porta l’umanità verso il lato sbagliato della barricata, e anticipa di qualche anno la descrizione che ne dà Antonio Rusca nel De inferno et statu daemonum ante mundi exitium (1621), uno dei numerosi testi scritti dedicati al tema infernale, a partire dalla sua ufficializzazione come luogo di “supplizi e dannazione eterna” nel IX secolo. 

L’Inferno descritto da Rusca, con la sua sezione triangolare a ribadirne la discesa verso l’infimo, è sempre in correlazione con i livelli di peccato o beatitudine cui va incontro quotidianamente il genere umano – Purgatorio, Limbo, seno di Abramo e terra. Luoghi fisici, luoghi ultraterreni e, molto più banalmente, luoghi dell’anima o per l’anima: ogni individuo deve trovare una collocazione e, per far ciò, deve andare incontro a qualcosa di molto simile al cerimoniale egizio della psicostasi, la pesatura dell’anima per stabilirne i meriti e i demeriti. Nella tradizione cristiana, il meccanismo della colpa e della punizione si unisce a quello del tracciamento e del riconoscimento di un’area riconducibile a quella degli Inferi. 

Stabilito un confine, tuttavia, diventa subito possibile superarlo: “a dispetto di ogni porta e serraglio”, scrive infatti Al Kalak, “l’inferno era un luogo più permeabile di quanto la sua posizione potesse suggerire e i contatti con il mondo dei vivi erano assai frequenti”. Nasce la figura dell’esploratore infernale: da Orfeo a Gesù Cristo, la lista dei visitatori illustri è lunga e tutto sommato non così nota. Nel libro, Al Kalak ricorda, fra le altre, le peregrinazioni diaboliche di Francesca Romana (1384-1440), canonizzata da Paolo V nel 1608, e dalla mistica svedese Santa Brigida (1303-1373). Che si tratti semplicemente di un Satana “seduto su un trave rovente”, come lo descrive Francesca Romana, o del più vasto “abisso tenebroso” raccontato da Brigida, dove una “fornace ardente” ospita tra le fiamme “le anime torturate dei demoni”, l’Inferno rimane sempre e comunque un coacervo di tensioni e di paure cui l’unico monito è quello di riportare a Dio, alla consapevolezza del premio o della punizione. 

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Hieronymus Bosch, Trittico del Giardino delle Delizie (1480-90), particolare del pannello di destra.

Fintanto che non venga “scoperto” – come vorrebbe una leggenda metropolitana diffusa da ambienti cristiano-integralisti sul finire del secolo scorso, secondo cui un gruppo di ingegneri sovietici l’avrebbe individuato a oltre 14 chilometri di profondità, nel corso di un progetto di perforazione della crosta terrestre – in fin dei conti l’Inferno si colloca ben oltre ogni passaggio ultraterreno, posizione geografica o descrizione topografica. Nell’Inferno musicale raffigurato da Hieronymus Bosch nel pannello di destra del celeberrimo Trittico del Giardino delle Delizie (1480-90), si vedono due enormi orecchie mozzate divise fra loro dalla lama di un coltello, rette da minuscoli dannati e trafitte da innumerevoli frecce. Una perfetta metafora visiva: l’Inferno è prima di tutto un dialogo, un colloquio che nel corso dei secoli l’uomo ha creduto di intessere con un interlocutore dai molti nomi, ma sempre sordo a ogni invocazione. Era invece un dialogo con se stesso, destinato a sfociare in un mondo interiore, che per comodità abbiamo chiamato Inferno. 

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