Un libro di Giuseppe Carrara / Storie a vista. Il fototesto
A dirlo, si rischia di cadere nell’ovvio, tanto il fenomeno è noto e diffuso. Nella letteratura degli ultimi anni la presenza di immagini all’interno dei testi è diventata una specie di costante. Non si contano i romanzi, le raccolte di poesia, le opere di non-fiction in cui compaiono fotografie, disegni, grafici e via dicendo. A lavorare in questo senso sono stati e sono autori molto diversi, da W.G. Sebald a Orhan Pamuk, da Annie Ernaux a Dave Eggers. E stando all’Italia si potrebbero aggiungere i nomi di Walter Siti, Emanuele Trevi, Helena Janeczek, Michele Mari, Antonella Anedda – solo per citare alcuni degli autori e delle autrici che la critica ha più apprezzato e discusso.
Nient’altro che una moda? Declinazione fra le molte possibili dell’attuale tendenza a ibridare le forme? O si tratta di un fenomeno del tutto naturale in un’epoca in cui le immagini possono essere facilmente reperite, copia-incollate e certo anche deformate? Difficile rispondere, soprattutto se non ci si accontenta dell’idea, col tempo diventata una specie di luogo comune, per cui vivremmo in una cultura dominata dalle immagini, in cui il codice visivo verrebbe prima di ogni altro.
Per ragionare sulla questione, e soprattutto per orientarsi nell’attuale produzione verbovisiva (come gli specialisti talvolta la definiscono), uno strumento utilissimo, se non proprio indispensabile, è rappresentato da Storie a vista, di Giuseppe Carrara. Pubblicato a fine 2020 da Mimesis, nella collana Eterotopie, il libro si concentra su una in particolare delle forme in cui si declina il rapporto fra scrittura e arti visive, e cioè quella fototestuale. Per dirla in modo grossolano, Carrara si occupa di quei testi (e nello specifico, di quei testi in prosa) in cui alle parole si affiancano fotografie.
Non si tratta del primo studio che affronta la questione. Negli ultimi anni sono stati in molti hanno a riflettere sul nesso parole-fotografie, a partire da Michele Cometa, ai cui studi pioneristici è impossibile non fare riferimento, fino ai lavori più recenti di Andrea Cortellessa, che a una Storia e tipologia del fototesto italiano ha dedicato un corso all’Università di Zurigo (qui liberamente accessibile), e che assieme a Federico Ferrari e Riccardo Venturi ha poi fondato “Antinomie”, blog collettivo che si occupa di “scritture e immagini”. Tuttavia – spiega Carrara –, nessuno aveva mai affrontato la questione in modo organico, cioè tentando di abbozzare una «sistemazione storico-letteraria del fenomeno», e insieme una sua ricostruzione «sul piano teorico».
In effetti, è proprio su questi due assi – un asse teorico e uno storico – che Storie a vista è costruito. L’obiettivo di fondo è anzitutto quello di definire l’oggetto di indagine nel modo il più preciso possibile. Del resto, i fototesti non sono semplicemente opere – come io stesso le ho definite poco fa – che contengono fotografie. Si tratta semmai di testi «che mettono in continua tensione due media, un’interrelazione che contribuisce a generare un significato terzo, dato dal costante dialogo tra la fotografia e la parola scritta». Ovvero – con un concetto ripreso da un altro importante lavoro sull’intreccio di parole e immagini, Un romanzo per gli occhi di Daniela Brogi –, il fototesto può essere considerato un «ecosistema», «una struttura complessa, aperta e reticolare di elementi», che dialogano, entrano in conflitto e sono co-implicati «in un continuo interscambio».
Ma alla base di Storie a vista c’è soprattutto il tentativo di mettere in pratica queste definizioni, ragionando, come indica il sottotitolo, sulla retorica e sulle poetiche fototestuali, cioè sui modi in cui si articola la relazione fra parole e fotografie. Il plurale è d’obbligo, vista la diversità delle soluzioni praticate e praticabili. Per dirne una, un conto sono quei testi in cui le immagini per lo più si limitano a illustrare ciò che le parole già dicono, e un conto sono quei testi in cui le parole aggiungono qualcosa a ciò che è scritto, o addirittura lo contraddicono. E d’altra parte, un testo in cui le fotografie sono «montate» senza essere in alcun modo descritte è molto diverso da un testo imperniato su una logica «ecfrastica», in cui cioè le fotografie, oltre a essere riprodotte, sono anche descritte a parole.
Certo, come lo stesso Carrara ammette, solo in astratto i fototesti possono essere classificati in compartimenti stagni. Nel concreto, qualcosa sfugge inevitabilmente ai tentativi di classificazione, tanto più in un ambito il cui sviluppo è stato sempre «episodico e rizomatico», il prodotto di una serie di tentativi isolati più che di una storia lineare e coesa. Ma il punto è che sforzarsi di astrarre il discorso, cioè di ricondurre i testi a categorie più generali, aiuta ad avere una visione meno impressionistica dei fenomeni studiati.
Così come è indubbio che storicizzare il discorso aiuta a cogliere la complessità delle questioni in gioco. Perché è vero che i fototesti hanno iniziato a diffondersi solo di recente, grosso modo a partire dagli anni Duemila. Non per caso, tutta la seconda parte del libro è dedicata allo studio delle principali tendenze che si sono diffuse dopo quella soglia. E però è anche vero che di fototesti è piena la storia della letteratura, a partire da quel Bruges la morta di Georges Rodenbach (siamo nel 1892) solitamente ritenuto il primo romanzo a fare un uso narrativo delle fotografie (ma Carrara suggerisce che anche prima di quella data ci sono testi riconducibili alla storia della fototestualità).
E poi, certo, nel Novecento sono molte le opere che intrecciano parole e fotografie. Nadja di André Breton, Orlando di Virginia Woolf, 12 Million Black Voices di Richard Wright, ma anche, per restare in Italia, Brutte fotografie di un bel mondo di Delio Tessa, La Divina Mimesis di Pier Paolo Pasolini, Nuovo romanzo di figure di Lalla Romano: tutti testi i cui autori hanno lavorato sull’intreccio in questione; e tutti testi senza i quali sarebbe difficile ricostruire le svolte successive, l’evoluzione di un percorso che solo col tempo ha trovato una vera e propria legittimazione. In effetti, ragionare in ottica storica consente di cogliere come l’intreccio di parole e immagini non sia sempre stato visto di buon occhio, e come anzi quella che oggi è una soluzione diffusissima sia stata a lungo messa ai margini, ritenuta priva di dignità artistica. La storia dei fototesti è in qualche modo anche la storia del loro rifiuto, di una tensione in senso lato iconofobica – come la definisce Carrara – che ha le sue radici nell’Ottocento, per esempio nelle prese di posizione di chi, come Baudelaire, negava che la fotografia fosse una forma artistica, e che poi prosegue in pieno Novecento, se è vero – solo per fare un esempio – che l’edizione illustrata di Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini venne accolta con molto scetticismo, e che del resto lo stesso Vittorini firmò da solo l’opera, relegando Luigi Crocenzi al ruolo di «collaboratore fotografico».
C’è però un altro aspetto che rende Storie a vista un libro importante, oltre che utile, non solo per chi voglia ricostruire la storia dei fototesti o provare a inquadrarli teoricamente. Più che di un terzo asse portante, parlerei di una tensione critica, che si concretizza in analisi testuali dense e acute, disseminate lungo tutto il percorso di ricostruzione storico-teorica. Di fatto, nelle più di quattrocento pagine di cui il libro consiste ogni concetto è esemplificato attraverso dei corpo a corpo serrati con i testi. Dall’Avventura di un fotografo di Italo Calvino ad Absolutely Nothing di Giorgio Vasta e Ramak Fazel, dalle sperimentazioni di Gianni Celati assieme a Carlo Gajani fino a quella specie di mockumentary cartaceo che è Casa di foglie di Mark Z. Danielewski, Carrara si confronta con alcuni dei fototesti contemporanei più significativi; e spesso di questi ultimi coglie aspetti e sfumature in grado di mostrarne l’importanza anche al di là della storia del rapporto fra parole e immagini. In qualche modo, è come se la critica fosse messa a servizio della teoria e della storia, ma allo stesso tempo rivendicasse la capacità di mettere in luce la singolarità dei testi, ciò che di questi ultimi sfugge a ogni tentativo di classificazione.
Insomma, che lo si prenda da una parte o dall’altra, nei suoi risvolti critici piuttosto che nella sua intelaiatura complessiva, è difficile chiudere il libro senza la sensazione di avere imparato qualcosa, tanta è la quantità di materiali discussi e di ragionamenti messi in gioco. Così come è difficile che leggendo non emergano delle domande, ovvero che non si aprano spiragli per percorsi ulteriori, per continuare a ragionare sull’intreccio di questioni che emerge pagina dopo pagina.
Per quanto mi riguarda, e per quanto possa essere interessante, una domanda si è affacciata già dalle prime righe dell’introduzione. Storie a vista si apre su un episodio che ha per protagonista Flaubert, il quale nel giugno del 1862 avrebbe dichiarato senza mezzi termini di non voler illustrare Salammbô, pena il rischio di «fissare il personaggio in una unica rappresentazione, cancellando la possibilità di quest’ultimo di farsi esemplificazione di mille altre persone». E più avanti nel libro a Flaubert viene data direttamente la parola: «“Mai, mentre vivo, mi illustreranno, perché: la più bella descrizione letteraria è divorata dal peggiore dei disegni” […]. Una donna disegnata somiglia a una donna, ecco tutto. L’idea è pertanto fissata, completa, e ogni frase è inutile». Lette oggi, nel contesto di una cultura sincretica qual è la nostra, le parole di Flaubert suonano inevitabilmente datate, anzi del tutto inattuali. E d’altra parte è forse Flaubert tutto, ovvero la sua poetica, a suonare fuori tempo massimo. All’idea vulgata della mano dello scrittore che si ritrae, e all’idea, più vulgata ancora, dell’opera d’arte che sembra essersi fatta da sé, oggi non sembrano essere in molti quelli disposti a dare qualche credito. Eppure, proprio quelle parole insinuano il dubbio che le immagini possano essere una scorciatoia, o al limite che dietro la tendenza a incorporarle all’interno dei testi si nasconda l’ansia che le parole di per sé non siano sufficienti. Come se le storie dovessero essere in qualche modo ‘aumentate’ per impattare sul lettore.
Ovviamente, non è questo il caso dei testi e degli autori su cui si sofferma Storie a vista, i quali negoziano in modo virtuoso la compresenza di immagini e parole, e che anzi immagini e parole mettono in conflitto, come viene detto a più riprese. Ma oggi che questa commistione è diventata una sorta di norma, un fenomeno che quasi non ci stupisce più, viene da chiedersi se le fotografie non rischino di perdere parte della loro forza, diventando uno strumento fra i tanti, un ‘di più’ che paradossalmente non aggiunge nulla di decisivo alle storie che leggiamo.